Alta Terra di Lavoro

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Metafora del Risorgimento

Posted by on Nov 26, 2017

Metafora del Risorgimento

1861, il Regno delle Due Sicilie, uno Stato florido e ricco, viene cancellato da uno staterello da niente, uno sputo sulla carta geografica, squattrinato fino all’indebitamento.

Cosa è accaduto? Per cercare di comprendere useremo una metafora, come fanno i poeti e gli psicoanalisti, categoria quest’ultima a cui appartengo.

Immaginiamo che quel Regno sia una bellissima donna , ricca, colta, feconda, che ha attirato, e che attira, molti Principi e molti Re, “maritata” con il Borbone. Una così bella donna suscita ovviamente il desiderio e la bramosia di altri uomini, che vorrebbero possederla, ma non possono: è maritata! Insieme al desiderio per lei provano invidia per l’uomo che la possiede.

La cosa di solito, con qualche sospiro, finisce lì. Vorrei ma non posso… Altre volte, invece, accade che un uomo, particolarmente invidioso e avido, non si rassegni, e faccia di tutto per raggiungere il suo scopo. Sottolineo invidioso, oltre che avido.

L’invidia è un sentimento fisiologico di per sé, di cui tutti siamo provvisti, e nasce dall’ammirazione per l’altro… “ma vit’ a cudd ce bella mjjiere ca ten!” e ci spinge ad emulare quelli che invidiamo. Quindi andiamo a cercare una bella donna da conquistare o facciamo la corte proprio a quella…..hai visto mai??? Chiameremo questo tipo di invidia consapevole, “propulsiva” perché ci spinge a costruire qualcosa, senza fare troppo danno a nessuno.

Ma c’è un’invidia “distruttiva” che se ne sta nascosta in fondo all’anima (inconscia, diciamo noi psicoanalisti) e che prospera in una persona psicologicamente impotente, nel senso che non si ritiene capace di realizzare ciò che l’altro ha e allora pensa, crede, che quelle cose può averle solo prendendole a chi le ha. Senza chiedere! (v. nota 1)

Le deve avere per sé, che le merita più dell’altro, perché è convinto di essere “superiore”, “migliore”.

Una scena del film Othello (1995), di Oliver Parker, con Kenneth Branagh nel ruolo di Jago, personaggio centrale dell’opera shakespeariana, divorato dalla gelosia e dall’invidia, il “…mostro dagli occhi verdi che irride al cibo di cui si nutre” (Otello, atto III, scena terza – W. Shakespeare).

Quindi se riprendiamo la metafora della nostra bella Patria dal nome Regno delle Due Sicilie, una bella, ricca, colta donna maritata, il Savoia cosa fa, la corteggia? No, assolutamente! Pieno di sé e del suo livore invidioso la vuole senza chiedere.

Si allea con altri miserabili invidiosi e avidi (v. nota 2)come lui per raggirarla e prenderla con la forza, contro la sua volontà. La isola allontanandone il marito legittimo, il Re Borbone, e poi la prende con la violenza e l’inganno, corrompendo i suoi domestici e uccidendo i suoi figli, mentre i suoi compari, Francia e Inghilterra, lo aiutano ad immobilizzare la vittima, proprio come in uno stupro di gruppo. Da solo certamente non ce l’avrebbe fatta.

Invidia e bramosia sono mossi dal desiderio di possedere, non di amare, quindi cosa fa il violentatore che voleva “possedere” la sua vittima?

Le toglie tutti suoi averi, compresi i documenti, e la butta sul marciapiede, per farne la sua fonte di reddito. Per sé, la sua famiglia e i suoi amici.

Dopo averla spogliata dei beni e degli affetti, distrugge la sua identità con la denigrazione: “sei sporca, povera, ignorante… ” e chiamandola “puttana”. Questo adesso è il suo nome!

I “proventi” di questa “attività” a cui la costringe deve darli integralmente a lui e in cambio le dà giusto l’indispensabile per continuare a “battere”.

L’aggressore è ormai il Padrone della sua vittima, la chiama “puttana”, e le ripete che “tu senza di me non sei niente, non sei nessuno”, per distruggere la sua autostima, e portarla a uno stato di minorità e di inferiorità, di dipendenza psicologica. Povera e sporca intanto lo è diventata per davvero.

