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Machiavelli: l’eterno consigliere del principe

Posted by on Mag 31, 2017

Machiavelli: l’eterno consigliere del principe

E’ un libro di cucina che ha fatto la sua fortuna, ma si tratta di quella cucina ben particolare, che preparano accuratamente (cuociono a fuoco lento) i principi e di cui noi rimaniamo, il più spesso, con il danno e con le beffe. Machiavelli, nella sua più famosa opera, “Il principe”, ha stabilito le ricette per conquistare e serbare il potere. La questione della legittimità l’interessa meno dello studio del meccanismo per il quale si resta in carica eliminando i propri nemici. Che Machiavelli ritorni tra noi in quest’epoca del “politicamente corretto”, in cui non si osa più chiamare gatto un gatto, in cui la tartuferia è al suo colmo, in cui il cinismo si ammanta quotidianamente di un pathos moralizzatore. Ecco chi non manca di sapore.

Machiavelli è molto più di un grande cuoco del potere. Anche se dà alcune ricette utili per l’uomo politico, come Balthazar Gracian, a cui somiglia, ne dà per l’uomo privato (l’uno e l’altro con così poco sentimentalismo). Egli è innanzitutto un pensatore, un teorico politico di una grande apertura. Si potrebbe dire che Niccolò è uno dei primi ad aver reciso il cordone ombelicale che legava il politico al religioso, aprendo così la via alla futura scienza politica. Il Machiavelli non sognava di farne una scienza esatta, ma di guardare questi fenomeni con l’occhio asciutto, imparziale dell’uomo di scienza.

Realista, più ossessionato dal potere che realmente spinto da convinzioni, egli non privilegia alcuna forma particolare di governo. Il migliore è quello che dura. Proudhon l’ha ben visto: “Per lui, il governo non è l’applicazione della giustizia alle cose dello Stato, è l’arte di installarsi al potere, di esercitarlo, di mantenervisi con tutti i mezzi possibili, all’occorrenza con la giustizia ed anche con una Costituzione”. I consigli che dà, che chiama le “scelleratezze generose”, non sono di quelli che lo faranno apprezzare dagli amici di Bernard Kouchner: “Fare tutte le crudeltà necessarie con un sol colpo per non ritornarvi affatto tutti i giorni”.

Machiavelli scrive come avrebbero scritto Luigi XI, Luigi XIV e Napoleone, se le circostanze li avessero portati a riflettere sul potere, invece di esercitarlo. La sua opera molteplice (vi si trova un saggio sull’arte militare ed una commedia, “La mandragola”), la sua personalità di consigliere occulto sempre minacciato dalla disgrazia, quel suo miscuglio di serio, di gaiezza e d’umorismo (scriveva canzoni per la sua amante redigendo le sue austere riflessioni su Tito Livio) l’hanno fatto amare dagli scrittori. Questi hanno visto in lui un fratello e quell’uomo che ha conosciuto tante disgrazie accanto ai politici che egli serviva non ne ha conosciuto accanto agli uomini di lettere. Egli li ha tutti sedotti, anche Jean Giono, il saggio di Manosque: “Egli ha tanto disprezzo per l’anima umana, che, per lui, un uomo di fiducia è un uomo che egli può comprare. Sa che non ci si può fidare del tutto che delle debolezze”.

Machiavelli: il sesamo del potere

L’autore de “Il principe” ritrovò, anni fa, sotto la penna del grande erudito, storico della filosofia, Eugenio Garin, una nuova giovinezza. Se non si leggono che i libriccini, come diceva, pare, la marchesa Arconati Visconti, allora scommettiamo che il saggio di Garin su Machiavelli riporta un franco successo. In alcune decine di pagine (110) molto limpide, Il grande universitario italiano ci offre una lettura originale del lavoro del più celebre pensatore fiorentino. Sarebbe inutile voler riassumere tanto bene “Il principe” quanto i “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”. Forse basta ricordarne semplicemente l’immortale portata, che può, inoltre, trovare oggi una certa attualità.

Machiavelli concluse, in realtà, “Il principe” lagnandosi della sorte dell’Italia, la cui situazione è, nel 1525, “al suo punto più basso”. Però egli nega ogni fatalismo. Niccolò aggiunge che l’Italia non può che rialzarsi, “non potendo le cose più discendere, conviene che esse risalgano”. La lettura di Machiavelli offre una risposta temporale a tutti i “declinologi”, secondo un’espressione ormai consacrata.

