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Napoleone-Denon, un binomio cinico e bulimico di potere

Posted by on Apr 11, 2018

Napoleone-Denon, un binomio cinico e bulimico di potere

Napoleone deluse profondamente quanti avevano creduto nelle idee di cui egli si era fatto banditore tra i popoli, mentre, in realtà, le calpestò e le distrusse mediante le prevaricazioni, gli arbitrii, gli abusi, ma soprattutto servendosi dei tribunali rivoluzionarii e dei matrimonii repubblicani: dopo averli denudati, si legavano strettamente gli uomini con le donne e, a bordo di un barcone, si portavano in mezzo alla Loira e lì scaraventati in acqua, dove annegavano fra i lazzi dei loro aguzzini, che auguravano loro felicità e figli maschi. Comportamenti, quelli dei delegati del Direttorio giacobino, che con l’alto messaggio rivoluzionario (libertà, uguaglianza e fraternità) hanno poco da spartire.

Di Ippolito Nievo, si legga il ritratto che del Buonaparte, divenuto Bonaparte per francesizzare, che lasciò la Francia esangue, dopo averla messa al servizio della sua sola ambizione, ha tracciato nelle “Confessioni di un italiano”. Carlino Altoviti, il protagonista del romanzo, scopre un orrendo delitto commesso dai bersaglieri francesi: la contessa di Fratta, vecchia inferma, atrocemente insultata e ridotta in fin di vita, raggiunta in tempo dall’Altoviti per raccoglierne le ultime, disperate parole. Il giovane, profondamente turbato e desideroso che sia dato a quei masnadieri un castigo che serva di esempio, si reca dal “giovane liberatore d’Italia” per chiedere giustizia. Carlino esce dal colloquio con Napoleone, cinico demagogo, con la testa annebbiata da “quei suoi gran paroloni di popolo e di libertà”, essendo il Bonaparte un commediante senza pari, possedente l’arte di una messinscena, di cui era il personaggio principale . L’ingenuo non sa ancora che tutti coloro che ambiscono a farsi del popolo uno strumento per dominare si servono di certe parole, quali “popolo”, “libertà”, “giustizia”, non perché vi credano, ma per annebbiare il cervello della gente e farsene uno strumento per salire al potere e non per i “diritti dell’uomo”, che la rivoluzione proclamava, salvo poi a farne carne di porco. Così l’imbastitura repubblicana camminava sui piedi d’argilla. La disastrosa campagna di Russia rivelerà la fragilità del colosso e con essa crolla il sogno di un’Europa federata. Napoleone e lo zar Alessandro I avrebbero potuto intendersi, ma il secondo aveva il vantaggio di essere Imperatore di diritto divino, mentre il Bonaparte non era che un “parvenu” uscito dal popolo, che si era visto rifiutare la mano dalle due arciduchesse, sorelle di Alessandro. Alessandro il Macedone era figlio di re; Giulio Cesare apparteneva ad una delle più illustri famiglie romane, ciò che gli permise di ambire alle più alte magistrature; Carlomagno era il sovrano dei Franchi.

Il giovane Nievo (lo scrittore è morto appena trentenne) dimostra in tutto il romanzo una profonda conoscenza non solo dei fatti, ma soprattutto degli uomini. Le sue osservazioni sono ora argute, ora pungenti, eppure sempre temperate da una comprensione benevola, molto vicina a quella del Manzoni, per le debolezze e per le miserie dei suoi simili e della società in cui egli vive, in cui le nuove idee innovatrici, provenienti dalla Francia rivoluzionaria, portate avanti da tagliateste, da furfanti e da ciarlatani o da sognatori astratti, formati su modelli stranieri, lontani dai bisogni reali del popolo, diverso di carattere, di tradizioni, di condizioni sociali, civili, economiche, avevano fatto breccia su non pochi patrioti, più o meno illusi ed inebriati degli immortali princìpi, dei concetti di libertà, di progresso e di altre minchionature. Tra essi, il poeta Vincenzo Monti, che dal fiero Corso ricevette in premio onori e laute pensioni, mentre, con il tramonto del bellicoso Nume e con la restaurazione dell’Austria, ritrattò tutta la sua azione politica e morale precedente, ottenendone questa volta, in cambio, diffidenza e compatimento. Per i facili detrattori, farisaici catoni di virtù civiche ed incorruttibili custodi di rigida moralità, questa condotta, lo sappiamo bene, è definita quella del doppiogiochista, del “girella emerito”, di giustiana memoria, che, se cadde il prete, fece l’ateo, mentre poi se la coda tornò di moda, ligio al pontefice, ecc. ecc..

Giacomo Leopardi criticò le ideologie egualitarie ed illuministiche, false, vaghe e per nulla chiare, in cui erano cascati molti intellettuali europei, suscitandogli violenta, istintiva ripugnanza, per il suo aristocratico sentire ed intuire la realtà dell’essere. il poeta recanatese mise alla berlina, nei “Paralipomeni”, l’ideologia giacobina, affermando : “Allor nacque fra topi una follia / Degna di riso più che di pietade / Una setta che andava e che veniva – Congiurando a grand’agio per le strade, / Ragionando con forza e leggiadria / D’amor patrio, d’onor, di libertade, / Fermo ciascun, se si venisse all’atto, / Di fuggir come dianzi avevan fatto”.