Per i futuri figli questa è la realtà, la verità. Sono “figli di puttana”, indegni, contrapposti ai “figli legittimi” del padre “nobile” a cui va dato tutto, per legge, mentre loro, se gli va bene, potranno sopravvivere, purché si tengano sempre un po’ in disparte ed evitino di “rivendicare” alcunché e di “lamentarsi”, soprattutto non si lamentino per carità…

L’ italica “famiglia” è nata così.

La nostra identità peculiare di Duosiciliani, è diventata genericamente di Meridionali, al massimo Terroni, fondata sul sentimento d’inferiorità dell’illegittimo, senza nome e senza diritti.

Quando un essere umano non può, non sa, non trova un modo per sfuggire al degrado, si adatta, e nell’adattarsi assimila lentamente il “modello” proposto dall’altro, finisce  anche con il pensare che forse, in fondo  “è anche colpa mia”, che “sono io che in qualche modo ho provocato”, che “in  qualcosa ho mancato”, “l’altro in fondo ha ragione a disprezzarmi, comincio a disprezzarmi pure io”, “mi sa tanto che quel che ho (di male!) me lo sono meritato, me lo merito”.

Visto come sono finiti (deportati, decapitati, fucilati, bruciati vivi) quelli che si sono ribellati, mi sottometto e mi adatto, in silenzio per non essere ammazzato anche io, sperando in un riscatto futuro. Aspetto, spero, e il tempo passa…

Noi che non siamo stati uccisi e non siamo emigrati, siamo rimasti qui volenti o nolenti, educati alla “minorità”, abbiamo messo in atto un meccanismo psicologico che si chiama “identificazione con l’aggressore” (v. nota 3 ), che conclude il percorso di annientamento iniziato con la violenza, facciamo nostri i valori e i giudizi del nostro aguzzino, rinunciando ai nostri valori che nascondiamo come una vergogna, così credendo che non saremo più derisi e disprezzati, è come se dicessimo: “vedi, ora sono come te, ora ti puoi rispecchiare in me e accettarmi alla tua tavola, apprezzarmi come apprezzi te stesso”. Cerchiamo di compiacere il nostro aguzzino per difenderci dalla sua violenza, per evitarla.

Identificandoci con il nostro aguzzino e compiacendolo accettiamo implicitamente ch’egli è “meglio” di noi, è “superiore” (cosa a cui l’aggressore tendeva!) e che mai arriveremo a eguagliarlo, mai, saremo sempre dei Terroni incapaci e inferiori.

L’autostima scende sempre più in basso, perché quando la vittima cancella la sua identità per diventare a immagine del suo carnefice credendo così di poter esistere con dignità, sta giocando una partita in cui pensa di poter vincere facendo solo autogol. Perde, e contribuisce al successo dell’altro.

Come se ne esce? In psicoanalisi e in psicoterapia, la strada da percorrere per liberarsi da questa trappola mortale è la conoscenza della Verità su sé stessi per il recupero della propria originaria identità.

La verità può anche far male, ma può renderci liberi e padroni di noi stessi.

 

nota 1 – Melanie Klein, Invidia e gratitudine, Martinelli, 1971, pag. 17: “L’invidia è un sentimento di rabbia perché un’altra persona possiede qualcosa che desideriamo e ne gode – l’impulso invidioso mira a portarla via o a danneggiarla”.

nota 2 – ibidem, pag.18: “L’avidità è un desiderio imperioso ed insaziabile che va al di là dei bisogni del soggetto e di ciò che l’oggetto vuole e può dare. Ad un livello inconscio, l’avidità ha soprattutto lo scopo di svuotare completamente, di prosciugare […] e di divorare: in altre parole il suo scopo è l’introiezione distruttiva; l’invidia invece cerca non solo di derubare […], ma anche di mettere ciò che è cattivo e soprattutto i cattivi escrementi e le parti cattive del Sé nell’altro […], allo scopo di danneggiarlo e di distruggerlo. Nel senso più profondo ciò significa distruggere la sua creatività”. Al riguardo non è superfluo ricordare le parole di Carlo Bombrini, governatore della Banca Nazionale nel Regno d’Italia dal 1861 al 1882, che, riferendosi ai “meridionali”, sentenziò: “Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere”.

nota 3 – Anna Freud, “L’Io e i meccanismi di difesa”, Martinelli, 1967, pag. 123: “Assumendo il ruolo dell’aggressore e i suoi attributi, o imitando la sua aggressione, il soggetto si trasforma da minacciato in minacciante”.

 

fonte

brigante.info

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