Alta Terra di Lavoro

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PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (diciannovesima parte)

Posted by on Mar 9, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (diciannovesima parte)

CAPO XIII.

I Protettori disinteressati.

La guerra d’ Oriente nel 1854 veniva a riaccendere il fuoco latente e ad aggiungere materia agli assalti dei settari, Re Ferdinando II mantenevasi in una dignitosa neutralità tra i belligeranti, in quello che Vittorio Emanuele, seguendo i prestabiliti disegni, spediva un contingente di milizie in Crimea, che, mentre nulla aggiungeva alle probabilità di buon successo per gli alleati occidentali, molto contribuiva, anzi era la ragione immediata delle sue pretensioni a quella egemonia su tutta Italia, sempre vagheggiata dai Sabaudi, che, per virtù straniera, ottenne pochi anni dopo. Quindi è che mentre riscaldavansi e fomentavansi le relazioni tra il Piemonte e gli Anglo-franchi, raffreddavansi quelle col Re di Napoli. Il Congresso di Parigi, di cui lungamente ragionammo in queste pagine, provò la realtà di questi apprezzamenti. Aggiungeremo però un fatto che può valere da solo al retto giudizio della questione. – II Commendatore Carafa, proministro degli Affari esteri in Napoli, allorché dopo il Congresso ebbe il primo dispaccio ostensibile dalle mani del Rappresentante inglese Sir W. Temple, non trovò che le pretensioni britanniche fosservi chiaramente definite, onde è che fu costretto domandargli: «Ma in sostanza voi che volete da noi?» e il Temple, evitando di spiegarsi in iscritto, contentassi di rispondere vagamente: «Un’amnistia generale, un cambiamento di Ministero, una riforma nella legislazione criminale, e modificazioni nei trattati di commercio in vista d’introdurvi il progresso». – La parola libero scambio non fu pronunciata; ma tutti sanno ciò che s’intenda sul Tamigi per progresso in materia commerciale: ed ecco trovato il nodo della questione per quel che riguarda l’Inghilterra circa le sue relazioni col regno di Napoli. La Frammassoneria che, a raggiungere i suoi fini, mette in giuoco le passioni degli uomini per sedurli, come gl’interessi dei Governi per aggiogarseli, si approfittava dell’egoismo finanziario del Governo inglese, per incatenare

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al suo carro la monarchia britannica, e dell’ambizione del Governo francese per spingerlo innanzi.

Poste infatti le riferite cose e l’esposto confronto, evidente appariva esservi altre ragioni occulte negli assalti contro il Governo di Napoli. Quindi è che, mentre si proseguiva con tenace perseveranza e con fine accorgimelo lo scopo ultimo della setta, di distruggere la Chiesa abbattendone a mano a mano i naturali sostegni, ciascuna poi delle tre Potenze seguiva i particolari implusi dell’ambizione e dell’interesse, sui quali non sarà troppo arrischiato il dire, che si fossero per un momento accordate, cessando tutto in un tratto fra esse gli antichi dissidi.

Assicurandosi al piccolo Piemonte l’egemonia e il possesso del Continente italiano, si accordavano senza esitare alla Francia le belle provincie di Savoia e di Nizza, e l’eventuale possesso dell’isola di Sardegna. All’Inghilterra faceva pur d’uopo accordare qualche cosa, senza di che essa non si sarebbe di certo mossa. Ma quale era in ciò il suo interesse? Alcune indiscrezioni del Times, organo autorevole della opinione inglese, lo rivelano, e spiegano lo accanimento dell’Inghilterra contro il Re di Napoli.

«Austria e Francia, scriveva quel giornale (Ottobre 1856), hanno un piede in Italia; l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure.» E in questa frase è compresa tutta l’umanità e il liberalismo del Governo inglese: mettere un piede in Italia, vale a dire conquistare ed ottenere per sé la Sicilia.

In un suo scritto che ha per titolo: De la Sicile et de ses rapports avec l’Angleterre a pagine 103, l’Aceto nota, che «la Sicilia è il punto più strategico per tutti gli avvenimenti possibili nel Mediterraneo e nell’Oriente, e la porta d’Italia dalla parte del mare, che protegge l’indipendenza della nazione, che in mano dei forastieri può divenire per l’intera Penisola un solenne disastro. L’Inghilterra vi tenne sempre l’occhio sopra, perché generalmente essa tende all’ingrandimento, e perché la Sicilia le servirebbe a bilanciare l’influenza russa in Grecia e quella francese a Costantinopoli.»

– E di vero, osserva opportunamente l’Armonia (21 Ottobre 1856), gl’Inglesi non si lasciarono mai sfuggire veruna occasione per mettere piede nell’Isola; e talora si prevalsero delle condizioni di Europa, talora dei dissidii interni per signoreggiarla. Fin dal trattato di Utrecht tolsero la Sicilia alla Spagna per darla a Casa Savoia, alla quale avrebbero potuto più facilmente ritoglierla.

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Nel 1806 riuscirono ad occuparla militarmente fino al 1814 e, a fine di perpetuarvi la loro signoria colla discordia, furono essi i principali promotori della famosa Costituzione del 1812; la quale costituzione indeboliva oltre ogni dire la Sicilia separandola dal Regno di Napoli. A ciò appunto miravano gl’Inglesi; conciossiachè, stretti generosamente in lega coi Siculi pei trattati del 30 Marzo 1808, 13 Maggio 1800 e 12 Settembre 1812, intendevano bene che più isolata fosse resa la Sicilia, e più preponderante «vicina a signoria sarebbe stata la loro amicizia. Per chi ne dubitasse abbiamo in pronto l’espressa confessione del Marchese di Londonderv, il quale in un suo celebre discorso, detto alla Camera dei Comuni il 21 Giugno 1821, dichiarò senza ambagi: come, non per assicurare la felicità della Sicilia vi fossero stabilite le milizie inglesi dal 1805 al 1814. Quanto alla natura delle relazioni colla Sicilia (sono parole del nobile Marchese), quantunque il Governo abbia portato sempre molta stima ed affezione a questo paese, non è però del tutto per tale motivo o per assicurare la felicità della Sicilia, che milizie inglesi vi stanziarono. Questa era in realtà una occupazione militare. Il Governo, considerando lo stato di Europa, stimò necessario, tanto pel meglio della famiglia Reale, quanto per opporre un argine ai progressi sempre crescenti della Francia, di diffondere la Sicilia. La sua posizione insulare la rendeva acconcia ad approfittare della nostra potenza navale. Non solo era per noi facile di metterla al coperto di ogni esteriore violenza, ma era eziandio evidente potervisi stabilire una posizione militare, dalla quale si potrebbe fare un’utile diversione in favore della libertà di Europa, o nello scopo di riprendere l’Italia ai Francesi.

– Queste parole sono chiare abbastanza! esclamava la citata Armonia. Nei tempi andati, Francia e Inghilterra disputavano il possesso del Regno delle Due Sicilie. Gl’Inglesi erano in Sicilia, e Napoleone dava il Continente napolitano prima al fratel suo Giuseppe, e poi al cognato Gioacchino Murai Queste due Potenze lottano così ab antiquo fra di loro per il predominio sul Mediterraneo. La Francia possiede l’Algeria, l’Inghilterra l’Indostan: grande è il commercio delle due Nazioni ciascuna dalla sua parte, e ambedue hanno il medesimo interesse per la libera navigazione del Mediterraneo. Se la Francia potesse ridurre in suo potere Minorca e Portomaone, Tunisi e Tripoli, il Mediterraneo diverrebbe un lago francese. Se al contrariò l’Inghilterra potesse impossessarsi della Sicilia, padrona come è di Gibilterra e di Malta, comanderebbe su tutto il Mediterraneo. Ed ecco perché in ultima analisi l’Inghilterra e la Francia vollero sempre immischiarsi nelle cose d’Italia e di Napoli.

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Quindi è che il loro antagonismo politico commerciale marittimo si svolgeva sempre a danno dell’Italia. Ma ai nostri giorni due fatti singolari registra attonita la Storia: da una parte ì Inghilterra e la Francia che operano di conserva contro il Regno delle Due Sicilie: (e ciò in fondo si spiega facilmente, essendo uguale l’interesse nel distruggere, salvo l’accapigliarsi fra di loro giunto il momento di edificare) dall’altra, che siano riuscite ad avere complice nella malvagia impresa un Governo italiano. La necessità di fiaccare la preponderanza del Colosso del Nord spiega di leggieri la guerra di Oriente e la lega delle Potenze secondarie con le due Potenze ostili, l’Inghilterra e la Francia. La pace di Parigi non fu cessazione di guerra, ma cambiamento di terreno. Umiliata la Russia si doveva umiliare l’Austria, e distruggere il Regno delle Due Sicilie: era la ripetizione della lotta degli Orazi contro i Curiali. La Russia, l’Austria, il Re di Napoli venivano combattuti l’uno dopo l’altro alla spicciolata, e rimanevano vinti.

