Alta Terra di Lavoro

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NAPOLI NEL TERRORE (1799-1800)

Posted by on Set 21, 2021

NAPOLI NEL TERRORE (1799-1800)

Quello che non riusciamo a comprendere è come mai agli inizi del novecento (ovvero una quarantina di anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia) ritroviamo una serie di opere e di articoli che, pur restando assolutamente unitaristi, avevano un impianto fondamentalmente onesto, nel senso che riportavano voci dissonanti rispetto alla vulgata risorgimentalista, dal secondo dopoguerra ad oggi ci hanno propinato una serie di luoghi comuni che erano stati abbondantemente superati. Uno di questi riguarda Ruffo. L’articolo che proponiamo, pur dando una quadro fosco e ferocemente antiborbonico degli avvenimenti del 1799, salva la figura del cardinale evitando di liquidarlo con la facile etichetta del sanfedismo.

La morte dei Girondini sembra cosa mostruosa ed è macchia che oscura la Rivoluzione francese. Fra quelli ed i martiri napoletani v’è una certa affinità di caratteri e di iufjrgni. Gli uni e gli altri in gran parte idealisti, dottrinari più che uomini di Stato seguaci delle vie di mezzo, incapaci delle audacie e delle energie che salvarono la Repubblica francese. Gli uni e gli altri può dirsi rappresentassero il fiore della nazione. «Tout ce qu’il v avait de plus généreux en Franco périssait ou par le suicide ou par le fer des bourreaux», dice Thiers. Ma i morti del 31 ottobre, dell’8 e 11 novembre 1793 furono ventitre; i morti sui patiboli di Napoli, di Procida e di Ischia, centoventi.

Tra i Girondini erano un astronomo come Baillv, un oratore come Vergniaud, un giurista come Brissot, un filosofo come Condorcet.

Tra i repubblicani di Napoli un medico famoso, Cirillo, un ammiraglio come Caracciolo, un grecista come Baffi; Guardati, Bagno, Conforti, Fiorentino, Troisi, Granata, decoro dell’Università e dell’Accademia militare; un latinista come il Falconieri; dotti ed esemplari sacerdoti quali Natale, Scotti, Scialoia, soldati valorosi come Massa, Matera, Manthonè, Federici, Spanò, Schipani; il Pacifico botanico ed archeologo rinomato.

Mario Pagano, che aveva scritte le Considerazioni sul processo criminale, poteva ben paragonarsi a Brissot, l’autore della Teorica delle leggi criminali; ed Eleonora Fonseca, compilatrice del Monitore, a Manon Roland, scrittrice del Courrier de Lvon.

Ma i Borboni non si contentarono di troncare codeste vite, ch’erano onore e vantaggio della nazione: vollero disperderne e distruggerne le famiglie, sequestrando tutti i beni di fortuna e cacciando in esilio i genitori, i fratelli, le sorelle, i figli, ammucchiati su sgangherate navi che li portarono a Marsiglia.

(1) V. fascicolo precedente.

Il nome di italiani fu preso di mira, perché v’erano stati due condannati, Vincenzo nel 1794 e Andrea nel 1799. Quindi furono sfrattali i fratelli Antonio e Giuseppe ed i figli del primo, Vito, Pasquale, Benedetto, Alessandro, Raffaele e Teresa, bambina ìi 10 anni, e la figlia del secondo, Giacomina, vergine in capillis.

Anche il nome di Galiani, che ricordava il martire del 1794, fu segnato da ostracismo, e nelle liste di proscrizione vennero compresi il padre e la madre di Vincenzo con sette figliuoli, di cui l’ultimo, una femmina a nome Settimia, contava appena nove anni.

Un altro figliuolo, Giacinto, era morto il 13 giugno combattendo al ponte della Maddalena.

Furono ugualmente esiliati Vincenzo Pignatelli Strongoli, fratello di Ferdinando e di Mario, con la moglie Francesca Barazzi, Luigi e Vincenzo Riario Sforza fratelli di Giuseppe, Giuseppe Bozaotra nipote di Luigi, Michele Massa fratello di Oronzo, Filippo e Maria Eleonora D’Agnese fratello e sorella di Ercole, Giacomo Antonio Roselli padre di Clino con i figli Nicola e Rosaria, Lorenzo € Giuseppe Montemavor fratelli di Raffaele, Mercurio e Gregorio Muscari fratelli di Carlo, Nicola Battistessa fratello di Pasquale, Oregorio Rugvi monaco olivetano fratello di Ferdinando e di Antonio, Onofrio Fiani fratello di Nicola, Gaetano e Raffaele d’Iscbia fratelli di Vinenzo e i cugini Romualdo, Michele, Giuseppe e Vincenzo Minutolo. Alessio, Giuseppe e Margherita Fasulo fratelli e sorella di Nicola, Francesco De Simone fratello di Giovan Battista.

