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L’ultimo sospiro di Alexandre Dumas padre di Alfredo Saccoccio

Posted by on Lug 11, 2018

L’ultimo sospiro di Alexandre Dumas padre di Alfredo Saccoccio

  “ Mi  renderete risposta mangiando un tacchino bianco  & un’ aragosta che mi si manda da Roscoff. “ La lettera, datata 15 gennaio 1870, è indirizzata a uno dei suoi fornitori di documenti. Dumas gli chiede della documentazione sulla campagna di Russia e sull’India. Egli aveva appena riletto alcune delle sue opere, giudicando che “Il conte di Monte Cristo” non vale “I tre moschettieri”. Allora egli lavorava alla redazione  di “Hector de Sainte-Hermine”, primo titolo de “Il cavaliere dei Sainte-Hermine”, che ci è dato di scoprire centotrentacinque anni dopo la sua stesura. Un inedito di Alexandre Dumas padre !  Un romanzo abbastanza capitale per essere detto “testamentario” e che sarebbe senza dubbio mancato per sempre al nostro ambito letterario senza Claude Schopp, la sua ostinazione e la sua prodigiosa conoscenza del Dumas.

   L’apparizione di un’opera inedita di un tale autore è già un avvenimento, ma quando quest’opera tiene un posto di questa importanza nella sua produzione romanzesca, quando essa è la parte fin quiì ignorata di una trilogia, l’avvenimento prende la forma di miracolo. Questo “Cavaliere” conclude un insieme che, da Saint-Just a Cadoudal, da Bonaparte a Napoleone, mette in scena i protagonisti del Terrore e del Primo Impero. Dall’11 dicembre 1793, la prima data che compare ne “I bianchi e nei blu”, Dumas crea un’epopea. Lungo tutta una cascata di peripezie, i suoi eroi incrociano Madame de Stael e Chateaubriand, si trovano attori del 18 Brumaio, incontrano, a Napoli, Michele Pezza detto “Fra’ Diavolo”  o Nelson nel corso della battaglia di Trafalgar. Una prodigiosa distribuzione, nella quale il personaggio reale diviene mitico e il personaggio inventato reale.

   Nel luglio del  1830 il Dumas (1802-1870) è sulle barricate parigine; poi, a Soissons, egli partecipa alla spedizione, che, per rifornire gli insorti, si impadronisce di un deposito di polvere  da sparo; nel febbraio 1848, di nuovo le barricate. Egli scrive : “Quello che vediamo è grande, poiché vediamo una Repubblica e, fin qui, non avevamo che rivoluzioni”; nel gennaio del 1860 il Dumas incontra Giuseppe Garibaldi e si conosce il seguito.

                                             Il cittadino e il romanziere

    Mentre il cittadino dava prove del suo attaccamento all’ideale repubblicano, il romanziere non poteva evitare la saga che compongono i tre volumi  che evocano, come detto da lui, “quella grande figura di Bonaparte che si fa Napoleone” e la lotta che oppose i bianchi (realisti) agli azzurri (repubblicani). A questo crocevia, cittadino e romanziere si incontrano. Il 4 settembre 1870, apprendendo la proclamazione della Repubblica, Dumas l’azzurro, già moribondo, asciuga una lacrima di emozione: egli è quello che ha sempre preferito “il repubblicanesimo sociale” a quello dei repubblicani che parlano di tagliare le teste e di dividere la proprietà  e a quello dei repubblicani parodisti e abbaiatori, che innalzano le barricate e lasciano gli altri a farsi uccidere  dietro di esse. Pertanto, come scritto da Dominique Frémy e  da Claude Schopp, “il suo amore della repubblica e della democrazia non gli impedisce di rimpiangere la scomparsa della società cortese dell’Antico Regime”, quella società che, per Dumas il bianco, aveva per qualità “la vita elegante, la vita cortese, la vita che valeva la pena di essere vissuta”. Tuttavia, egli non saprebbe mascherare il fondo del suo pensiero. Quando Alexandre adatta “I bianchi e gli azzurri” per il teatro, gli spettatori possono essere stupiti dall’ultima replica, che rischia di dispiacere fortemente al potere, in quel 10 marzo 1869 della creazione della commedia : “Viva la Repubblica !”