L’Inghilterra intanto, più scaltra, lasciandosi meno guidare dall’odio settario contro la Chiesa, che dal proprio interesse; mentre lasciava ai caldi frammassoni franco-sardi il triste compito di minare il trono dei Papi, dava alimento al fuoco rivoluzionario, fiso tenendo lo sguardo sulla Sicilia. Nel 1847 mandava perciò a Napoli Lord Minto con lo specioso pretesto di ottenere da Re Ferdinando concessioni in favore dei sudditi inglesi; ma in realtà per aizzare a ribellione i sudditi dello stesso Re. Ciò risulta da un dispaccio del medesimo nobilissimo Lord al suo degno principale Lord Palmerston, sotto la data del 18 Gennaio 1848. Così, mentre parlavasi di concessioni, la Sicilia sollevavasi e sottraevasi all’obbedienza del suo legittimo Sovrano. Ed ecco subito Lord Minto con dispaccio del 12 Febbraio successivo al signor G. Goowin, Console di S. M. Britannica a Palermo, fa conoscere al Comitato rivoluzionario palermitano, essere egli disposto ad entrare mediatore tra i ribelli siciliani 3 il loro Sovrano. Il Comitato accetta l’offerta, e con dispaccio del 14 del l’istesso mese invita Lord Minto, quale rappresentante della Gran Brettagna, a recarsi a Palermo. Scoppia però la rivoluzione di Parigi, e Lord Minto resta a Napoli, a sollecitare pronte riforme dal Re, affine di ridursi in pugno, con l’alta influenza della Gran Brettagna, le sorti dell’ambita Isola.

Ferdinando II in quelle supreme distrette pubblicava quattro Decreti, che convocavano il Parlamento siciliano a Palermo in

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giorno determinato, secondo tutte le forme adottate dal Comitato palermitano nell’atto di convocazione del 24 Febbraio, e collo scopo di applicare la Costituzione del 1812 ai tempi presenti. Il 10 di Marzo Lord Minto giunge a Palermo coi Regi decreti; ma nel presentarli ai Palermitani, chi il crederebbe? li consiglia a respingerli! (1).

Le concessioni del Sovrano venner infatti rigettate, elevandosi nuove pretensioni che preludevano allo spodestamelo del magnanimo Re. E Lord Minto, con fronte di bronzo, approvava quelle pretensioni, prendendo su di sé il compito di farle accettare alla Corte di Napoli. Cosi il famoso Inglese con doppio giuoco assumeva l’incarico di servire ad un tempo e spogliare Re Ferdinando. Ma l’uomo lealissimo sbagliò nei suoi calcoli: egli pretese che il Re si spogliasse colle proprie mani; ma questi, lungi dallo aderire all’atto codardo, rigettò risolutamente le domande siciliane. E il Gabinetto di Sl. Iames senza arrossire eccitò il Ministero siciliano a proclamare il decadimento della Dinastia dei Borboni dal trono di Sicilia, pur conservando la forma monarchica del governo più omogenea all’Inghilterra. Che se la forma repubblicana fosse prevaluta in Sicilia, la Francia, essendo governata allora a Repubblica, l’influenza francese avrebbe senza meno prevaluto nell’Isola. A mettere adunque un muro insormontabile di divisione tra i Siciliani e i Francesi, l’Inghilterra volle ed ottenne la forma monarchica di governo; e mostrandosi scaltramente disinteressata, presentava il Duca di Genova, secondo figlio di Re Carlo Alberto di Sardegna, a candidato per la corona di Sicilia. E i Siciliani, senza ombra di sospetto, il 21 Luglio 1848, mandavano una deputazione al Principe subalpino ad offrirgli la corona.

L’Inghilterra però, come non voleva una Sicilia governata a repubblica, onde non subisse la influenza francese, non la voleva nemmeno retta dal Duca di Genova, perché non divenisse suddita piemontese. L’Inghilterra voleva la Sicilia per sé: quindi un governo che continuasse ad agitarsi nel provvisorio.

Infatti Ferdinando II il 20 Luglio protestava contro la pretesa elezione del Duca di Genova, e la protesta veniva comunicata dal Conte di Loudolf, Ministro napolitano, al Ministro sardo Marchese Pareto, che ne dava immediata comunicazione a Lord Abercrombv, chiedendo consiglio. E il nobile Lord rispose, non darebbe egli mai il suo avviso su di ciò.

(1) Vedi le più volte citata Armonia.

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Tale risposta inchiudeva naturalmente il consiglio di rifiutare la corona: la Sicilia rimanendo cosi in sospeso, diveniva facile preda dello scaltrito protettore. «L’Inghilterra, lasciò scritto il Gioberti, nutriva gli spiriti municipali dei Siculi per ridurseli in grembo.» – Iddio sventò allora gl’interessati calcoli, e Re Ferdinando, destinato da Lui a divenire ospite magnanimo del Papa, riotteneva colla pace dei suoi Stati il tranquillo possesso della Sicilia.

Ma la setta non davasi per vinta, e poiché ne voleva alla Chiesa, nuova guerra indiceva ai Reali di Napoli, perché ad Essa fedeli.

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CAPO XIV.

Attentato contro il Re Ferdinando II.

Riusciti vani gli attentati diplomatici contro la fermezza del Re Ferdinando II, faceva d’uopo ai settarii ricorrere a mezzi più speditivi, risoluti come erano di liberarsi ad ogni costo della molesta presenza di quel grande Monarca; si ricorse perciò al ferro dell’assassino.

L’8 Dicembre 1866, festa dell’Immacolata Concezione, Ferdinando II Re di Napoli aveva assistito alla santa Messa insieme colla Famiglia Reale, con tutti gli alti funzionari, e 25000 uomini di ogni arma. Dopo la Messa, le milizie presenti vennero passate in rivista. Re Ferdinando presiedeva allo sfilare delle truppe, quando un giovine soldato, di nome Agesilao Milano, uno degli insorti di Calabria nel 1848, amnistiato nel 1852 ed entrato nell’esercito con carte false, usci dalle file e lanciossi sul Re avventandogli un colpo di baionetta. Il colpo fu ammortito dalla fonda delle pistole sospese alla sella del cavallo, e il Re n’ebbe lievissimo danno. Un Colonnello degli ussari, Conte Francesco de la Tour en Voivre, precipitossi sull’assassino e lo atterrò. Questo venne arrestato, e la sfilata prosegui. La sera, grandi feste in Napoli, e il popolo tripudiò perché il suo Sovrano era scampato da tanto pericolo. Agesilao Milano venne processato, condannato il 12 Dicembre, e giustiziato il mattino del giorno seguente. E qui è da notare una circostanza rilevantissima, che ci venne assicurata da persona autorevole e del tutto degna di fede, ed è la seguente. Agesilao Milano in faccia alla inevitabile sentenza di morte che era per colpirlo, caduto di animo, si mostrò pronto a tutto rivelare intorno agli istigatori e ai complici del suo delitto. Nomi e persone importanti erano per essere deposte negli atti processuali, od erano per sedere sul banco dei delinquenti. Traditori dei proprii Sovrani ve ne ha sempre dovizia in questi tempi tristissimi di pervertimento e di empietà! Ferdinando II ne aveva anch’esso intorno a sé: e si fu palese al momento della invasione delle Due Sicilie, pochi anni dopo.

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Essi adunque accortisi del pericolo che sovrastava a potenti felloni e a loro stessi, come agl’interessi più vitali della Setta, precipitarono lo svolgimento del processo, e, fatto un fascio di deposizioni e di documenti, mostrando ipocritamente zelo per la sicurezza dell’augusta persona di Re Ferdinando, adoperarono in guisa che lo sciagurato regicida fosse prestamente condannato a morte, e la sentenza più prestamente eseguita.

Attitudini del popolo napolitano

Gravi considerazioni faceva naturalmente sorgere l’attentato dell’8 Dicembre, ma noi ne registreremo una sola. – «L’assassinio contro il Re di Napoli, scriveva l’Armonia il 22 dello stesso Dicembre 1856, è la più solenne e la più incontestabile condanna di tutta quell’orda rivoluzionaria, che da parecchi anni spira fuoco e fiamme contro quel Monarca. Esso mette il suggello alla infamia di cui si cuoprirono quei plenipotenziari del Congresso di Parigi, i quali si avvilirono al segno di farai eco degli schiamazzi della piazza e del trivio. Quell’attentato da una mentita a tutte le calunnie della stampa inglese, francese e piemontese, e alle asserzioni, che tutto il popolo del Regno delle Due Sicilie odia e detesta in modo orrendo la tirannia del suo Sovrano. Come? un popolo bollente come quello del regno; un popolo che sa di essere sostenuto da tutta la stampa, che si arroga il monopolio della pubblica opinione; un popolo, che ha dalla sua le due maggiori Potenze del mondo; un popolo, che da tutti questi mezzi incendiar! è eccitato alla rivolta contro il suo Sovrano, non solo non si ribbella contro di lui, ma è preso da indignazione contro un branco di sconsigliati che alzano l’insegna della rivolta, e, nonché aiutarli nella loro sollevazione, piglia le parti del suo Sovrano; e questo popolo è oppresso dal più duro dei tiranni da non trovare riscontro che nei Neroni e nei Caligola? e coloro che spacciano queste fole trovano ancora chi loro presta fede? e fra questi credenzoni vi hanno uomini di Stato, Diplomatici, Ministri, Sovrani, Imperatori? Philosophorum credula nati, disse Seneca: noi potremmo dire dei politici ciò che quegli disse a’ filosofi: politici, razza di credenzoni! e diciamo i politici da caffè e da bettola, perché i politici da gabinetto s’infingono di credere per darla a bere.