Era colpa sin’anche aver amato uno dei giustiziati, e per questa ragione la baronessa di Castelvetere, amica di Francesco Grimaldi, veniva cacciata fuori dalla patria, ed il servo fedele di Giuseppe Logoteta, a nome Vincenzo Messina, ragazzo di 14 anni, era compreso fra gli esiliati, scrivendosi sulla lista per seguire il padrone, che era morto sulle forche il 28 novembre! Dall’agosto 1799 al gennaio 1800 ottocentosettantotto cittadini andarono in esilio per condanna della Giunta di Stato; cinquantaquattro per decreto del Visitatore generale di Terra di Lavoro; quarantotto per decreto del Visitatore di Principato Citra; centotrentasette per decreto del Visitatore di Avellino; novantuno per decreto del Visitatore di Basilicata.

Altri seiceutosettantuno ebbero lo sfratto per determinazione reale del 1° agosto 1799; in complesso milleottocentosettantanove, senza contare tutti quelli ch’erano riusciti a salvatasi con le truppe francesi ed i moltissimi liberati dalla prigionia o banditi dalla patria in virtù del cosiddetto indulto del 23 aprile 1800.

E dalle carte originali di Cesare Paribelli e di Francescantonio  Ciaja, serbate dalla Società storica napoletana, si rileva che una polacca con 173 esuli giunse a Marsiglia il 26 febbraio 1800, una seconda con 436 il 4 maggio e una terza con 172 il 18 giugno del medesimo anno. Altri 98 esuli sbarcarono a Tolone.

Troppo lungo sarebbe ricordare tanti nomi. Mi contenterò dei più notevoli, fondandomi sulle notizie biografiche dei benemeriti della patria raccolte da mio padre (1) col lavoro pertinace cominciata il 1840, sotto gli occhi di Ferdinando li, non interrotto né dalle carcerazioni, né dall’esilio, né dalle lotte per la redenzione della patria, né dagli officj pubblici; durato trentotto anni, sino agli ultimi giorni di sua vita.

Luigi Arcovito di Reggio Calabro, Lorenzo Montemavor di Napoli, Vincenzo Pignatelli Strongoli di Napoli, Francesco Giulietti dì Messina, Giovanni Russo di Napoli, Angelo D’Ambrosio di Napoli, Gennaro Celentanodi Foggia, Giuseppe Lombardo di San Chirico Raparo,.

Francesco Macdonald di Pescara, Gabriele Pepe di Civita Campomarano, erano tutti tra i migliori ufficiali dell’esercito napoletano e combatterono per la Repubblica. Cacciati in esilio, si segnalarono nelle guerre napoleoniche e giunsero ai più alti gradi durante il regno di Murat, tutti imprigionati, esiliati e destituiti dopo la rivoluzione del 1820, Celentano condannato a morte e quindi chiuso nel castello della Favignana; condanna ch’ebbe anche Giuseppe Rosaroll, altro esule del 1799, maresciallo di campo nella campagna di Russia, poi tra i combattenti per la libertà della Spagna, morto per l’indipendenza della Grecia nel 1825, padre di quel Cesare caduto nella difesa di Venezia, chiamato l’Argante della Laguna.

Antonio Campana di Portici, ufficiale del genio, non tornò mai dall’esilio, perché divenne capo dell’Istituto geografico militare di Milano ed acquistò tale riputazione per i suoi lavori geodetici e idrografici che il Governo austriaco lo volle alla direzione dell’Istituto di Vienna.

Guglielmo Pepe di Squillace, ferito al ponte della Maddalena tornò in patria dopo la pace di Firenze e subito si diede a nuove imprese per ricacciare i Borboni; cosi che venne gettato nella fossa del Marittimo alla Favignana, dove rimase sino al 1804. Generale di Murat, combattè in Ispagna, fu a capo dei moti del 1820 e chiuse la vita gloriosa con la difesa di Venezia, morendo nelr esilio di Torino il 1855.