   E’ questo duplice Dumas (in parti molto diseguali, l’azzurro impegnato che la vince di molto sul bianco nostalgico), che dà vita agli antagonisti di quel vasto affresco che si stende su una quindicina di anni. Quindici anni che il romanziere  rianima senza manicheismo. Pur preservati da ogni partito preso,  “I bianchi e gli azzurri”, “ I compagni di Jehu” e “Il cavaliere di Sainte-Hermine”  sono appassionanti, umani, ciò che non toglie niente alla sorta d’angoscia che può coglierci dinanzi alla massa  rappresentata dai tre volumi. Come affrontarli ? Questa serie è stata composta senza rispettare la cronologia. Andando dal 1799 al 1801, “I compagni di Jehu” fu scritto nel 1856, “I bianchi e gli azzurri”, che si svolge dal 1793 al 1799, lo fu nel 1869, come “Il cavaliere di Sainte-Hermine”, la  cui narrazione inizia nel 1801. Questo caos di date non è più un inconveniente, poiché ormai si può partire dalla lotta tra repubblicani e vandeani, per giungere alle battaglie dell’Impero, passando per la società realista, che  prese in prestito il proprio nome da Jehu, il decimo re di Israele, che vinse gli adoratori del dio Baal.

   La vastità di queste circa 2500 pagine ha l’altra qualità, quella di essere “del Dumas” : esse  scorrono, portano via, forti di quella magia della narrazione, che è la sua felice specificità. Certamente, il purista può nutrire una critica, in realtà ben vana. Qui e là, il debito dei dialoghi sa di romanzi d’appendice e Dumas non è Proust. Fortunatamente. Proust non avrebbe mai messo d’Artagnan in azione, Dumas non avrebbe mai orchestrato gli amori di Swann. A ciascuno il proprio genio. E Dumas non  manca di esso, quando evoca lo spirito di un’epoca in poche parole, quando descrive, con un tono poetico che non cede all’esotismo facile, “le notti dell’India”, quando precisa un carattere schizzando un Bonaparte, che, per attirarsi le simpatie, si applica a tenere a mente dei nomi, “una distinzione che non mancava mai il suo effetto”, quando si lancia in pezzi di bravura come in quel capitolo de “Il cavaliere di Sainte-Hermine” su “la polizia del cittadino Fouché”. In poche parole, quando egli è non lo “spirito di quart’ordine”, visto da quel cattivo Sainte- Beuve, ma “il meraviglioso Dumas” che amava talmente Apollinaire.  

                                              Un miracoloso inedito

 

   Nel mondo contadino dell’infanzia di Claude Schopp non si leggeva molto.  Quando egli ebbe buon esito negli studi, scelse Dumas senza avere per lui un’attrazione particolare. Però, presto, questo matrimonio di ragione è divenuto passione. A tal punto che sente ormai per Dumas “un’ amicizia al di là della vita e della morte”. A questa amicizia dobbiamo il conoscere meglio colui che diede così bei figli alla Storia.

   La scoperta di un inedito è la ricompensa del ricercatore. Claude Schopp ne ebbe un bene grande quando ebbe sotto gli occhi i 118 capitoli di un romanzo d’appendice del 1869, “Hector de Sainte-Hermine”. Dinanzi a questo romanzo, “che la malattia e la morte avevano interrotto, quello sul quale la sua penna infaticabile si era infine fermata”, Claude Schopp si dice “così felice come se avesse scoperto l’Eldorado”.

   Il miracolo non si ferma lì. Dopo, il paziente ricercatore ha scoperto tre nuovi capitoli de “Il cavaliere di Sainte-Hermine” (egli non dubita che riappariranno altri capitoli) e, precisa, “partendo dai piani di Dumas”, pensa di scrivere la fine della trilogia rivoluzionaria. Vasto cantiere questa collaborazione Dumas-Schopp (essendo il secondo il meglio qualificato per sposare forma e spirito del primo) ci riserva, dunque, a presto, un nuovo Eldorado.

                                                 Il professore di storia del popolo francese

 

   Durante quella prima metà del XIX secolo in cui Dumas inizia la sua opera enorme, la storia  in quanto disciplina si costituisce poco a poco.  Si è creata sotto la Restaurazione la Scuola delle carte. Prosper Mérimée, ispettore dei monumenti storici, visita e registra le chiese e i castelli. Michelet, Thiers, Quinet elaborano le loro grandi summe monumentali. Gli avvenimenti della Rivoluzione e dell’Impero hanno dato ai francesi la fibra storica. Durante i secoli monarchici, il lento scorrere dei regni, non si vedeva cambiare gran che nel tempo di una vita. Poi la storia si è precipitata. Si oserebbe dire che i francesi l’hanno sentita passare.