Non è a dire quanta rabbia destasse in cuore ai libertini frammassoni il vedere l’alto sdegno che mostrò la popolazione napolitana contro l’infame attentato. «Il dispaccio telegrafico, nota il citato giornale, trasmessoci ieri, dopo quelle parole la popolazione si mostrò sdegnata, recava tra parentisi un sic! il che vuoi dire che colui che fece il dispaccio, o dubita del fatto,

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Giornali settarii pronunziano lo attentato

0 lo disapprova…. Ora il dispaccio a noi viene per gli ufficiali del Governo; e il Ministero esercita la censura preventiva sopra tutti i dispacci. Dunque…. ognuno può tirarne la conseguenza. Ah! dunque potete dubitare un’istante che un popolo non sentasi sdegnato alla vista di tanta infamia? Si capisce che coloro, i quali ricettano gli assassini del proprio Sovrano, che li onorano, che li ascrivono al novero dei cavalieri, dei legislatori, dei… si capisce che rimangono impassibili alla vista di un regicidio; anzi vi facciano plauso. Ma chiunque non ha fatto il giuramento di spegnere col braccio, e d’infamare colla voce i tiranni e la tirannide politica e morale, cittadina o straniera, sente raccapricciarsi per l’orrore a sì orrendo misfatto…. Non havvi che la civiltà libertina, la quale sia indulgente verso i traditori e ai vili assassini.»

Ma v’è di più: prima ancora che a Torino giungesse la notizia del tentato regicidio davasi per sicuro, che, riuscisse o no la sollevazione siciliana, le cose del Regno dovevano in ogni modo cambiare e la Costituzione esservi ristabilita. Anzi sapevasi nella capitale subalpina che al Re di Napoli doveva incogliere la stessa sorte di Pellegrino Rossi, il cui assassinio era annunziato dalla pubblica stampa prima ancora che fosse eseguito. La Vespa di Genova, N° 7, pubblicava il giorno 9 (ed era scritto il dì 8, vale a dire l’istesso giorno dell’attentato!) uno scellerato e villano articolo, intitolato –povero Bomba, – e diceva: «Se vi saltasse mai, o lettori, di pregare ad un vostro nemico un malanno, ma di quei buoni (parlo per modo di dire) augurategli la posizione privata e politica del povero Bomba: e vi assicuro che, in quanto a me,non vorrei essere io la Regina di Napoli. Figuratevi un uomo come quello, che ha contro tutto l’universo, che è detestato da tutti i Re, da tutte le Nazioni, come può vivere tranquillo nella sua Reggia!

E dopo di avere riandato ciò che fecero contro di lui Diplomatici e Sovrani, dice: «Egli non ha tanto da temere dai suoi nemici esterni, quanto dai suoi popoli, che lo amano alla pazzia, che vorrebbero averlo un poco nelle mani per farlo ballare.» E, ricapitolando con un pò di geometria gli elementi di questa sua posizione imbarazzata, trova, che «dinnanzi, a destra, a sinistra, ha nemici da per tutto: di dietro poi ed anche tutto all’intorno il fermento dei popoli, le imprecazioni, i lamenti dei torturati, le larve delle vittime, e il pericolo imminente di una botta sul cranio} e aggiungete momentaneamente la rivoluzione in Sicilia; e giacché si dice che l’abbia fatta comprimere, avrà di più nuovi rimorsi, nuove stragi sull’anima.»

 

 

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Dal che si vede, che la compressione della rivoluzione di Sicilia e la botta sul cranio sono due cose correlative. Non riuscito il tentativo di rivoluzione si ricorreva all’assassinio. E la Vespa concludeva: «Dunque vedete, lettori carissimi, se non è un brutto impiccio quello del povero Bombai e si può dire che è Punico al mondo che si trovi cosi bersagliato. Egli è come un debitore alla vigilia della mala paga che si danna e non trova più un soldo da nessuno perché ne ha truffati abbastanza. – Ora badate un pò alla umana fortuna, come travisa le cose. Un Re cosi devoto, così santo, che si confessava tutti i giorni a Gaeta, e che ha non so quanti milioni di benedizioni addosso, doverla finire cosi malamente! Se fossi, povera Vespa, un pò più ardita vorrei andargli all’orecchio e dirgli: – Maestà, voi siete in grazia di Dio, date una volta bando alle cure del mondo, lasciatevi mettere nel calendario dei Santi!…» (1).

Il governo subalpino premia i regicidi

Dio stornò la mala paga di cui Ferdinando II era, a dire del giornale libertino, alla vigilia; e, invece di essere scritto egli nel calendario dei Santi, fuwi uno dei così detti martiri di più nel martirologio dei frammassoni.

Ma quale maraviglia che i giornali della rivoluzione italiana il facessero festa precoce allo stabilito assassinio di un Monarca, e ne parlassero in modo così ferocemente insultante, se il Governo istesso subalpino, che tollerava così inaudita infamia, prodigava onori, eleggeva a Deputati, elevava a Ministri di Stato gli assassini palesi del proprio Sovrano, di quel Sovrano che, sventuratamente, perii primo aveva messo la sua spada a servizio della Setta.

Quello che l’Armonia accennava solamente, era fondato sopra irrefragabili documenti; e noi li recheremo qui stesso, sia pure a modo di digressione, sebbene risguardino fatti ormai lontani dall’epoca di cui parliamo; a far meglio conoscere quali fossero gli accusatori del Governo napolitano e dell’augusta persona del Re Ferdinando.

Pochi mesi prima del tentato regicidio veniva pubblicata in Torino una Storia del Piemonte del sig. Antonio Gallenga, Deputato ministeriale: scritta originariamente in lingua inglese, e pubblicata a Londra nel dicembre dell’anno 1855, dall’autore medesimo era stata tradotta in italiano. Era dessa una di quelle storie ad usum Delphini, vale a dire, a servizio del Ministero; ma che

(1) L’Almanacco nazionale del 1857, anno IX, edizione a cura della Gazzetta del popolo, fa il panegirico di Bentivegna e di Milano, dando loro l’epiteto di Santi e ne riporta e medaglie, pag. 71 a 75.

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appunto perciò ha valore maggiore nel caso nostro. Mazzini e Mazziniani vengono bistrattati e messi in dileggio dal Gallenga. Chiama egli Mazzini, giovane entusiasta retto di cuore, ma obliquo di mente, esule impaziente, autore di matte congiure; e nel secondo volume ecco come parla degli eccessi della Giovane Italia, e dei tentativi di regicidio:

«Mazzini intanto, cacciato di Francia, aveva posto a Ginevra il quartier generale di quelle sue matte congiure. Aveva intorno a sé alcune migliaia tra fuorusciti italiani e polacchi, per mezzo dei quali meditava un attacco in Savoia.

L’attentato contro Carlo Alberto

«Trovavasi presso del Capo della così detta Associazione Naffiu?arI° zionale un giovane fanatico, stanco della vita d’esilio, e nudrito alla scuola classica del patriottismo d’Alfieri, avvezzo al teatro dell’Opera a vedere in Guglielmo Teli esaltato il più bel tipo di eroismo. Giunse allora in Ginevra la madre di Rufflni col rimanente della famiglia, che veniva in ricovero in Svizzera, ancor tutta trambasciata dalla ferale tragedia che aveva insanguinate le mura del carcere di Genova. Quello spettacolo di muto dolore scaldò la fantasia del giovinetto ammiratore dei Bruti e dei Timoleoni, il quale si offerse di vendicare quella desolata madre, togliendo di vita il tiranno.

«Fu fornito da Mazzini di passaporto, danaro e lettere, e venne così a Torino nell’Agosto 1833, sotto il mentito nome di Luigi Mariotti. I partigiani di Mazzini a Torino erano però tutti o presi, o fuggiti, o nascosti. Non trovò lo straniero chi gli desse consiglio o direzione a condurre ad effetto il suo intento, niuno che potesse avvantaggiarsi dell’esito; per quasi due mesi indugiò egli invano cercando opportunità di ferire. N’ ebbe sospetto finalmente la polizia; ed alcuni amici che ne avevano in parte indovinato il terribile segreto, tanto gli stettero intorno che lo fecer partire. Uno scrittore poco temperato dei tempi nostri ha creduto poter portare altro giudizio di quell’attentato, di cui ha anche travisato i fatti principali; ma ha dovuto poi ricredersi dopo piò maturo esame, e confessare che il giovane regicida, per quanto sconsigliato e demente potesse dirsi, non era però, né «furfante» né «vigliacco.» Carlo Alberto non ebbe mai distinta idea delle trame ordite contro la sua persona; ma siccome fu poco dopo arrestato un’altro emissario di Mazzini, portatore di un pugnale col manico fatto di pietre preziose a mosaico, ne rimase nell’animo del Re e in quello dei più fidi suoi sudditi una impressione, che Mazzini non rifuggiva dall’uso del coltello dell’assassino; «ne vuole alla vita del Re»

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è quanto si udiva spesso, parlando di Mazzini, tra gli Ufficiali dell’esercito piemontese alla campagna del 1848.»