(1) Vite degl’Italiani benemeriti della libertà e della patria di Mariano D’Ayala. Pubblicati il volume dei Morti combattendo, Firenze, 1868, e quello degli Uccisi dal carnefice, Napoli, 1883.

Proscritti furono ancora Giovanni Bausan, il valido cooperatore di Caracciolo nella difesa marittima del golfo, capitano di vascello al tempo dì Murat, perseguitato nel 1821 perché aveva appartenuto al Parlamento; Antonio Napolitani di Scisciano, il quale, cappellano di reggimento, combattè per la Repubblica, poi, pel suo valore, raggiunse il grado di maresciallo di campo e nel 1820 si uni con Guglielmo Pepe, levando il grido di libertà; Raffaele De Gennaro di Barletta, milite della Repubblica, anch’egli valoroso nelle guerre napoleoniche, morto generale nel 1816; Giuseppe Raffaelli di Serra Calabro, che nell’esilio tenne la cattedra di Cesare Beccaria nel liceo di Brera e fu poi procurator generale della Cassazione di Napoli; Nicola Saverio Gambone di Montella, dotto teologo, vescovo di Capri dal 1776, quindi di Vigevano nel 1808 e patriarca di Venezia nel 1807; Giacinto Dragonetti, presidente della Gran Corte della Vicaria e ministro della Giunta di Stato avanti il 1799, presidente della Cassazione di Napoli al tempo dei Francesi; Pasquale Leonardi di Cattolica, famoso ostetrico, professore nell’Università di Napoli; Gaetano Rodino di Catanzaro, segretario della Legazione cisalpina presso la Repubblica ligure, poi sottoprefetto, condannato a morte pei fatti del 1820, rimasto nove anni nell’orrida prigione della Pantelleria, autore dei Racconti storici ben noti; Gennaro Cestari, sacerdote, professore di filosofia, autore dell’opera: Lo spirito della giurisdizione ecclesiastica sull’ordinazione de’ vescovi e del Tentativo sulla rigenerazione delle scienze, Amodio Ricciardi di Palata nel Sannio, nell’esilio procurator generale della Corte di appello di Torino, consigliere di cassazione in Napoli, presidente della Corte di Aquila, deputato al Parlamento nel 1820 e quindi destituito; Antonio Jerocades di Parghelia, il poeta dei Liberi Muratori, già imprigionato nel 1792 e nel 1795, chiuso in un convento al ritorno dall’esilio; Emanuele Mastellone di Napoli, magistrato avanti il 1799, nell’esilio procurator generale a Torino, a Parma, a Genova e ad Alessandria, in ultimo consigliere di cassazione a Napoli; Giordano De’ Bianchi marchese di Montrone, comandante del S battaglione della legione Lucana, quindi ufficiale dell’esercito francese, intendente della provincia di Bari, Consultore di Stato, autore di lavori poetici, tra cui la traduzione delle Odi di Orazio; Bernardo Della Torre di Napoli, chiaro scrittore e profondo teologo, vescovo di Gragnano, gran vicario della diocesi di Napoli; Matteo Tondi di Sansevero, chimico e mineralologo famoso, durante l’esilio coadiutore del celebre Dolomieu nel Museo di storia naturale di Parigi, al ritorno in Napoli professore nell’Università e ispettor generale delle acque e foreste;