   Dumas si impadronisce di qella gigantesca riserva di personaggi, d’avvenimenti, di tragedie, di commedie e di epopee. Altri (Balzac, Hugo) vi hanno pensato,  ma su questo terreno egli li doppia. Dumas ne fa la sua via reale. Egli getta innanzitutto la storia sulla scena: “ Enrico III e la sua corte” è , prima di “Ernani”, il primo trionfo del dramma romantico “in costume”. Poi, ricordandosi dei successi di Walter Scott, Alexandre spande la storia nel genere più popolare del tempo : il romanzo d’appendice.

   E’ lì e grazie a lui che migliaia di francesi, prima che la scuola repubblicana non abbia imposto Mallet ed Isaac, hanno appreso chi erano la regina Margot, Mazarino e il sovraintendente Fouquet. Sulle tracce del giovane Ascanio, allievo di Cellini, essi hanno scoperto Chambord e Francesco I. Nei passi del misterioso Balsamo e del simpatico Gilbert, la Parigi di Luigi XV,  Versailles e Trianon.

   Conveniamo che le sue vedute storiche sono talvolta discutibili. Egli non ha compreso niente di Richelieu e lo troviamo molto ingiusto verso Luigi XVIII, ma è questo l’essenziale ? Alain Decaux ha detto, un giorno, che la sua vocazione di storico era nata perché voleva sapere quello che c’era di vero o di meno vero ne “Il conte di Montecristo”. La storia è un racconto. Lo si corregge, lo si riprende, lo si migliora. Aggiungiamo  che, per il gran numero tanto bene quanto per la giovane età, occorrono immagini forti, che colpiscano lo spirito ed impregnino la memoria. Non si è capaci, a 10 anni, di essere all’altezza della Scuola degli Annali.

   Non crediamo  che Dumas eserciti una grande influenza sulla letteratura odierna. Sicuramente  non in ogni caso su quello che è il più alla moda. Fabrice Lardreau ha trovato, un giorno, questa formula :” il povero spazio-tempo del romanzo contemporaneo”. Autofiction, rimuginii amorosi.

   Il romanzo considerato un annesso del divano. Il che, del resto, ci pare cedere alla pressione ambientale. Tutto sembra cospirare a chiuderci in un qui ed ora, che ci fornisce il suo pronto a pensare nello stesso tempo che il suo pronto a consumare . Vedete quello che resta della storia  nello sbalorditivo gioco televisivo “Il reame”. Sarete edificati. 

   Ora noi aspiriamo, tutti, a ricollocarci in temporalità lunghe. Privare lo spirito della durata, del sentimento dei secoli, è incarcerarlo. Le recenti polemiche sulle colonie e sulla schiavitù hanno mostrato,  causando alcune bestialità, quel bisogno che abbiamo, per essere noi stessi, di sapere da dove veniamo.Si direbbe bene che il pubblico, il grande pubblico delle persone che “amano leggere”, molto semplicemente, lo sa spontaneamente. Allora esso si avventa su Dumas (e su Dan Brown, ahimè…).

   Però  non entriamo in considerazioni troppo gravi, che mal si confarrebbero al Dumas. Non dimentichiamo, in ogni caso, quello che fa il suo fascino più radioso : una continua e visibile felicità di raccontare. Romanziere sovrabbondante, viaggiatore infaticabile, innamorato e buongustaio, Dumas sembra di non avere avuto durante tutta la sua esistenza che un solo dio : il piacere. Ciò deve essere comunicativo.

