Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’uomo della pietra abitò nell’odierno Parco dei Monti Aurunci

Posted by on Feb 15, 2017

L’uomo della pietra abitò nell’odierno Parco dei Monti Aurunci

Il Parco Regionale dei Monti Aurunci, un prezioso scrigno, soprattutto per i botanici, che hanno censito oltre 1900 specie diverse di piante, tra cui più di 50 varietà di orchidee, ha un particolare valore ambientale, paesistico e storico-culturale. Il suo territorio, esteso per ettari 20.633, ricadenti in 10 Comuni, 4 Comunità montane, a cavallo delle province di Latina e di Frosinone, è ricco di ambienti naturali di eccezionale bellezza, di resti archeologici, di complessi storici e monumentali, alla cui fruizione si oppongono ostacoli di vario ordine. Esso possiede, oltre ad insediamenti urbani di origine antichissima, fiumi, torrenti e grotte, una fauna ed una flora da preservare e da restituire al servizio di un’intera regione, dove la scarsità di verde pone numerosi problemi per le popolazioni.

Il Parco Regionale dei Monti Aurunci costituisce un terrazzo sul mare, con possibilità di ispezione visiva, dal Vesuvio al promontorio del Circeo, dalle Isole Ponziane al massiccio appenninico della Maiella e del Parco d’Abruzzo.

Questa terra d’elezione ha mantenuto le stigmate delle antiche popolazione aurunche, le quali, a loro volta, ereditarono gli spazi “vissuti” in periodi antecedenti da popoli di cacciatori, di allevatori di bestiame e di agricoltori, che furono i primi ad apportare modificazioni al territorio, ricco di storia e di seduzione, di leggende e di tanti figli illustri.

Il paesaggio che percorrevano gli Aurunci, e prima di loro altre italiche genti, era forse assai differente da quello odierno, soprattutto per la maggior estensione dei boschi, con alberi giganteschi e piante a noi sconosciute, dove gli animali erano liberi con i loro ritmi di vita.

L’itinerario del Parco Naturale dei Monti Aurunci è tra i più interessanti fra quelli del Lazio, punto di transizione tra l’area appenninica centrale e quella meridionale. Un itinerario che permette di godere panorami unici, vedute singolari, insigni monumenti, clima eccellente, sapori particolarissimi.

Le prime tracce storiche accertate dell’insediamento umano su questo territorio sono attestate dal ritrovamento fatto ad Itri, oltre 140 anni fa, di una stazione neolitica, in cui furono rinvenuti raschiatoi, frecce, lance, accette, coltelli, punteruoli in pietra levigata e in ossidiana, di gustosa e morbida opera. Molto probabilmente gli oggetti dovevano far parte di una “officina litica”, molto prospera e progredita.

Del periodo eneolitico (3.000 -2.000 a. C.) è la stazione di Valle Oliva, località in territorio di Itri, in cui venne scoperta una coppa a forma di globo, costruita a mano, con bocca rientrante, con manici ad anello schiacciato, ornata sulla spalla da una striscia irregolare, a zig zag, e ruvidamente incisa in un duplice ordine di zanne di lupo. Il manufatto, di colore marrone, a macchia e lisciato, poteva mettersi in relazione con un altro modello venuto alla luce nel medesimo sito preistorico, assieme a numerosi frammenti di ceramica, recuperati, nel 1936, in una grotta, dal Ministro della Pubblica Istruzione, Sen. Pietro Fedele, sposato con l’itrana Tecla De Fabritiis, grazie a ricerche di superficie. Il boccale monoansato, di forma globulare schiacciata, rinvenuto intero, che apparteneva probabilmente al corredo di una sepoltura, era conservato nella torre di Pandolfo Capodiferro, alla foce del Garigliano, una sorta di museo della cultura aurunca, andato distrutto nel corso dell’ultimaq guerra mondiale, perché la “turris ad mare” fu fatta saltare dai soldati tedeschi. Era sparita un’opera archeologica del Bronzo Medio iniziale, della cultura del Gaudo (Campania). A quell’epoca questi sensazionali reperti rappresentarono l’esaltante conferma archeologica della presenza di un insediamento abitativo preistorico risalente all’età del bronzo, del II millennio a. C., una datazione che testimonia l’esistenza, a Valle Oliva, di una vita nomade dei pastori oppure, più verosimilmente, di una vita stabile degli agricoltori.

Fu, questo, il periodo in cui c’è la progressiva rinuncia al nomadismo, che viene sostituito dalla pratica agricola, più evoluta e potente della precedente cultura, basata sulla caccia, sulla pesca e sulla pastorizia. C’è da parte di questi uomini un rifiuto a favore dello stanziamento fisso rinunciando alla transumanza.

Nascono le capanne e i “pagi”. Si esce dalla preistoria per rifugiarsi nel mito, connesso alla genesi di una progressiva religiosità naturalistica tendente a personalizzare gli elementi e le loro manifestazioni cosmiche; si esce dalla tenebra fonda per prendere forma e colore.

Con l’agricoltura, arriva un impressionante ritmo di progresso e l’uomo diventa sempre più padrone di una gamma più vasta di materie prime. Siamo ai primi passi di un’evoluzione che conduce l’uomo a trionfare sull’istinto e sulla natura ostile. Egli compie il passo più decisivo verso la luce dello spirito superando il periodo in cui le spoglie di chi soccombeva venivano divorate dai sopravvissuti o abbandonate alle fiere.