Pietro Napoli Signorelli, di Napoli, autore della nota opera Vicende della coltura nelle Due Sicilie, professore nel liceo di Brera, nelle Università di Padova e di Bologna; Domenico Di Fiore di Cesa, segretario di Ercole D’Agnese durante la Repubblica, esule a Parigi dove fu collaboratore in molti giornali e tenne alti ufficj nell’Amministrazione dei lavori pubblici, non più tornando in patria; Francesco Lauria di Montefusco, avvocato e magistrato di grande reputazione, professore di diritto penale nell’Università di Napoli, commentatore del Codice francese e del nuovo Codice napoletano; Luca Cagnazzi di Altamura, prete e matematico, accademico dei Georgofili e del Cimento, professore di economia politica e di statistica nell’Università di Napoli, capo ripartimento della pubblica istruzione, destituito nel 1821, presidente del Parlamento napoletano del 1848 nella famosa tornata del 15 maggio, morto durante il processo; Luigi D’Aquino, di Cosenza, capitano nella legione Calabra, valoroso a Marengo, in Ispagna e nella guerra del 1814, morto nel 1822 maresciallo di campo; Ignazio Tranfo di Tropea, capitano di vascello, segnalatosi nella guerra dell’indipendenza americana; Gennaro Spinelli marchese di Fuscaldo e principe di Cariati, ufficiale di marina, aiutante di bandiera di Francesco Caracciolo, scudiero di re Gioacchino, ambasciatore a Vienna nel 1814, nella Giunta di Governo del 1820, quindi ambasciatore a Parigi, ministro costituzionale nel 1848; Flavio Pirelli di Ariano, dotto magistrato, consigliere del tribunale di commercio; Filippo Wirtz, di Napoli, tenente colonnello del secondo reggimento Macedonia, il quale aveva combattuto al ponte della Maddalena accanto al padre, il generale Giuseppe Wirtz morto in Castel Nuovo, per le ferite, il 14 giugno 1799.

E sono ancora da ricordare fra gli esuli monsignor Bernardo Della Torre vescovo di Taranto; Antonio Boccanera rinomato chirurgo; Antonio Zuccarelli pittore miniaturista; il libraio Aniello Nobile, che pubblicò il Giornale letterario soppresso dal Governo nel 1797 e gli atti della Repubblica; Berardino Caputo marchese della Petrella; il nostruomo Antonio Chiapparo, amico fedele ed erede di Francesco Caracciolo, coi fratelli Girolamo e Ferdinando; Carlo Forquet banchiere francese; Domenico Colangelo morto comandante della piazza di Pavia; il prete Domenico Menichini; Emanuele Caputo figlio del marchese di Cerreto; Ferdinando Ferri, voluto amante della Sanfelice, rivelatore con Vincenzo Coco della congiura dei Baccher, il quale contava allora trentadue anni e divenne dopo la Restaurazione del ’15 consigliere della Corte dei conti, presidente nel 1839, e nel 1841 ministro di Ferdinando II,

morto nel 1857; Giuseppe Fasulo e Gennaro Danzetta, presidente il primo, giudice l’altro della Commissione militare che condannò a morte Gioacchino Murat; Gaetano De Simone, poi colonnello di artiglieria; Leopoldo Poerio, fratello di Giuseppe, zio di Carlo e di Alessandro, morto esule in Firenze dopo di aver combattuto nelle guerre napoleoniche e raggiunto il grado di colonnello; Michele Filangieri fratello del celebre Gaetano; il colonnello Michele Nocerino; Nicola Dentice dei duchi di Accadia; Pietro Alethv scrittore del Veditore repubblicano con Gregorio Mattei; il colonnello Francesco Lahalle, padre di quel Carlo, anche colonnello, che nel 1848 si uccise a Bagnocavallo per non obbedire all’ordine di tornare indietro dalla spedizione di Lombardia; Giuseppe Landini che divenne generale di artiglieria; Decio Coletti deputato al Parlamento napoletano nel 1820; Francesco Staiti valoroso ufficiale di cavalleria, destituito nel 1821, morto esule a Parigi; il marchese Domenico Tupputi, dotto in agronomia, esule di nuovo nel 1821, quando il figlio Ottavio, valoroso generale, ebbe condanna di morte con Morelli e Silvati; Francesco Casoria chimico reputato; Gennaro Silva divenuto colonnello di artiglieria; Giovanni Antonio Lozzi deputato al Parlamento napoletano nel 1820; Vincenzo Malesci poi ispettore dei ponti e strade; Tommaso Sonni matematico, deputato al Parlamento napoletano nel 1820; l’uffificiale di marina Salvatore San Caprais, il quale sarebbe andato a morte invece di La Grenalais se la nave che lo trasportava dall’isola dì S. Stefano non fosse giunta troppo tardi; Raffaele Carrascosa, allora tenente di artiglieria, poi generale di Murat, e finalmente strumento di Ferdinando II nell’eccidio del 15 maggio 1848; Gabriele Maurizio, morto nel 1830 ammiraglio e comandante dell’Accademia di marina; Vincenzo Alvino di Napoli, professore nel Real collegio degli orfani militari in Milano, padre di Enrico rinomato architetto; Rocco Beneventano di Sasso, che poi divenne consigliere di Stato; Luigi Galanti di Santa Croce di Morcone, benedettino, professore di geografia nella scuola politecnica di Napoli, segretario del Parlamento napoletano nel 1820, autore della nota opera Isiituzioni di geografia fìsica e politica.