                                              Nel pantheon dell’edizione

  La gloria è capricciosa. Prendete l’autore  de “I tre moschettieri” : egli è ora incensato, qualificato “ il  più grande romanziere francese di tutti i tempi”, portato nel Pantheon, nel novembre del 2002 (un destino che solo cinque altri scrittori di primaria importanza hanno potuto conoscere : Voltaire, Rousseau, Hugo, Zola e Malraux). Tuttavia, da vivo, Alexandre Dumas  non ha incontrato il millesimo del prestigio che gli accorda la nostra epoca. Si aveva annunciato la sua morte due mesi prima che egli ne sia effettivamente deceduto e la sua scomparsa era passata quasi inosservata. Didier Decoin, presidente della Società degli amici di Alexandre Dumas, racconta questo aneddoto : Victor Hugo stesso non avrebbe saputo, con costernazione, la morte del suo caro confratello che tramite dei giornali tedeschi ! Umiliazione suprema, il “Lagarde & Michard l’ha superbamente ignorato, non un rigo consacrato a colui che aveva firmato 646 titoli e creato 37.267 personaggi.

   L’immenso successo del Dumas risale agli anni 1980. Egli ha ben conosciuto un corto periodo prodigioso (dal 1840 al 1848), ma era soprattutto in quanto autore drammatico e appendicista. Il romanziere era completamente relegato in secondo piano. 

   Ora il grande dimenticato è divenuto la fortuna degli editori. Regolarmente si pesca un “inedito”, che è, il più spesso, un romanzo d’appendice pubblicato nei quotidiani dell’epoca e mai editato in intierezza. Ogni volta il pubblico segue, allettato da una nuova storia firmata dal padre di D’Artagnan. Le ultime datate, costituite dalla trilogia de “Il cavaliere di Sainte-Hermine”, hanno dato una spinta propulsiva all’editore Phébus : in totale,  sono state vendute quasi 100.000 copie.

   Il fenomeno è eccezionale. Anche morto da centoquarantotto anni, Alexandre Dumas resta prolisso e generoso. Le case editrici possono dirgli grazie : nel 2005 sono stati pubblicati 220 suoi titoli da settantacinque editori differenti. E i lettori sono andati in sollucchero : nel 2005 sono stati  venduti 201.000 copie  dei suoi libri. L’autore de “il conte di Monte Cristo” aveva ugualmente fatto la fortuna delle edizioni Robert Laffont, che aveva pubblicato l’insieme dei suoi grandi romanzi in nove, grossi volumi (una media di 1.500 pagine ciascuno) tra il 1993 e il 2001. La Pléiade, nel 1950, si era accontentata di selezionare tre opere.

                                         Dumas crea la “sete di leggere”

   In formato tascabile, l’autore del “Visconte di Bragelonne” tiene la cadenza infernale di 200.000 copie vendute ogni anno. A titolo indicativo, per quanto concerne il libro tascabile, si stima che le vendite accumulate da un decina di anni si innalzano a più di 800.000 copie, essendo “I tre moschettieri” e “Il conte di Monte Cristo” i più popolari. Solo Victor Hugo ed Emile Zola fanno meglio, perché questi ultimi hanno avuto la possibilità di essere raccomandati da parecchio tempo dall’Educazione nazionale, mentre Dumas è escluso dai programmi scolastici.

   Allora come spiegare un tale successo durevole ? Non sappiamo se si legge Dumas nella misura in cui lo si compra,  ma crediamo che egli seduca ora perché si rivolge ad un lettore un poco anziano, che avrebbe conservato una certa nostalgia. Egli simboleggia il gusto della Storia, del tempo passato. Dumas è l’alleanza del piacere e del sapere, a detta di Claude Schopp, specialista dell’illustre uomo di lettere , che ha scoperto  la maggior parte degli inediti.

   Per Didier Decoin, Dumas “crea la sete di leggere”, secondo i termini della lettera che egli aveva scritta al presidente della  Repubblica, affinché lo scrittore entrasse al Pantheon. E di aggiungere : “Egli ha così spesso fuso la storia letteraria e la storia di Francia”.

   Meglio : il Dumas ha preso una dimensione internazionale. “E’ ciò che mi stupisce, racconta un libraio parigino che si reca spesso all’estero, credevo che d’Artagnan o Edmond Dantès non fossero che degli eroi franco-francesi. Ora, il mito è divenuto universale.” ed esso non è vicino a spegnersi. Esistono ancora degli inediti importanti, di cui una in versione italiana (Dumas ha passato tre anni a Napoli). Il manoscritto in francese non esiste più. Il suo titolo ? “I Borboni di Napoli”. Il prossimo successo firmato Dumas ?   

