Alta Terra di Lavoro

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Michele Pezza, detto “Fra’ Diavolo” da Eroe diventa Mito

Posted by on Ago 7, 2018

Michele Pezza, detto “Fra’ Diavolo” da Eroe diventa Mito

Michele serbava Itri negli occhi e nell’anima. Lo vedeva, ne vibrava, si commuoveva. Rivedeva balconi dai tratti fiorenti e ridenti, le rampe della sua casa paterna, la chiesa dove andava a pregare sua madre, a due passi dall’abitazione della famiglia Pezza. Poi Arcangela, per un dedalo di viuzze, si spingeva fino ad un negozio, dove comprava certi strani ninnoli per bambini.

 

 

Il condannato a morte ripensava, con una sorte di dolcezza, di abbandono, a quando saliva sul granaio, imbiancato a calce, dove si sedeva in una vecchia seggiola impagliata, qua e là, con strame. Da lassù, il paesaggio si slargava, attraverso i finestroni, e il tramonto assumeva un’altra dolcezza, più meditativa. Da lassù, per mezzo di un oblò, si scorgeva gran parte del paese sottostante e il golfo di Gaeta. Quando soffiava la tramontana, ballavano i serti dell’aglio. dei pomodori, delle cipolle, dei fichisécchi e di tutte le provviste appese lungo le travi.

Ripensava a quando sgattaiolava nella selva del Cuccurone, vibrante dell’aria odorosa della collina, con quel passetto sordo e saltellante; al vecchio somarello spellato, che ruminava qualche cardo.

Erano, le sue, innocenti scorribande cariche di ingenuità. Il suo ciuffo, a sera, dopo quel quotidiano esercizio, era più ribelle che mai e le sue gote si coloravano, alla svizzera. di incandescenti macchie proprio intorno ai pomelli.

Tornato a casa sua, odorosa di legno e di fieno, pacevolmente rustica, dominante il paese e le opposte alture di Campoli e dei Campiglioni, il ragazzo ripensava alle scorrerie che riempivano molte ore della sua giornata. La meta dei suoi desii era soprattutto il castello medioevale ed i boschi del Cuccurone, dai pendii accoglienti, gioiosi, ma anche il giardinetto delle monache benedettine di S. Martino. In quest’ultimo, di mattina e nel primo pomeriggio, andavano le suore, a due a due, coi lunghi passi, sulla bianca ghiaia del vialetto, tra gli alberi frondosi di fico, di arancio e di cedro, vivi di intensa fioritura, lungo i cespi dell’insalata e delle cavolaie, lungo siepi di margheritone, alternate ad azalee, di ogni gradazione del rosso e del viola, che spiccavano, con armonioso disegno, sul verde uniforme del fogliame e che emanavano nell’aria un profumo dolce, eppur leggero. Attorno ragazzi che ruzzavano sbizzarrendosi spensieratamente; popolane che seriamente discorrevano, mentre da Campoli giungeva una bava di aria, a rinfrescare le rose e sbocconcellate lastre della scalèa.

A ripensarci, egli si rendeva conto di essere stato un monello irriducibile e di avere fatto ammattire i genitori, di averne combinate tante e poi tante che frustarlo sarebbe stato poco. Francesco ed Arcangela, benché svelti di gamba e di mano, non riuscivano ad acciuffare quel monello veloce e fulmineo a sgusciare via, più di una lucertola. C’era stato, tra loro, un rapporto di guerra perpetua e di quell’affetto rude inespresso fra esseri della medesima natura. Si assomigliavano sotto la pelle. Certe sue prodezze mettevano in subbuglio il paese. Qualche volta Francesco riusciva, con un’astuzia, a mettergli le mani addosso, assestandogli certi colpi secchi e duri da levare la pelle. Michele, però, protervo, diceva :”Non mi hai fatto male!”. Il ragazzo rideva con la sua smagliante dentatura e si arruffava i capelli crespi per rifare la testa incolta e selvaggia di moretto con il diavolo in corpo. Francesco, se l’agguantava, era per il ciuffo e tirava da scotennarlo.

A frammenti e a sprazzi, il passato risorgeva. Da esso tornò un fulgore delle sue pupille, che, estatiche, rivedevano ciò che il padre faceva per lui; la madre Arcangela che lavorava sveltamente ad un’immensa coperta matrimoniale per una delle sue sorelle, creando con l’uncinetto complicate fronde di cotone bianco, spezzando con i denti il filo di cotone ed iniziando una catenella per la nuova rosa. La stessa Arcangela, dal passo senza peso, usciva, ogni sera, ad innaffiare, sulla loggia, amorosamente, i fiori, di cui era tanto orgogliosa, accarezzandoli con lo sguardo e con il seno. Michele ricordava quella veranda fresca, olezzante, dove, tra cespi di fiori ben coltivati, egli giuocava. Michele ricordava quando la famiglia Pezza si era arricchita di un’unità, Regina Maria Civita, che rinsaldò i vincoli tra tutti i familiari e specialmente tra i suoi genitori, qualche volta in litigio. Per Michele la sorellina sembrava un tenerissimo sogno da favola, il più bel giocattolo che si potesse desiderare.