Siamo in presenza di un uomo di notevoli capacità reattive, in grado di inserirsi nell’ambiente e di dominarlo quanto basta a sopravvivere piuttosto bene. Non era un bruto di poco cervello, vivente nel terrore e nella miseria di un ambiente estremamente nemico ed incomprensibile. Era un uomo intelligente e non “un sempliciotto che gesticola in fondo ad una grotta”; un uomo che lottava con successo, grazie ad armi acuminate atte a tagliare a e ferire, con l’ “ursus spelaeus”, un terribile orso, di dimensioni gigantesche, i cui resti fossili risalgono al periodo glaciale, abitatore delle caverne, contese dall’uomo anche alle iene e al leone.

L’uomo di Valle Oliva dimostra di avere posseduto una cultura complessa, derivante da un’indiscutibile capacità organizzativa e di risposta ai problemi causati dall’ambiente stesso. Quest’uomo non era un parente dell’animale, non era una belva tra le belve, che sbranava la vittima ancora viva, forse addirittura il suo nemico. L’uomo era veramente uomo e nel suo cuore era già accesa la fiammella divina. Non sapeva scrivere, è vero, non parlava un eloquio colorito e movimentato, forse balbettava, ma già tramandava la storia della sua esistenza, attraverso schemi e convenzioni figurative.

Questa coppa globosa testimonia non solo un artigianato locale, ma anche rapporti commerciali, diretti o indiretti, con luoghi assai lontani svolgendo una funzione mediatrice tra la Campania e il “Latium vetus”.

La caverna-rifugio di Valle Oliva, che nella cultura arcaica sottendeva il binomio vita-morte, ci offre un esempio di trapasso della civiltà italica, tra la fine del neolitico e l’inizio dell’età dei metalli. Per noi le immagini della grotta restano le più fascinose proprio per il contrasto della natura incolta e per la violenza del mondo in cui furono realizzate. L’artigiano, che non possedeva ancora un organico linguaggio parlato, che non aveva ancora un’organizzazione sociale, che era senza dubbio uno sbranatore di carni crude, definito “cacciatore e raccoglitore”, perché si limitava a raccogliere, per il proprio sostentamento, ciò che la natura spontaneamente gli offriva, schiavo dunque della più assoluta casualità e del capriccio degli elementi, sente, imperioso, l’istinto di sopravvivenza, ma anche il bisogno di esprimersi figurativamente. Il “faber” crea per propiziarsi la caccia e l’agognata preda? Per vincere la solitudine? La prima ipotesi sembra scientificamente accertata.

La storia dell’uomo sta scritta su un libro sgualcito, di cui possediamo soltanto poche pagine, le ultime. E’ una storia ancora piena di lacune, di incertezze, di interrogativi e di problemi. Una pagina di essa riguarda Fondi, dove, sulle sponde del lago, furono scoperti, oltre 20 anni fa, tre vasti siti preistorici, in cui furono rinvenuti 1500 reperti di “superficie”: raschiatoi, bulini, lame, punte di freccia, oggetti e frammenti di ossidiana, la tagliente pietra vulcanica proveniente dall’isola di Palmarola. Precedentemente, al Salto di Fondi, presso la torre di Sant’Anastasia, furono rinvenute frecce perlacee e cuspidi dell’età neolitica, oggetti di grande bellezza realizzati con abilità ed ingegnosità da mani di ignoti uomini, 3.500 anni or sono.

Di questi popoli autoctoni, restano terrazzamenti di massi enormi, in muratura poligonale, che qualche studioso locale di antichità sostiene essere stati costruiti da uomini di statura e forza eccezionali.

Una leggenda che, un tempo, si udiva raccontare ad Itri diceva che le mogli di questi uomini giganteschi (i rozzi ed antropofagi Lestrigoni dell’episodio omerico?), provviste, anch’esse, di forza straordinaria, portavano loro i massi raccolti sui monti vicini, trasportandoli sul capo, avvolto da un semplice cercine. Le donne percorrevano il cammino filando la rocca e chiacchierando.

Le leggende sono sempre pittoresche e più fascinose della storia. Non erra, però, chi pensa che le grosse pietre vennero tratte dai monti, sui quali si edificavano le arci e le “cittadelle”, tutte orientate a levante, e fatte rotolare poi o fatte scivolare, dopo la squadratura, fino al posto dove dovevano essere collocate.

Queste rudimentali, ma salde ed efficienti cinte ciclopiche, che richiamano alla memoria un’epoca in cui favola, leggenda e storia si confondono in un suggestivo ed affascinante mistero, fecero definire dal Pflaummern, nel “Mercurius Italicus” (1628), l’aspro e pittoresco Itri “oppidum saxeum”, mentre dal poeta tedesco Giorgio Fabricio e detto “oppidum fumosum”.

A questi blocchi di pietra ciclopici, del peso di varie tonnellate ciascuno, che rivelano una tecnica edilizia grandiosa, segue poi la vita in comune, l’aggregazione in leghe, l’organizzazione poliade. Con la vittoria dei Romani sugli Aurunci, nel IV sec. a. C., la storia si affaccia alla ribalta. C’è la conquista di questo lembo del territorio aurunco da parte dei Romani, conquista consolidata poi con la terza guerra sannitica (298-290 a. C.). Pochi anni prima, nel 312 a. C., viene costruita, ad opera del censore Appio Claudio Ceco, la via Appia, che costituisce la prima, vera opera urbanistica di strutturazione del territorio laziale e della Terra di Lavoro, da Roma a Capua, un’opera imponente che dette uno sbocco al commercio e lavoro alla massa di poveri che affollava l’Urbe.

Alfredo Saccoccio  

 

 

 

 

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