II Gallenga nel brano citato accenna alla madre di Ruffini ed suicidio h alla ferale tragedia che aveva insanguinate le mura del carcere di Genova. Per chi non fosse molto addentro alla storia della rivoluzione, ecco quel fatto, colle parole dello stesso Gallenga: «Iacopo Raffini, amico di Mazzini, arrestato a Genova, temendo che la straziante tortura morale, a cui lo assoggettavano, avesse a strappargli parola che compromettesse altrui, si determinò al suicidio, ed eseguì il disegno con efferata barbarie contro di sé medesimo. Strappò una ruginosa lamina di ferro, di cui era foderato l’uscio del carcere, la arrotò al macigno del davanzale della fenestra, e se ne segò la gola. (Disgraziato!)

Suicidio di Ruffini

Ecco lo spettacolo di muto dolore, che scaldò la fantasia del giovinetto ammiratore dei Bruti e dei Timoleoni! Dopo le quali cose, Antonio Gallenga passa a raccontare la spedizione dei Mazziniani contro la Savoia nel 1834; e ride di Mazzini, che «strinse la fida sua carabina, e volle accorrere al conflitto: ma cadde subito svenuto nelle braccia dei compagni, che lo trasportarono così in salvo oltre il confine.

Questo frizzo e le cose sopra narrate, ed i giudizi di Gallenga offesero i Mazziniani, uno dei quali, Federico Campanella, stimò opportuno di giudicare la nuova Storia del Piemonte per ciò che riguarda la spedizione di Savoia nel 1834, e lo fé in due notevolissime appendici stampate sull’Italia, e Popolo, N. 294 e 295, del 23 e 24 di Ottobre.

Nella prima appendice, Federico Campanella rimprovera al Gallenga ben tredici bugie, stampate nel raccontare un fatto solo, oltre un diluvio di bugie che tace; e conchiude: «Ah! Gallenga, Gallenga, che cosa avete fatto! Voi avete abbeverato di fiele la logica, flagellato il buon senso, crocifisso la storia; avete accumolato bugie sopra bugie, vi siete reso colpevole di falso in in scrittura storica.»

Nella seconda appendice, poi passa a parlare del giovane fanatico, che nell’Agosto 1832 venne in Torino, sotto il falso nome di Luigi Mariotti, per pugnalare Carlo Alberto. E qui lasciamo la parola a Federico Campanella:

Rivelazioni di Campanella

«Chi è desso? Perché cela la faccia sotto la maschera dell’anonimo? Perché non dice il suo nome? Chi, meglio di Antonio Gallenga, conosce Luigi Mariotti?

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«Costui, non si trovò a caso col capo della Giovine Italia, né ebbe bisogno della lagrima di una madre, né degli eccitamenti di Mazzini, per decidersi al regicidio. Venne dalla Corsica, ignoto a tutti, Bruto nato, Bruto cresciuto, Bruto fatto, Bruto determinato, Bruto prima di vedere Mazzini e la madre di Rufflni. Lungi dall’incitarlo, Mazzini abbietto, discusse, mise innanzi tutto ciò che poteva smoverlo. Bruto 1° rimase irremovibile… per allora. Se non commise il regicidio, non fu certo per mancanza d’indicazioni a Torino: ebbe anzi tutte le indicazioni possibili, e noi non faremo l’ingiuria al Bruto 1° di credere ad un motivo così frivolo e meschino, messo innanzi dallo storico. Noi crediamo invece, che ciò accadesse per un ritorno felice a sentimenti più sani, più umani, e – diciamolo pure – più proficui. Nell’atto di vibrare il colpo, Bruto 1° pensò a’ fatti suoi; e, fatto rapidamente il calcolo dei profitti e perdite tra il mestiere di Bruto e quello di entusiasta monarchico, il nostro bravo Mariotti, uomo alquanto scettico in politica, ma eccellente in aritmetica, si decise pel mestiere dell’entusiasta. Questa savia risoluzione ebbe la sua ricompensa,e, di suddito parmense ch’egli era, divenne tosto cittadino sardo, indi Deputato al Parlamento di Torino, indi Ambasciatore in Germania, indi cavaliere di non so qual ordine, indi…. e perché no? si son veduti Ministri Bruti e Mariotti quanto il nostro Luigi. Fatto si é, che nella dolce speranza d’un portafoglio, un bel giorno, in un momento di crisi ministeriale, Bruto 1° consultando più il suo buon cuore che le sue forze, fece omaggio al Ministro periclitante dell’aiuto di tutta la sua eloquenza, si slanciò animoso alla tribuna, e, giunto proprio nel mezzo, balbettò tre o quattro parole, si confuse, fece fiasco, prese un bicchier d’acqua inzuccherata, scese dalla tribuna, e, disgustato dell’arte oratoria, diede di piglio alla penna, e finì collo scrivere tre volumi di roba, intitolata (Dio sa perché) Storia del Piemonte.

«Siccome queste cose meritano di essere messe in chiara luce, noi cederemo la parola a chi é meglio informato di noi.

«Caro Federico,

Lettera di Mazzini a Campanella sul fatto di Gallenga

«Non molto prima della spedizione di Savoja, dopo le fucilazioni dei nostri in Genova, Alessandria, Chamberv, sul finire del 1833, mi si presentò all’Albergo della Navigazione, a Ginevra, una sera, un giovane ignoto. Era portatore di un biglietto di L. A. Melegari, oggi professore, Deputato ministeriale in Torino, allora

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nostro, che mi raccomandava, con le parole più che calde, l’amico» suo, il quale era fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi meco. Il giovarne era Antonio Gallenga. Veniva di Corsica.» Era affratellato della Giovane Italia.

«Mi disse, che, da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso di vendicare il sangue dei suoi fratelli, e d’insegnare ai tiranni, una volta per sempre, che la colpa era seguita dalla espiazione: ch’ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo Alberto il traditore del 1821, e il carnefice de’ suoi fratelli; che egli aveva nutrito l’idea, nella solitudine della Corsica, finché si era fatta gigante e più forte di lui;…. e più altro.

«Obbiettai, come ho fatto sempre in simili casi; discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smoverlo. Dissi che io giudicava Carlo Alberto degno di morte, ma che la sua morte non salverebbe l’Italia; che per assumersi un ministero d’espiazione, bisognava sentirsi puro d’ogni senso di povera vendetta e d’ogni altro che» non fosse missione; che bisognava sentirsi capaci di stringere le mani al petto, compito il fatto, e darsi vittima; che in ogni modo» ei morrebbe nel tentativo; che morrebbe infamato dagli uomini come assassino,……… e via così per un pezzo.

«Rispose a tutto; e gli occhi gli scintillavano mentre ei parlava. Non importargli la vita, non si arresterebbe d’un passo; compito l’atto, griderebbe: Viva l’Italia.! I tiranni osar troppo, perché si curi dell’altrui codardia; bisognava romper quel fascino. Si sentiva destinato a quello. S’era tenuto in camera un ritratto di Carlo Alberto, e il contemplarlo gli aveva fatto più sempre dominante l’idea. Finì per convincermi, che egli era uno di quegli esseri, le cui determinazioni stanno tra la propria coscienza e Dio, e che la Provvidenza caccia, da Armodio in poi, di tempo, in tempo, sulla terra per insegnare ai despoti, che sta in mano d’un uomo solo il termine della loro potenza.

«E gli chiesi che volesse da me?

«Un passaporto e un pò di danaro.

«Gli diedi mille franchi, e gli dissi che avrebbe un passaporto in Ticino.

«Fin là ei non sapeva neppure che la madre di Iacopo Ruffini fosse in Ginevra, e appunto nell’Albergo dove era io. Gallenga rimase la notte e parte del giorno dopo. Pranzò con la Ruffini e con me; non si disse verbo tra loro: lasciai la Raffini ignara delle intenzioni. Essa era generalmente ammutolita dal dolore e non mosse quasi parola.

«Nelle ore in cui egli rimase, sospettai che ei fosse condotto

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più da una sfrenata ambizione di fama, che non dal senso di una missione espiatoria da compiere; mi ricordò sovente che da Lorenzino de’ Medici in poi non s’era compiuto un simile fatto; e mi raccomandò che io scrivessi, dopo la sua morte, alcune linee» sui suoi motivi. Parti.

«Valicando il S. Gottardo, mi scrisse poche parole piene d’entusiasmo; s’era prostrato sull’Alpe, e aveva tornato a giurare all’Italia di compiere il fatto.

«Ebbe in Ticino un passaporto col nome di Mariotti. Giunto in Torino, si abboccò con un membro del Comitato dell’Associazione, del quale aveva avuto il nome da me. Fu accolta l’offerta. Furono presi i concerti. Il fatto si compirebbe in un lungo andito in Corte, pel quale il Re passava ogni Domenica per andare alla Cappella regia. S’ammettevano taluni per vedere il Ré, con un biglietto privilegiato. Il Comitato poté provvedersi di uno. Gallenga andò con quello, senz’armi, a studiare il luogo; vide il Re, e fu più fermo che mai; lo diceva almeno. Fu statuito che la Domenica ventura si compirebbe.