Contesa da un braccio e l’altro dei genitori e dei fratelli, la bimba era sommersa di baci a non finire. Le sue guance erano di irresistibile richiamo. Mamma Arcangela, abbastanza anziana e di fragilissima natura, era rimasta senza latte, per cui Regina Maria Civita fu allattata da un’altra donna, Felicia, giovane e di eccezionale floridezza. In quel piccolo essere appena nato, di una tenerezza visiva incantevole, Michele ritrovò, con straordinario potere evocatore, le sembianze esatte di sua madre.

Tutti i ricordi di lei si fondevano in Michele nell’ultimo, che la rappresentava alta, sottile, vestita di nero, la piccola testa piegata dalla massa dellle trecce bionde. Ella accarezzava, uno ad uno, tutti i figli, che le facevano festa, rumorosi, insistenti.

Della prima fanciullezza, il carcerato si ricordò pochi altri fotogrammi, superstiti di un film andato completamente perduto, tutti riguardanti la sua città natale. Rivedeva le aeree arcate, che, in alto, congiungevano, ad intervalli, facciata a facciata, a mo’ di galleria, interrotta da srisce di azzurrissimo cielo. Sin ricordava perfino una ragazza, Civita, con due trecce, di qua e di là del petto, affacciata alla finestra a civettare con un vicino di casa. Era un mondo di fiaba, inondato da una luce che aveva qualcosa di magico, forse riverberata da lamine di azzurri specchi.

La piazzetta di S. Michele Arcangelo, umile ed aristocratica, dove i piccioni di poco volo, con le zampe di corallo, andavanoi e venivano, pettoruti; la piazzetta di S. Maria Maggiore, dal vago alone mistico, che ispirava un senso di cordialità appena guardinga, per qualche movenza di tralci e di fiori ai davanzali e per le bellissime inferriate alle finestre, che davano un’aria segregata, appena conventuale.

Nelle due ultime notti, che lo separavano dall’al di là, Michele Cercò di evocare tutte le fasi e le gesta della sua tumultuosa ed avventurosa esistenza, che si chiudeva tragicamente, a soli 35 anni di età. Dalle brume del tempo, ritornarono alla sua memoria immagini e una somma fatui della cronaca familiare, che Michele evocava con profondo rispetto del passato e con affettuosa nostalgia serbando una traccia luminescente degli incanti svaniti, delle felici illusioni di un altro tempo.

Michele riviveva immagini come in un’illuminazione improvvisa. Egli si accorgeva che aveva conservato questi “isolotti di memoria”, con le cadenze di un tempo. Mentre ruminava questi pensieri, sentendosi gonfiare il petto di orgoglio e di soddisfazione, di colpo, come un sortilegio, eppure con estrema naturalezza, comprese di essere vicino alla morte, l’eterna vincitrice degli uomini. Tutto ormai lo richiamava al dovere ed al vincolo della verità. Il giovane ribelle riconosceva il destino, accettato con virile malinconia. Voleva solo vedere, per l’ultima volta, prima di essere immerso nell’oceano del riposo eterno, sua moglie e i suoi due figli, Carlo e Maria Clementina. Forse il campione della Santa FEde, l’intrepido sostenitore del trono e dell’altare avrebbe fatto ballonzolare, sulle sue ginocchia, per l’ultima volta, i suoi due figlioletti e baciato teneramente la consorte Fortunata Rachele Geltrude. Saliceti, però, non soddisfece l’ultimo suo desiderio.

Alle ore 11 del 10 novembre 1806, Onorato Gaetani, direttore generale della polizia, notificava all’ufficiale giudiziario del quartiere Mercato, Luigi Trenca, quali misure straordinarie, adatte a reprimere ogni manifestazione, avrebbe dovuto prendere l’indomani. Quella notte Michele dormì come un sasso su quel tavolaccio duro. Poi si risvegliò in un’ombra malescente. In quell’ultima ora prima dell’alba pregò Iddio di proteggere la sua famiglia: l’adorata Fortunata Rachele Geltrude, la dolce Maria Clementina e Carlo, la luce dei suoi oicchi. Da fuori si sentivano i passi lenti delle sentinelle, che vegliavano, per tema di un’eventuale fuga del condannato a morte. Eppure Michele era tranquillo, come il principe di Condé. “C’est fini, Frère Diable. Dommage!”, disse l’Hugo, triste.