                                                    Una buona fortuna per la televisione e il cinema

 

      Se lo scrittore è stato ignorato dall’Educazione nazionale, il grande e piccolo schermo hanno sempre accordato un bel posto ad Alexandre Dumas padre. Il grande pubblico lo conosce, dunque, di più grazie ai films. Difficile valutare il numero di adattamenti. Si evoca la cifra di duecento per il solo cinema. A ciascuno dei suoi passaggi, il successo è assicurato. Gli eroi creati dal Dumas fanno sempre sognare e, ogni volta, sono serviti ad un cartellone prestigioso. L’ultimo dei quattro episodi de “Il conte di Monte Cristo” (con Depardieu nel ruolo-titolo), diffuso sul primo canale televisivo francese, ha molto semplicemente realizzato uno dei maggiori ascolti della storia della televisione francese  : quella sera, nel dicembre del 1998, tredici milioni di francesi si trovavano dinanzi il loro schermo a seguire la storia di Edmond Dantès ( tuttavia rimaneggiata da Didier Decoin). In totale, l’episodio è stato visto da più di cento milioni di telespettatori in 104 Paesi. Il telefilm “D’Artagnan e i tre moschettieri” (ancora sul primo canale televisivo transalpino, nel dicembre del 2005, con Emmanuellen  Béart) ha attirato dieci milioni di curiosi, benché i puristi abbiano potuto indignarsi della maniera  con cui il romanzo è stato liberamente adattato.

   “La regina Margot” (una pellicola di Patrice Chéreau, con Isabelle Adjani e Daniel, girata nel 1994) aveva realizzato il miglior “box-office” dell’anno. Questi successi portano sempre più lettori. E’ evidente che gli adattamenti al cinema e alla televisione fanno lievitare le vendite in libreria. E’ stato il caso di “La regina Margot”, le cui vendite sono state moltiplicate per dieci dopo il film di Patrice Chéreau, o de “Il  conte di Montecristo”, che ha visto moltiplicare il numero  di copie vendute per otto. 

(166 righi-Inedito)

                                            Siete voi Erasmo da Rotterdam o Machiavelli ?

 

   Si dovrebbe offrire  l’opera “L’educazione del principe cristiano” di Erasmo da Rotterdam a Pierre Moscovici. E a tutti quelli che, come il commissario europeo, negano con veemenza le radici cristiane dell’Europa. Tutti quelli che, come lui, gridano al razzismo o all’islamofobia, mentre un impudente osa parafrasare il generale de Gaulle  rammentando le origini greco-romane e giudeo-cristiane dei popoli francesi ed europei. Questo libro si intitola anche “O l’arte di governare”, uno dei classici della filosofia politica del Rinascimento, che, nonostante i secoli passati, non ha preso una ruga. All’epoca, caro Pierre Moscovici, eminenza socialista, le due espressioni sono sinonimi.

   La prosa è cesellata, elegante e concisa.  Non c’è  pagina che non sia infarcita di riferimenti ai filosofi greci, agli imperatori romani e ai profeti ebrei, dati alternativamente da modelli o da contrasti ai nostri princìpi cristiani. L’olandese Erasmo da Rotterdam, al secolo Geert Geertsz, fu uno di quei grandi umanisti del Rinascimento, sulle spalle del quale noi altri, poveri nani moderni, continuiamo a pavoneggiarci, anche Pierre Moscovici. “L’educazione del principe cristiano” è uno dei suoi libri più celebri, che fu un enorme “bestseller” nella sua epoca, tradotto in tutta Europa. La sua ispirazione ci mostra che il Rinascimento non fu quell’impresa di decristianizzazione che i nostri contemporanei futili vogliono vedervi. Erasmo era un grande letterato, che scriveva in latino e che leggeva il greco antico, ma  che non  continuava meno l’opera della Chiesa, che, sin dal Medioevo, aveva elaborato un ritratto del principe ideale, preoccupato del bene comune, la famosa “Res publica”, sforzandosi di disciplinare gli istinti bellicosi dei principi e di limitare i danni delle guerre sulle popolazioni. Il suo vero oppositore non è dunque la Chiesa, anche se l’opera di Erasmo sarà messa all’indice nel furore della Controriforma dal concilio di Trento, nel 1559, ma Machiavelli.