«Allora, impaurito dal procacciarsi, in quei momenti di terrore organizzato, un’arme in Torino, mandarono un membro del Comitato, Sciandra, commerciante, oggi morto, per la via di Chambery a Ginevra a chiedermi l’arme ed avvertirmi del giorno. Un pugnaletto con manico di lapislazzoli, che m’era dono carissimo, stava sul tavolo: accennai a quello. Sciandra lo prese, e partì.

«Ma intanto, io non considerando quel fatto come parte, del lavoro insurrezionale ch’io dirigeva, e non facendone calcolo, man dava per cose nostre a Torino un Angelini, nostro, sotto altro nome. L’Angelini, ignaro del Gallenga e d’ogni cosa, prese alloggio appunto nella via dove stava in una cameretta il Gallenga. Poi, commettendo imprudenze di condotta, fu preso a sospetto: tornando a casa, la vide invasa da Carabinieri; tirò di lungo e si pose in salvo.

«Ma il Comitato, inteso che a due porte da quella del regicida, erano scesi i Carabinieri, e non sapendo cosa alcuna dell’Angelini, argomentò che il Governo avesse avuto avviso del progetto» e fosse in cerca di Gallenga.

«Perciò lo fece uscir di città, lo avviò ad una casa di campagna fuori di Torino, dicendogli, che non si poteva tentare la Domenica; ma che, se le cose si vedessero in quiete, lo richiamerebbero per un’altra delle successive.

«Una o due Domeniche dopo mandarono per lui; non lo trovarono più; era partito. Ed io lo rividi in Svizzera.

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«Rimanemmo legati; ma si sviluppò in lui un’indole più che orgogliosa, vana, una tendenza di egoismo, uno scetticismo insanabile ed uno sprezzo d’ogni fede politica, fuorché l’unica dell’indipendenza italiana.

«Lavorò meco, fu membro del Comitato centrale. Firmò un’appello stampato agli Svizzeri contro la tratta di soldati sgherri, che fanno. Poi s’astenne. Si diede a scrivere articoli di riviste e libri. Disse e misdisse degli Italiani, e degli amici, e di me.

«Prima del 1848 si riaccostò, e fece parte d’un nucleo che si organizzò sotto nome nostro. Venne il 1848. Io partiva, mi chiese di partire con me. A Milano si separò, dicendomi ch’egli era uomo di fatti e andava al campo. Invece di andare al campo, si recò a Parma, dove cominciò a congregare il popolo in piazza, e a predicare quella malaugurata fusione, che fu la rovina d’Italia. Diventò segretario d’una Società federativa, presieduta da Gioberti, del quale aveva scritto plagas nei suoi libri inglesi sull’Italia. Sottoscrisse circolari stampate in Torino, destinate a magnificare la Monarchia piemontese. Fu scelto dal Governo a non so’ quale piccola Ambasciata in Germania, più tardi fu ed è Deputato.

Io lo incontrai a Ginevra dopo la caduta di Roma. Mi parlò; indifferente al biasimo e alla lode, gli parlai. Egli accusava i Lombardi di non aver secondato il Re; gli narrai quella storia di dolore che io aveva veduta svolgersi: egli no; gli provai la falsità dell’accusa; parve convinto, e insistette perché io scrivessi qualche cosa.

«Dopo un certo tempo, tornato in Londra, trovai ch’egli, giuntovi appena, aveva pubblicato un libello contro i Milanesi, dov’ei li chiamava persino codardi. Nauseato, e dolendomi di vedere così calunniato da un Italiano tra stranieri un popolo di prodi traditi, deliberai di non più vederlo, e non lo vidi più.

«Ama il tuo

«Giuseppe Mazzini.»

«Tra l’uomo sincero e lo storico libellista, tra il patriota Italiano e il detrattore degli Italiani, giudichi il lettore.

«Federico Campanella.»

Queste cose parrebbero incredibili, e farebbero esitare ad accoglierle uno storico coscenzioso; ma che dire, quando gli autori stessi di così abbominevoli cose ce le narrano per filo e per segno, scritte in lettere di proprio pugno, e sottoscritte col loro nome?

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Non resta in tal caso che di raccogliere siffatti documenti e, sebbene con orrore, consegnarli alla storia. Ecco ora una importante lettera, pubblicata nel Risorgimento, 28 Ottobre 1856, N. 1749, a corroborare le accennate cose.

«Signor Redattore

«Torino 27 Ottobre 1856

«Alcuni amici m’han posto nelle mani il Giornale Italia e Popolo, del 24 corr:

«Vi trovo in un’appendice la continuazione di un articolo su quei tre volumi, róbba intitolata da me (Dio sa perché) Storia del Piemonte. Si accenna in esso articolo un fatto da me narrato in quell’opera, ed attribuito a Luigi Mariotti. Raccontai quel fatto, e nell’edizione inglese di quel mio lavoro, e nella traduzione italiana. Molte persone in Inghilterra, e non poche in Piemonte – di quelle che mi conoscono – sanno che Luigi Mariotti ed Antonio Gallenga sono una sola persona. Di più, questa identità risulta da più luoghi dell’opera stessa. Nella traduzione italiana si cita anche un passo della Storia militare di Pinelli, nella quale vien narrato il fatto stesso, alterandone alquanto le circostanze, e facendone carico ad un certo G. G., colle quali lettere comparvero nei giornali di Torino parecchie lettere mie.

Una lettera di Gallenga

«L’autore dell’appendice dell’Italia e Popolo non rivela dunque fatto alcuno, di cui io non abbia fatta confessione pubblica da due anni, e di cui io abbia mai in privato fatto mistero agli amici miei. Di quel fatto io son pronto a dar ragione a chicchessìa, ed a subirne le conseguenze. L’appendice cita una lettera di Mazzini, uomo di cui ho sempre ammirato ed ammiro il genio sommo, di cui ho sempre amato ed amo l’anima schietta, gentile e generosa, sebbene differissi e differisca da lui quasi sempre d’opinioni politiche. Non mi pare che la lettera di Mazzini in sostanza contraddica di alcuna guisa la mia narrativa, o vi aggiunga alcun particolare di rilievo. Ad ogni modo dichiaro che Mazzini scrive, com’io scrivo, il vero.

«Solamente dalla sua lettera potrebbe forse inferirsi che l’amico mio Luigi Amedeo Melegari fosse in modo alcuno motore od istigatore del fatto ivi accennato. Ove le parole di Mazzini potessero dar luogo a tale interpretazione, credo mio dovere l’affrettarmi ad affermare solennemente, che di quell’attentato fui io solo primo autore e consigliero; che il pensiero spuntò volontario

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ed immediato nell’animo mio, e che non può e non deve appor sene ombra di biasimo né a Melegari, né ad alcun altro. «Ho l’onore di essere «Sig: Redattore.

«Dev.mo suo»

«A. Gallenga.»

Cinismo settario

– Qui ci cade di mano la penna! esclamava l’Armonia. Non sappiamo se maggiore sia il delitto del 1833, o il cinismo del 1856. Povero Piemonte! povera Casa di Savoia! nel 1833 si volle pugnalare Carlo Alberto, e si stampa oggi in Torino sotto gli occhi di suo figlio Vittorio Emanuele II! Lo volle pugnalare Antonio Gallenga; e Antonio Gallenga è oggi deputato del Regno e fa leggi, e provvede insieme cogli altri, così detti, legislatori, alla pubblica sicurezza. Amedeo Melegari, sebbene non motore ed istigatore del fatto, ne era però conscio, e diè al Gallenga il mezzo per eseguirlo. E ora anch’esso è Deputato, è professore nella nostra Università, ed ora Ministro di Stato per gli Affari Esteri, pronto ad insegnare agli Ambasciatori stranieri in che modo si facciano camminare i Monarchi. Abbiamo avuto Ministri rei dello stesso delitto del Gallenga, e lo dice Federico Campanella, e purtroppo noi veggiamo che suoi dire la verità! Che serie di orrori, Dio mio!………. Chi non apre gli occhi, dopo documenti di questa fatta, costui, oh! sì costui è o connivente o imbecille. –

A taluno sarà parsa soverchia la fatta citazione; ma al nostro scopo di svelare al mondo i detrattori della Monarchia cristiana in generale, e di quella di Ferdinando II in particolare, era mestieri non lasciar sperduto un cosi importante brano di storia, che fa toccare con mano come l’assassinio e gli assassini non escano sempre dalle bolgie del delitto, ma possono ancora uscire dalle aule ministeriali e dalle reggie dei Monarchi.

Nuovi attentati contro il Governo napolitano

Posta su tale inaudito terreno la sorte delle Monarchie italiane, abbandonate da’ loro naturali amici, e messe in balìa dei più sleali e spietati nemici, sostenuti e incoraggiati dalla frammassoneria cosmopolita, e da due dei più potenti Stati di Europa, quali erano l’Inghilterra e la Francia, non è maraviglia se dovettero finalmente soccombere, malgrado degli sforzi i più eroici, e ad onta dell’amore e della devozione dei popoli ad esse soggetti.