Verso le 9 del mattino, dell’11 novembre 1806, di martedì, venne portata al Pezza una sontuosa colazione, che mangiò di buon gusto. La cosa che più lo colpì fu la fetta di pane, il pane del suo paese, Itri. Verso le 10 entraronoi i Padri Bianchi della Giustizia, Martucci e Celentano, preceduti dal carceriere, un ometto titubante e sordo. Michele ingarbugliò il Padre Celentano in una rete di astruserie filosofiche. Questi non lo seguì nelle sue considerazioni, perché il suo ufficio era di accompagnarlo alla forca, sostenendolo ed incoraggiandolo.

Il codannato a morte si confessò e si comunicò e consegnò al suo assistente dei capello per sua moglie. Poi si lavò e vestì con cura.

Fatto salire su una carretta, dentro una sorta di gabbiotto, scortato da numerosi agenti, Michele Pezza si recò a sentire una messa bassa nella chiesa degli Incurabili.

Non potendo far altro, Padre Martucci gli regalò un’assoluzione improvvisata, per dovere d’ufficio, che condì di alcune rituali espressioni del suo ministero e di un vago segno, come per dire “non sei il solo ad essere nelle mani di Dio”.

Uscendo dalla chiesa, si udirono grida di sostegno e grida d’odio contro l’occupante francese, oppressore, che aveva preteso di liberare il popolo dal giogo dei Borbone e ne aveva instaurato uno peggiore.

Al Pezza, che la folla riteneva essere un uomo straordinario, furono strette calorosamente, da uomini e donne, le mani.

Dalla chiesa degli Incurabili, il colonnello fu condotto, tra due ali di curiosi, attraverso le vie S. Giovanni e Carbonara, fino al luogo del supplizio, nell’ora stessa in cui Joseph Bonaparte si recava, in carrozza, alla reggia di Capodimonte.

Il corteo attraversò la viuzza dei Sospiri del’Abisso, così chiamata, perché, imboccando la Strada Nuova, come scrive il Dumas padre, “i condannati vedevano per la prima volta il patibolo, ed era molto raro che a quella vista non emettessero un sospiro di dolore dal fondo delle viscere”. Poi il corteo sfociò in Piazza Mercato, già Moricino, dove si drizzava, tra due monumentali fontane, la forca, montata su di una piattaforma. I quattro angoli della pazza erano occupati da numerosi fantaccini e da gendarmi a cavallo.

All’apparire del corteo, tra il ritmico rullare dei tamburi, “Fra’ Diavolo” fu salutato da altissimi clamori e da qualche invettiva.

Era un fosco mattino autunnale. Le nubi velavano il cielo, mentre dal Vesuvio uscivano dei rimbombi, quasi a voler significare che il vulcano si ribellava al giogo dei francesi, che il fuoco era sotto la cenere, destinato ad esplodere all’improvviso, in maniera violenta ed inarrestabile.

Intanto tuonava il cannone dinanzi a Castellammare di Stabia.

Si stava concludendo l’immane dramma del guerrigliero itrano. Un senso di fatalità naturale e soprannaturale, talmente intenso, era nelle cose.

Assisteva un popolo immenso, accalcato intorno al patibolo, muto e commosso. Qualcuno era in preghiera per il suo alfiere.

Tutto era pronto per la cerimonia, persino il boia che era ad un angolo di Piazza Mercato, nella quale lo avevano condotto. Intanto i Padri Celentano e Martucci biascicavano giaculatorie, nelle quali la vita di Michele era bella e andata, nelle quali, amzi, il discorso era tutto sul cielo bellissimo, sui santi pieni di riguardo per la sua anima appena arrivata, su S. Pietro che guardava il librone dei suoi peccati con paterna indulgenza, proprio perché i regolamenti erano quelli e lui non poteva farne a meno.

Eravamo a questo punto, quando si sentì un gran vociare della folla e urla terribili. Successe il finimondo. La folla prese d’assalto le stradicciole che portavano alla piazza e le intasarono. Tutgi gridavano le cose più incredibili. Sembrava che Piazza Mercato fosse stata investita da un tornado.

Un sorriso illuminava il volto pallido dell’eroe popolare, che forse riandava nell’attimo, con la memoria, ai suoi primi combattimenti triofali, che misero alla prova il valore dei popolani di Terra di Lavoro, le vesti lacerate, lordi di sangue, le spade lucenti in mano, come degli angeli giustizieri.

Miche Pezza fu impiccato verso l’una dell’11 novembre 1806, vestito, in segno di dileggio, con la divisa di colonnello borbonico e con il brevetto di duca di Cassano allo Ionio al petto (era la prima volta che esibiva in pubblico quel titolo, dopo il successo nelle Calabrie), tenendo alta la bandiera in Piazza Mercato, anticamente detta “Piazza del Carmine”, dalla omonima chiesa.

La plebe partenopea, dopo l’esecuzione del Pezza, sentì una lacerazione straziante. Neglo occhi dei lazzari brillavano delle lacrime. preziosissime gocce di pianto.

Alfredo Saccoccio

 

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