Ho voluto ricordare codesti nomi per dimostrare come non fosse esagerazione partigiana né frase rettorica quella degli storici contemporanei, i quali affermarono che si diede la più spietata caccia a quanto Napoli avea di meglio per ingegno, per sapere, per nobiltà di stirpe e di opere. I nomi dei giudici vennero additati alla pubblica esecrazione, e lo stesso diarista De Nicola chiama quella una Giunta di carnefici; ma, pur non menomando l’iniquità dei loro atti,

è giustizia riconoscere ch’essi, sia pure per ragioni disoneste, non obbedirono pienamente agli ordini imperiosi e precisi di Maria Carolina; la quale, offesa nel suo orgoglio smisurato perché abbandonata dalla parte migliore della cittadinanza, chiedeva in tutte le sue lettere a Ruffo e ad Emma Hamilton vendetta pronta e inesorabile.

«Il sentire dettagli di Napoli» scriveva a Ruffo sin dal 23 di aprile (1), e la individuazione fa fremere. Bisogna dire che non vi è che il Basso popolo fedele ma gli Alti ceti sono perfidissimi, la Marina e Artiglieria tutta cattiva, molti ufficiali, infinita nobiltà e saputelli mezi Paglieti, studenti, lo non ardisco quasi più domandare del tale e del tale aspettando una dispiacevole risposta. Desidero ardentemente riprendere il regno, rimetterci l’onore e lasciare il Patrimonio alli miei figli ma l’animo mio a soferto una forte scossa ed e totalmente alienata ma per sempre confesso non era tanto prima speravo e mi lusingava spiegava per timore viltà molte cose, ma l’atroce seguita condotta di tutti i nostri più Beneficati mi aliena intieramente. Domenica compisco 31 anni di dimora in Napoli dove non ho pensato che agli altri mai a me senza un capitale senza un soldo senza un palmo di terreno ne Casino di Campagna o cercato servire obbligare non mi ho mai lasciato trasportare da nessun odio e ho ritrovato Nissuno questa è una orribile verità ma che di un animo come lo mio fa effetto e molto farò il mio dovere e lo farò sempre ma il mio cuore e chiuso per sempre desidero riavere il stato che ci appartiene il suolo che è nostro ma vorrei mai più vedere o se le circostanze davero necessiteranno la mia presenza sarò a Napoli senza tratare ne vedere tanti e tanti e poi tanti ingrati ma procurando la felicità abondanza di vivere esatta giustizia del unicha classa fedele che ed il popolo…».

E questi proponimenti ella mantenne con la tenacia virile che destava l’ammirazione di Napoleone I. Il suo cuore fu chiuso per sempre ad ogni sentimento umano. Napoli più non la vide sino al 17 agosto 1802; e quando, cacciata di Sicilia da Lord Bentinck, si apparecchiava a tornarvi col trionfo della Santa Alleanza, una volontà più forte della sua le troncò improvvisamente la vita, senza avere accanto né un figlio né un amico.

(1) Le lettere di cui trascrivo i brani furono copiate testualmente da Mariano D’Ayala nel 1843 su gli originali serbati allora dal marchese Messanelli. Sono sessanta, scritte dal 5 febbraio al 4 ottobre 1799, perfettamente identiche, anche nell’ortografia, a quelle stampate nel 1863 da Alessandro Dumas nel quinto volume dei Borboni di Napoli contenente i Documenti autentici tratti dagli Archivi secreti di Napoli. Le stesse lettere vennero pubblicate nel 1880 nell’Archivio storico per le provincie napoletane dal marchese Benedetto Maresca, traendole da una copia fatta dal principe di Belmonte, l’autore della Storia della Congiura del principe di Macchia, il quale volle togliervi gl’innumerevoli errori di ortografia e di sintassi.

Ma per intendere i fatti del 1799 e la crudeltà di Maria Carolina bisogna tornare a parecchi anni addietro, quando ella, circondata dai suoi amanti, si deliziava nei misteri e nei banchetti massonici, seguendo l’esempio della sorella Maria Antonietta.

fonte

eleaml.org

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