Ma gli attentati contro il Governo napolitano da parte del Piemonte divenivano ogni giorno più gravi e continui. Un tale Barone Bentivegna di Corleone, membro della Camera dei Deputati del 1848 e poscia dei varii comitati rivoluzionarii della Sicilia,

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ai 22 di Novembre 1856 adunava circa 300 illusi o prezzolati, ed occupato Mezzoiuso, terra a breve distanza da Palermo, quivi li armò alla meglio; sollevò la solita bandiera della rivoluzione italiana, annunziando molti aderenti nell’interno e poderosi soccorsi dall’estero. Trasse per tal modo nell’inconsulto movimento Villarate, Cimina, Ventimiglia ed altri vicini paesi, e, quel che più importa, la vicina città marittima di Cefalù. Corsero subito ad incontrarli milizie regolari e di polizia, le quali in un momento dispersero quei disgraziati, che fuggirono per le montagne. Alcuni però vennero arrestati, tra i quali il Bentivegna stesso, che, sottoposto a un consiglio di guerra, ai 18 di Decembre venne fucilato nella medesima terra di Mezzoiuso.

Questi fatti, per mezzo degli organi venduti alle società segrete, avevano somministrato larga materia a maligne declamazioni in tutta Europa; quindi, sul cadere dell’anno 1856, il Governo delle Due Sicilie diramava ai suoi agenti diplomatici una circolare, nella quale era detto:

Circolare del Governo napolitano circa gli ultimi attentati

«Mercé la divina assistenza, i dominii di S. M. il Re sono usciti salvi dalle tre ultime e terribili prove per le quali hanno dovuto passare in si poco tempo: prove, che sebbene differenti tra loro, erano tuttavia tali da gittare il Regno intero in tutte le spaventose conseguenze della costernazione e del disordine, se il coraggio e la perspicacia del Re, l’affetto e la fiducia del popolo nelle eminenti qualità del Sovrano, e l’inalterabile fedeltà delle truppe non avessero cambiato in gloria per S. M. e in gioia per tutti i suoi sudditi, le catastrofi che dovevano condurli alle più tristi calamità.

«Voi conoscete già i tre funesti avvenimenti, che, l’uno dopo l’altro, ebbero luogo. – Primieramente il tentativo d’insurrezione in alcuni Comuni della Sicilia; quindi l’orribile attentato contro la sacra Persona del Nostro amatissimo Sovrano; e finalmente l’esplosione, che riguardasi per accidentale, di una polveriera del porto militare, la quale saltò in aria senza produrre alcuna di quelle sventure, che potevano risultare, e in confronto delle quali quelle verifìcatesi sarebbero un nulla, se non si avesse a deplorare la morte di alcuni individui trovatisi sul posto per dovere di servizio.

«Le manifestazioni con cui spontaneamente i popoli hanno attestato al Re la loro gioia e la loro devozione, dissiparono sino all’ultima traccia lo spavento che il caso aveva nel primo istante prodotto; esse aumentarono la convinzione dell’amore dei sudditi verso il loro Sovrano e Padre ammirato, e danno la sicurezza

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che sarà sempre un vano tentativo quello di turbare la tranquillità negli Stati del Re, la quale riposa sulla clemenza, la saviezza e la fermezza di Sua Maestà.

«Questo è lo stato di cose che gli avvenimenti sopraccennati non hanno minimamente cambiato, che offre al Regno la più sicura garanzia dell’avvenire, e che conserva nell’animo del Re le stesse intenzioni di continuare per l’avvenire, come fece nel passato, i suoi atti di clemenza verso quelli fra i suoi sudditi, che vennero già condannati, o condonando loro le incorse pene, o richiamando dall’esilio quei, che non essendo riconosciuti dannosi alla pubblica quiete, ne facessero la domanda o si mostrassero pentiti o sottomessi.

«Troverete qui unita, o Signori, una Usta, oltre quelle che già vi trasmisi, di tali individui, affinché siate in grado di concorrere, nella parte che vi spetta, alla esecuzione delle grazie accordate dal Re, e possiate, quando se ne presenterà l’occasione, conformare ad essa il vostro linguaggio per confutare le menzognere asserzioni, che corsero sulla pretesa tirannia del nostro Governo».

firmato «Carapa»

Gli attentati rivoluzionari però, che con difficoltà facevano presa nel Regno delle Due Sicilie, a cagione dell’ordine, della pace e della ricchezza in che vivevano quei popoli, si sviluppavano in maggiori proporzioni e minacciosamente nei Governi, che gli aizzavano e fomentavano contro il Regno delle Due Sicilie. Imperocché sembrava poca cosa agli occhi della Setta quello che dal Piemonte e dalla Francia principalmente si faceva per la rivoluzione, e si voleva spingerli sempre più avanti, come presto vedremo.

APPENDICE AL LIBRO PRIMO

Prima di passare al Libro secondo del nostro lavoro crediamo conveniente di aggiungere qui, a mo’ d’Appendice, alcuni documenti da noi accennati o recati solo in parte nel primo Libro: essi completeranno meglio la presente raccolta. E sia per prima la seguente lettera di Cavour a uno dei principali istrumenti della rivoluzione.

Caro Castelli

Parigi, aprile 1856.

…Non posso più entrare in molti particolari, ma l’assicuro che non ho a lagnarmi dell’Imperatore. La Francia voleva la pace, egli dovette farla, ed invocare perciò il concorso dell’Austria. Non poteva quindi trattare questa Potenza come nemica, anzi sino a un certo punto era costretto a trattarla come alleata. In una tale condizione non poteva nella questione italiana adoperare le minacce; le esortazioni erano solo possibili. Queste furono adoperate, e tornarono vane. Il Conte Buoi fu irremovibile nelle grandi, come nelle piccole cose. Questa tenacità, che torna a danno presente, risulterà a vantaggio futuro dell’Italia. L’Imperatore n’è irritatissimo, e non lo nasconde. L’altra sera mi disse: «L’Autriche ne» veut se prêter à rien; elle est prête à faire la guerre plutôt que» de consentir à la cession de Parme en votre faveur; or en ce» moment je ne puis pas lui poser un casus belli; mais tranquillisez vous, j’ai le pressentiment que la paix actuelle ne durera pas longtemps.»

L’Imperatore ha proposto all’Austria di prendere i Principati danubiani e di abbandonarci la Venezia e la Lombardia, ed in mia presenza disse a Clarendon: «C’est la seule solution raisonnable des affaires d’Italie». Ciò basti a provarle le buone disposizioni dell’Imperatore e la necessità di non irritarlo con epigrammi che a nulla giovano, e possono fare gran male (1). Mi creda

  1. Cavour.

(1) «Allude, nota Nicomede Bianchi, a un diano, il quale villaneggiava e derideva di continuo l’Imperatore, Michelangelo Castelli, egregio cittadino assai benemerito all’Italia, era invitato dal Conte Cavour a persuadere amichevolmente la direzione del diario a desistere. «I nostri nemici, scriveva il Conte nel brano di questa lettera che abbiamo sospeso di pubblicare, per non venir meno a personali riguardi, mandano a Parigi tutti i numeri che contengono qualche allusione all’Imperatore, e questi cadono tutti sotto i suoi occhi. Si sfoghi il giornale sui ministri, su di me: non me ne lamento, ma lasci stare colui che, volere o non volere, ha la chiave della politica nelle mani.»

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Da questa lettera si rilevano più cose buone a sapersi. 1° Che l’imperatore Napoleone III fu costretto a far la pace, perché la Francia non voleva la guerra; 2° che per fare la pace dovette invocare il concorso dell’Austria, cui era costretto trattare come alleata; 3° che l’Imperatore, irritatissimo contro la medesima Austria, avrebbe voluto dare Parma al Piemonte, e aveva il presentimento che la pace attuale non durerebbe lungo tempo; 4° finalmente, che la sola soluzione ragionevole per evitare una nuova guerra era quella proposta da Napoleone III, cioè che l’Austria cedesse Lombardia e Venezia al Piemonte, e prendesse invece i Principati Danubiani, spogliandosi bellamente di ciò ch’era suo, per prendersi la roba degli altri (1).

A questa fa seguito un altro gruppo di lettere del Cavour al Rattazzi, che ci rivelano pure qualche cosa.