   I due uomini sono nati nello stesso anno, nel 1469. Le loro fonti antiche sono le stesse, ma essi non 

ne fanno lo stesso uso. I due partono dalla stessa parola in latino, “virtus”, ma non ne hanno la stessa lettura. Per Erasmo, “virtus” dà virtù, nel senso in cui l’intendiamo oggi (temperanza, misura, giustizia, pace). Con Machiavelli, si si ritorna all’etimologia di “virtus” : “vir” in latino significa uomo ; e la “virtù” diviene per il toscano quella ricerca indispensabile dell’energia virile indebolita dalle “virtù” femminili.

   Erasmo proviene da Venere e Machiavelli da Marte. Erasmo chiama tiranno quello che Machiavelli chiama grande principe. Erasmo foggia un re-filosofo alla Platone ; Machiavelli, un politico scaltro ed impietoso. Questi raccomanda al suo principe di essere insieme “leone e volpe” quando quell’altro rigetta questi paragoni animaleschi citando Diogene, a cui si chiede qual è l’animale più nocivo : “Se  parli delle bestie selvagge, è il tiranno ; se parli degli animali  domestici, è l’adulatore.”

   E’ vero che i due uomini non consigliano lo stesso personaggio. Erasmo scrive ad un giovanotto di sedici anni, che si appresta ad ereditare un Impero già edificato : Carlo Quinto ; Machiavelli mormora all’orecchio di un principe italiano, che sogna di unificare l’Italia dietro di lui : Lorenzo dei Medici. “Le parole dominazione, impero, regno, maestà, potenza, sono pagane e non cristiane ; il potere cristiano non è nient’altro che l’amministrazione dello Stato, la beneficenza e la protezione.” Erasmo è l’antiMachiavelli. I monarchi del Rinascimento furono fin da allora dichiarati di essere Machiavelli o Erasmo, come, più tardi, si sarebbe Voltaire o Rousseau, de Gaulle o Pétain, Sartre o Camus, Rolling Stones o Beatles. Però, bando agli scherzi, Machiavelli resterà  la splendida e riverita guida dei nostri grandi politici e dei nostri grandi conquistatori ; Erasmo è il padre spirituale spesso misconosciuto delle nostre monarchie amministrative e dei nostri Stati-provvidenza. Machiavelli separa la morale privata dalla morale pubblica ; Erasmo cerca  di riconciliarle. La grande linea politica francese, da Richelieu a de Gaulle, passando per Bonaparte, è figlia di Machiavelli. Però i pacifisti alla maniera di Jaurès o di Briand, o i democratici cristiani, padri dell’Unione europea del dopoguerra, o anche i partigiani del diritto di ingerenza in nome dei diritti dell’uomo, sono, senza saperlo, gli eredi di Erasmo. La pace è il bene supremo di Erasmo, la guerra è per Machiavelli la continuazione della politica con altri mezzi.

   Però i due uomimi sono tanto complementari quando sono opposti. Machiavelli serve a conquistare il potere, Erasmo a conservarlo. Machiavelli vince le elezioni, Erasmo gestisce il Paese. Certi suoi precetti dovrebbero  ispirare i nostri governanti attuali : “Il migliore mezzo per un principe di aumentare le sue risorse è  di limitare le sue spese… Non è la quantità delle leggi che fa la salute dello Stato.” Per i difensori impenitenti  dell’assistentato . “Il principe deve vigilare tutto particolarmente a      conservare il meno possibile questi oziosi nel seno del suo popolo : o lo spingerà a lavorare, o li espellerà dal paese.” Per gli  ossessionati dell’uguaglianza, che confina con l’ugualitarismo : “Non cè uguaglianza quando tutti hanno le stesse prerogative, gli stessi diritti e gli stessi onori. E’ anche là talvolta la peggiore ineguaglianza.” Per  tutti i maniaci del prodotto nazionale grezzo : “ Ci sono tre  sorte di beni : i beni dell’anima, i beni del corpo e i beni esteriori ; occorrerà vigilare a  non misurare la fortuna della città essenzialmente con i beni esteriori.”  E l’avvertimento più attuale per i politici, che valgono cento sondaggi, venuto direttamente da Aristotele : “Due parole rovesciano i poteri : l’odio e il disprezzo.”

   Infine,  un ultimo, piccolo, per la strada : “Non bisogna legarsi strettamente a popoli che una religione differente ci rende estranei… Questi popoli non li dobbiamo né farli venire verso di noi né tentare di avvicinarli. “ Un ultimo regalo per voi, caro Pierre…

Alfredo Saccoccio

 

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