In queste due conferenze di Eugenio Garin, il lettore comprenderà meglio l’importanza e la modernità di Machiavelli e particolarmente il legame tra la politica e la storia nell’opera del grande pensatore toscano. La prima, su Machiavelli e Polibio, mette molto particolarmente in luce l’influenza dei pensatori antichi, da Lucrezio a Tito Livio, sull’autore de “Il principe”. Se egli insiste su Polibio, è perché questo storico greco fu, come l’insegna la tradizione politica, il primo, grande commentatore della Costituzione romana e, a questo titolo, il primo teorico del regime detto misto, governo che segnerà tanto la tradizione politica, da San Tommaso a Montesquieu, e che permette di dare nascita, “mutatis mutandis”, al regime parlamentare.

Garin, però, lumeggia soprattutto l’importanza della concezione ciclica della storia che Machiavelli ha ereditata da queste fonti antiche. Ciò gli permette di affermare che non c’è mai niente di “nuovo sotto il sole” (“Nihil sub sole novum”), poiché “il mondo è sempre stato di una stessa maniera”. Ciò non vuol dire che niente si muove su questa terra, ma che il tempo è paragonabile a una ruota: “Sempre dal bene si discende al male e dal male si risale al bene, perché la virtù fa nascere la tranquillità, la tranquillità l’ozio, l’ozio il disordine, il disordine la rovina; e così dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine nasce la virtù, da questa la gloria e la buona fortuna”.

Una concezione ciclica della storia

Il fiorentino non è, del resto, il solo del suo tempo a pensarla così. Francesco Guicciardini scrive pressappoco la stessa cosa nei suoi “Ricordi politici e civili”: “Tutto quello che è stato nel passato sarà ancora nel futuro”. Questa convinzione spiega la rilevanza che tutti questi autori del Rinascimento fiorentino accordano alla storia. Essi pensano, come i loro omologhi antichi, che “fare politica significa studiare e capire la storia e servirsene”, nota Garin. La storia occupa, del resto, una posizione centrale nell’opera machiavelliana.

Se ne ha una prova straordinaria nelle “Istorie fiorentine”, l’opera meno celebre di Niccolò. Si conoscono soprattutto “Il principe” ed anche, per i più curiosi, i “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, ma le “Istorie fiorentine” restano generalmente neglette, quando l’autore sottolinea che in questo libro si incrociano tre temi cari a Machiavelli: “il pensiero politico, la sua trasformazione in analisi storica, le “cose” stesse della storia di Firenze”.

Oltre al piacere di conoscere meglio quel Machiavelli così misterioso, il piccolo saggio di Eugenio Garin offre la possibilità al lettore di familiarizzarsi con una delle grandi figure intellettuali italiane del XX secolo, scomparsa nel 2004 ed ancora molto misconosciuta all’estero. Nato a Rieti, nel 1909, ma avendo vissuto soprattutto a Firenze, Eugenio Garin ha fortemente contrassegnato parecchie generazioni di filosofi italiani. Egli appartiene a quella grande tradizione di ricercatori e di eruditi che non sono come tanti loro omologhi francesi, sprofondati nel combattimento d’avanguardia o nel gergo strutturalista. Filologo quanto filosofo e storico, egli ha modellato la scuola italiana di storia delle idee. Grazie al suo insegnamento alla “scuola normale di Pisa”, egli ha potuto così dare all’umanesimo del Rinascimento una nuova interpretazione, risituandolo nella sua dimensione globale. Così occorre leggere il suo saggio limpido su “L’Umanesimo italiano”, pubblicato nel 2005, in Francia. Con il suo lavoro su Pico della Mirandola, il simbolo stesso dello spirito enciclopedico del Rinascimento, la cui opera l’avrà accompagnato durante tutta la sua vita, si prenderà in considerazione, soprattutto dalla sua analisi esigente, la rivalutazione degli ambiti spesso trascurati del Rinascimento, come l’ermetismo o l’astrologia, e i loro legami “ambigui” con la nascita della scienza moderna.

Inoltre, in questo spirito libero, la cultura è sempre servita a combattere l’ignoranza, particolarmente quella in epoca fascista. Pubblicando testi di grandi sapienti del Rinascimento, in un’epoca in cui la sola filosofia alla moda era quella dello sport e della forza (certe cose non sembrano decisamente cambiare mai, come avrebbe detto Polibio), egli si metteva ai margini di un Paese che faceva del razzismo un’ideologia ufficiale.

Alfredo Saccoccio

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