(1) Per nulla lasciare d’intentato, scrive il de Volo, o per confondere le idee, entrò (Cavour) persino a proporre le più svariate combinazioni politiche, le quali avevano, se non altro, il fine di scompaginare giusti ed antichi diritti, sostituendovene dei nuovi, basati sulla rapina. Cosi scriveva egli a Walewski fino dal 21 Gennaio 1856. «Bisogna riconoscere la necessità di riformare nelle Legazioni e nella Romagna la condizione delle cose, ed il solo durevole ed efficace rimedio sarebbe quello di porle sotto il governo di un principe laico; e siccome non si dovrebbe accrescere lo spezzamento d’Italia, bisognerebbe darle al Duca di Modena o al Granduca di Toscana: questo fatto favorevole all’Austria potrebbe causare un aggiustamento territoriale, nel quale il Piemonte potrebbe trovare giusto compenso a quanto ha fatto. Io, quantunque non ammiratore dei governi di Modena e di Toscana, devo confessare che sotto ogni riguardo sono migliori del governo papale; a Modena ed a Firenze sono più o meno bene governati; a Bologna ed Ancona non v’è governo, ed in queste terre infelici, dove si soffrono tutti i mali della signoria straniera, della tirannia e dell’arbitrio, sta anche l’anarchia popolare. Ora la sostituzione al governo papale di un Principe temporale, fosse pure della famiglia d’Austria, se non sarà per quei luoghi una intera liberazione, per loro e per l’Italia sarà almeno un benefizio immenso, che farà benedire al di qua delle Alpi jl nome dell’Imperatore.»

Lo stesso Cavour, ad onta della sua confessata avversione, doveva per altro convenire che a Modena come a Firenze i popoli erano più o meno bene governati; ciononostante in queste vaghe sue proposte ad altro non mirava che a rendere accettevole l’idea di una innovazione. Sapeva egli benissimo che Napoleone III non avrebbe mai posto mano ad un ingrandimento di potenza del Duca di Modena, che solo fra tutti i sovrani del mondo aveva avuto il coraggio di non riconoscere il secondo Impero, e non poteva nemmeno ignorare ciò che a tutti era noto, che cioè Francesco V, riguardando la sovranità come un dovere da compiere e non come un diritto da usufruirei si teneva pago di quanto gli spettava, né certamente avrebbe mai aderito ad ingrandirsi colle spoglie del dominio papale.

E tanto è vero che l’agitatore piemontese nulla annetteva di positivo e di serio alle sue avventate proposte, che di 11 a poco lo vediamo dirigerle sopra un campo assai più lontano ed affatto diverso, quello cioè di trasferire i duchi di Modena e

 

 

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Sei lettere del Conte di Cavour ad Urbano Rattazzi

durante il congresso di Parigi.

Caro Collega,

Parigi, 10 Aprile 1856.

In un lunghissimo dispaccio, diretto a Cibrario, riferisco minutamente le sedute del Congresso di ieri, in cui si trattò la questione d’Italia. Poco ho da aggiungere al mio racconto ufficiale. Valewski era evidentemente imbarazzato a parlare del Governo del Papa, fu debolissimo nelle sue repliche alle energiche proteste di Buoi. Fu molto più esplicito rispetto a Napoli, ne parlò con parole di aspra censura. Andò troppo oltre forse, poiché impedì ai Russi di unirsi alle sue proposte.

Clarendon fu energico quanto mai, sia rispetto al Papa, sia rispetto al Re di Napoli; qualificò il primo di quei governi siccome il peggiore che avesse mai esistito; ed in quanto al secondo, lo qualificò come avrebbe fatto Massari. Credo, che convinto di non potere arrivare ad un risultato pratico, giudicò dovere adoperare un linguaggio extraparlamentare. Avremo ancora una seduta animata, quando si tratterà dell’approvazione del protocollo. Clarendon mi disse riservare la sua replica per quella circostanza.

Nell’uscire gli dissi: «Mylord, lei vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia; sarebbe tempo di adoperare altri mezzi, almeno per ciò che riflette il Re di Napoli. Mi rispose: «Il faut s’occuper de Naples et bientôt.» Lo lasciai dicendogli: «J’en viens causer avec vous.»

Credo potere parlargli di gettare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il principe di Carignano? O, se a Napoli volessero un Murat, di mandarlo a Palermo? Qualche cosa bisogna fare. L’Italia non può rimanere nelle condizioni attuali. Napoleone ne è convinto, e se la diplomazia fu impotente, ricorriamo a mezzi extralegali. Moderato d’opinioni, sono piuttosto favorevole ai mezzi estremi ed audaci. In questo secolo ritengo essere sovente l’audacia la migliore politica. Giovò a Napoleone, (ma come finì?) potrebbe giovare a noi.

Dica al Re, che uscirei cento volte dal ministero, anziché consentire ad affidare la più delicata di tutte le missioni a X………

di Parma nei Principati danubiani, per. allargare cosi le frontiere del Piemonte Bino verso Toscana e per mettersi a contatto del Pontificio, il cui governo era da lui definito per un cadavere, che non doveva farsi rivivere ma seppellire.

Questa espressione è nella suddetta lettera di Cavour a Walewski.

Quanto al progetto di trasferire il Duca nei Principati Danubiani, ne ò fatto cenno con oltraggiosa e sconveniente leggerezza in due lettere scritte da Cavour a Cibrario nel marzo 1856 (da noi recate) dove l’ignoranza dei diritti ò superata dal cinismo con cui non esistevaai di manometterli. – (Bayard de Volo Vita di Francesco V. Duca di Modena – 1819-1875. – Modena tipografia dell’Immacolata Concezione.

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I soli adattati al posto di Pietroburgo sarebbero Cesare Alfieri e Pralormo. Li proponga al Consiglio. Dovremo mandare un Inviato straordinario ad assistere alla coronazione dell’Imperatore. Sarà bene scegliere il principe di Carignano, se altri principi ricevono analogo mandato.

Spero poter partire martedì o mercoledì venturo. Mi creda ecc.

Suo affezionatissimo

  1. Cavour.

Ed anche qui impariamo meglio qualche cosa; vale a dire, che Valewski era imbarazzato a parlare del Governo del Papa, che andò tropp oltre rispetto a Napoli, e dispiacque ai Russi; che Clarendon, ministro di S. M. Britannica, fu energico quanto mai contro il Papa e contro il Re di Napoli, giungendo fino al punto di adoperare un linguaggio extraparlamentare; che Cavour nulla aveva da sperare dalla diplomazia, e che Clarendon lo confortò dicendo: Esser necessario occuparsi di Napoli, e presto. Finalmente impariamo, che il Cavour col Clarendon disponevano di Napoli e Palermo, come di cosa loro, mandandovi o il Carignano o il Murat, secondo meglio loro convenisse; che del resto, essendo impotente la diplomazia, era da ricorrere a mezzi extralegali, come fu fatto. E l’Inghilterra era a capo dell’intrigo.

Segue la seconda lettera al Rattazzi:

Caro Collega,

Parigi, 11 Aprile 1856.

Mando un corriere a Chambery onde poterle scrivere senza reticenza.

Vengo ora al secondo argomento della mia lettera, ed è il più importante.

Convinto che l’importanza della diplomazia e del Congresso produrrà funeste conseguenze in Italia, e collocherà il Piemonte in condizioni difficili e pericolose, ho creduto bene di vedere se non vi fosse mezzo di arrivare ad una soluzione compiuta con mezzi eroici: le armi. Epperciò ieri mattina feci con lord Clarendon la seguente conversazione:

«Mylord: Ce qui est passe au Congrès, prouve deux choses: 1° Que l’Autriche est décidée a persister dans son système d’oppression et de violence envers l’Italie; 2° Que les efforts de la diplomatie sont impuissants à modifier son système. Il en résulte pour le Piémont des conséquences excessivement faucheuses. En présence de l’irritation des partis d’un côte et de l’arrogance de l’Autriche de l’autre,

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il n’y a que deux partis a prendre: ou se réconcilier avec l’Autriche et le Pape, ou se préparer à déclarer la guerre à l’Autriche dans un avenir peu éloigné. Si le premier parti était préférable, je devrais à mon retour à Turin conseiller au Roi d’appeler au pouvoir des amis de l’Autriche et du Pape. Si au contraire la seconde hypothèse est la meilleur, nos amis et moi nous ne craindrons pas de nous préparer à une guerre terrible, à une guerre a mort: The war to the knife, la guerre jusque avec les couteaux». lei je m’arrêtai. Lord Clarendon sans montrer ni étonnement ni désapprobation, dit alors: «Je crois que vous avez raison; votre position devient bien difficile, je crois qu’un éclat devient inévitable, seulement le moment d’en parler tout haut n’est pas venu.»

Je répliquai: «Je vous ai donne des preuves de ma modération et de ma prudence, je crois qu’en politique il faut être excessivement réservé en paroles et excessivement décide quant aux actions. Il l’a des positions où il l’a moins de dangers dans les partis audacieux, que dans un excès de prudence. Avec La Marmora je suis persuade que nous sommes en état de commencer la guerre, et, pour peu qu’elle dure, vous serez bien forcé de nous aider.»

Lord Clarendon repliqua avec une grande vivacité: «Oh! certainement, si vous ètes dans rembarras vous pouvez compter sur nous, et vous verrez avec quelle energie nous viendrons à votre aide.»

Dopo ciò non spinsi più oltre l’argomento, e mi restrinsi a parole amichevoli e simpatiche per Lord Clarendon e l’Inghilterra. Ella giudicherà quale sia l’importanza delle parole dette da un ministro, che ha fama d’essere riservatissimo e prudente. (Figuriamoci i non riservati e imprudenti.)