Ci togliamo il cappello al nome di Napoleone, ma vorremmo ricordare che con le sue guerre falcidiò mezza Europa. Certo, “liberava” i popoli, per poi assoggettarli al suo dominio o a quello di qualche suo familiare. Li “liberava” e poi li depredava a man bassa di oro, di bestiame, di derrate alimentari, di opere d’arte, queste ultime grazie al barone Dominique Vivant Denon, il quale ripulì, senza scrupoli, il Vecchio Continente, l’Italia in particolare, delle più rilevanti di esse, con le quali approntò il Musée Napoléon, il più straordinario museo europeo, oggi museo del Louvre, volendone fare il luogo unico e preservato di una creazione universale, sulla quale la Francia avrebbe regnato. Il meglio, perché egli è giudizioso (si sbagliò raramente nelle sue scelte) e il Bonaparte, il suo dio, gli diede piena fiducia. In poche parole Denon era il padrone assoluto della caverna di Ali Baba. Fu ritenuto, e tuttora lo è, rubando, a piene mani, per conto del Bonaparte, un raffinato intellettuale progressista, benemerito della cultura, che saccheggiava con intelligenza, con gusto, e per lo Stato, ma, in realtà, il nobile era un fottutissimo ladro che nelle campagne dell’imperatore prendeva tutto ciò che destava il suo appetito insaziabile. Nel segno di quest’ ultimo, che non esitava a recarsi sul terreno per spogliare conventi e palazzi, si consumò il “sacco” dell’Europa. “Ho appena fatto un raccolto (senza alcuna semina da parte dei francesi, n. d. a.) di cose superbe”, scrive Denon dopo la vittoria di Jena, che vede la Prussia sconfitta. 250 casse di trofei di guerra lasciano la Germania, Danzica e Varsavia alla volta di Parigi: statue, busti, bassorlievi, bronzi ed altre antichità, dipinti (tra gli altri, una tela di Rubens, “Marte incoronato dalla Vittoria”), disegni ed altri oggetti conquistati dalla Grande armata. In Italia i transalpini attuarono una sistematica spoliazione del territorio appropriandosi di opere del Veronese, del Tintoretto e del Tiziano a Venezia, di Raffaello e di Andrea del Sarto a Firenze, del Domenichino a Bologna, del Ribera a Napoli, oltre al Laocoonte e ai cavalli di San Marco….

Beni mal acquisiti nelle “più fertili pianure del mondo”, nel corso delle campagne napoleoniche, in cui si forgiò la leggenda del capo di guerra praticamente invincibile e dell’amministratore geniale, una parte dei quali furono restituiti alla caduta dell’Impero, dopo Waterloo, quando, nel 1815, i popoli spogliati reclamarono i loro beni. Gli Alleati riprendevano, per essere giusti, ciò che apparteneva loro. L’azione di recupero delle opere sottratte all’Italia non è stato, ovviamente, facile e solo 258 dipinti, dei 506 sottratti agli Stati italiani, furono restituiti, perché Stati e staterelli contavano molto poco e i loro rappresentanti nel Congresso di Vienna faticavano persino ad essere ricevuti da Alessandro I, da Luigi XVII e da Talleyrand, il terzetto che menava le danze. Non sono tornate indietro le opere d’arte requisite da Jean-Baptiste Wicar (1762-1834), pittore di Lille, di terzo piano, che aveva frequentato l’atelier di David. Egli fece una abbastanza bella carriera seguendo gli eserciti imperiali, di cui riempì i furgoni di tele. Il Wicar imperversò particolarmente in Italia constituendo, senza dubbio a prezzi molto bassi, una considerevole collezione di disegni (Raffaello, Pontormo, Vasari, Guido Reni, Fra Bartolomeo). Egli li tramanderà al museo della sua città natale. Da una quindicina d’anni, le richieste di restituzioni sono diventate più pressanti, ma i grandi musei non hanno alcuna voglia di aprire il vaso di Pandora, accampando giustificazioni e sostenendo che l’opera d’arte è patrimonio universale, a cui tutti gli uomini devono aver accesso e fruizione.

In ultima analisi, possiamo dire che la megalomania di Denon si apparenta a quella di Napoleone. Si tratta sempre di conquiste, di una propensione quasi patologica all’espansionismo, di una irreprimibile bulimia di potere. Questi due uomini erano fatti per intendersi. E in una certa maniera, nel campo artistico, Dominique-Vivant fu l’ombra del Corso. Queste opere d’arte che vengono da dappertutto per contribuire alla gloria dell’imperatore sono come degli schiavi incatenati che si gettano ai piedi di un Cesare. Che dire poi della “libertà”, una parola molto usata ed abusata, di cui abbiamo fatto un mito, forse il vero mito del nostro tempo, non esportabile in tutto il mondo. Di essa Napoleone diceva: “I Francesi sono indifferenti alla libertà; essi non la capiscono né l’amano; la vanità è la loro sola passione e l’uguaglianza politica (…) è il solo diritto politico di cui facciano caso.”

Alfredo Saccoccio

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