L’Inghilterra, dolente della pace, vedrebbe, ne son certo, con piacere, sorgere l’opportunità di una nuova guerra e di una guerra cotanto popolare, come sarebbe quella che avesse per iscopo la liberazione d’Italia. Perché adunque non approfittare di quelle disposizioni, e tentare uno sforzo supremo per compiere i destini della Casa di Savoia e del nostro paese?

Come però si tratta di questione di vita o di morte, è necessario di camminare molto cauti; egli è perciò, che credo opportuno di andare a Londra a parlare con Palmerston e gli altri capi del Governo. Se questi dividono il modo di vedere di Clarendon bisogna prepararci quietamente, fare l’imprestito di 30,000,000, ed al ritorno di Lamarmora dare all’Austria un ultimatum, ch’essa non possa accettare, e cominciare la guerra.

L’Imperatore non può essere contrario a questa guerra; la desidera nell’intimo del cuore. Ci aiuterà di certo, se vede l’Inghilterra decisa a entrare nella Uzza.

D’altronde farò all’Imperatore prima di partire un discorso analogo a quello diretto a lord Clarendon. Le ultime conversazioni, che ho avuto con lui e co’ suoi ministri, erano tali da preparare la via ad una dichiarazione bellicosa. Il solo ostacolo che io prevedo è il Papa. Cosa farne nel caso di una guerra italiana

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Io spero che dopo aver letto questa lettera, ella non mi crederà colpito da febbre cerebrale, o caduto in uno stato di esaltazione mentale. Tutt’altro, sono in una condizione di salute intellettuale perfetta, e non mi sono mai sentito più calmo. Che anzi mi sono acquistato una grande riputazione di moderazione. Clarendon me lo disse spesso; il principe Napoleone m’accusa di difettare di energia, e perfino Walewski si loda del mio contegno. Ma veramente sono persuaso, che si possa con grande probabilità di buon esito adoperare l’audacia.

Com’ella può essere persuasa, non assumerò nessun impegno, né prossimo, né remoto; raccoglierò i fatti, ed al mio ritorno il Re e i miei colleghi decideranno il da farsi.

Anche oggi non vi è conferenza. Il processo verbale della burrascosa tornata di martedì non è preparato. Lord Clarendon è dispostissimo a riappiccare la zuffa con Buoi; ma forse questi cercherà di evitarla col non fare osservazioni sul protocollo. Intanto Clarendon ha spedito lord Cowley da Hùbner, perché gli dicesse che l’Inghilterra tutta sarebbe sdegnata delle parole pronunciate dal ministro austriaco, quando le avrà conosciute.

Ho visto il martire (?),mi ha manifestato la più intera approvazione della mia condotta al Congresso. Mi ha dato una patente d’italianissimo, e si è dichiarato fautore della nostra politica. Il povero uomo si animò e s’intenerì al punto di spargere lacrime abbondanti.

La prego a tenere la parte politica di questa lettera per lei solo.

Suo affezionatissimo

  1. Cavour.

Poco o nulla resta da notare in questa lettera, della quale ci siamo abbastanza occupati nei precedenti capitoli. Giova però osservare, come l’istesso Cavour riconoscesse funeste per l’Italia le conseguenze del Congresso. La ragione e la giustizia fanno capolino nel colloquio col Clarendon; ma rigettato subito il pensiero di una riconciliazione col Papa e con l’Austria, richiesta appunto dalla giustizia e dalla ragione, prevaleva il pensiero rivoluzionario di appigliarsi alla violenza. Nella quale via era incoraggito il Cavour dalla sicurrezza, che Francia e Inghilterra sarebbero costrette a seguirlo nella sciagurata impresa, spinte, di buona o cattiva voglia, dall’influenza delle società segrete, che dominava egualmente in Francia e in Inghilterra, come in Piemonte. Nel chiuder la lettera dice il Cavour di aver veduto il martire: evidentemente era costui un qualche pezzo grosso della rivoluzione; vorremmo indovinarlo, ma ci piacerebbe più esserne assicurati. Ricorriamo ai lettori per un qualche lume in proposito.

Del resto v’è una frase in questa lettera che è rilevantissimo di far ben notare.

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Cavour dice: «Il solo ostacolo che io prevedo è il Papa. Cosa farne nel caso d’una guerra italiana?» Dunque non avea Cavour un concetto chiaro circa il vero nodo della questione. Ben lo aveva Mazzini: e lo eseguirono a capello, buono o mal grado, gli alleati occidentali, specialmente l’Inghilterra!

Il lettore abbia presente le cose dette nella nostra Introduzione.

La terza lettera che siegue accentua meglio l’inimicizia coll’Austria e l’azione dell’Inghilterra.

Caro Collega,

Parigi, aprile 1866.

Ho visto l’Imperatore, gli tenni un linguaggio analogo a quello di cui m’ero servito con Clarendon, ma un po’ meno vibrato. Egli lo accolse benissimo, ma soggiunse, che sperava ricondurre a più miti consigli l’Austria. Mi raccontò avere al pranzo di sabato detto al conte Buoi, ch’egli lamentava di trovarsi in diretta contraddizione coll’imperatore d’Austria sulla questione italiana; che in seguito a queste dichiarazioni, Buoi era andato da Walewski onde protestare il desiderio dell’Austria di compiacere in tutto l’Imperatore: soggiunse non avere questa altra alleata della Francia, epperciò essere per essa una necessità di conformare la sua politica ai suoi desideri.

L’Imperatore pareva soddisfatto di questa protesta d’affezione, e mi ripeté che se ne varrebbe per ottenere concessioni dall’Austria.

Mi dimostrai incredulo; insistetti sulla necessità di assumere un contegno deciso, e, per cominciare, gli dissi aver preparata una protesta che darei il domani a Walewski. L’Imperatore parve esitare molto. Finì col dire: «Andate a Londra, intendetevi bene con Palmerston, ed al vostro ritorno tornate a vedermi.»

Deve infatti l’Imperatore aver parlato a Buoi, poiché questi, al finire della seduta venne a me, e mi fece mille proteste sulle buone intenzioni dell’Austria rispetto a noi: mi disse voler vivere in pace; non osteggiare le nostre istituzioni, ed altre simili corbellerie. Gli risposi, che di questo desiderio non aveva date prove durante il suo soggiorno a Parigi; partire convinto essere i nostri rapporti peggiori di prima. La conversazione fu lunga ed assai animata; troppo lungo sarebbe il riferirla minutamente; molte verità furono scambiate, in modo però urbano e gentile. – Nel lasciarci, disse: «Parto col rincrescimento di vedere le nostre relazioni politiche peggiorate, ciò non toglie ch’io spero che conserverete grata rimembranza al pari di me delle nostre relazioni personali. Mi strinse affettuosamente la mano, dicendomi: «Lasciatemi sperare, che anche politicamente non saremo sempre nemici.»

Da queste parole conchiudo esser Buoi spaventato delle manifestazioni dell’opinione in nostro favore, (il lettore sa ormai come si formi questa opinione) e forse anche delle parole che l’Imperatore gli avrà detto.

Orloff mi fece mille proteste $ amicizia, riconobbe meco essere lo

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stato d’Italia insopportabile, e mi lasciò quasi intendere, che il suo governo avrebbe volentieri cooperato per migliorarlo. Anche il prussiano disse male dell’Austria. Insomma se non si è guadagnato nulla praticamente, rispetto all’opinione pubblica la vittoria è piena.

Buoi mi disse avere presentato una richiesta, onde fosse fatto un processo all’Espero per un vecchio articolo. Sarebbe bene che il giornale fosse condannato, il che renderebbe più efficaci le parole sull’Austria e gli altri Stati d’Italia, ch’io dovrò pronunciare nel seno del Parlamento.

Questa lettera doveva esserle portata da Sommeiller; ma, non avendo potuto terminarla, la consegno al signor Nigra, che ritorna direttamente a Torino.

Credo opportuno di fare stampare alla stamperia Reale, il trattato di pace, con tutti i protocolli, per farli distribuire alle Camere, tostochè la notizia dello scambio delle ratifiche sarà giunta in Torino. Piacciale accertarsi, che Cibrario faccia ciò eseguire.

Scrivendomi, mi diriga le sue lettere a Parigi, sotto fascia, coll’indirizzo di Villamarina.

Mi creda con affettuosi sensi.

Suo Amico

  1. Cavour.

Una parola basterà per commento di questa lettera, notando di volo come Cavour contraddicesse a sé stesso, quando affermava nella precedente lettera che Napoleone III desiderava nell’intimo del cuore la guerra contro l’Austria, e qui invece sperava ricondurre a più miti consigli l’Austria. Quello che v’ha di serio in questa lettera si è lo isolamento sempre più evidente di quel cattolico Impero dopo la guerra di Crimea; salvo la Turchia, che non parlava, tutti eran contro di lui (1).

(1) La condotta dell’Austria nella guerra di Crimea viene, ci sembra, spiegata da quel che ci fa sapere Nicomede Bianchi, storico officiale della rivoluzione, quando narrando le trattative dell’Inghilterra e della Francia per avere il Piemonte e l’Austria con loro, si esprime cosi: II governo francese fece pubblicare nel suo Diario officiale la risposta della Sardegna, e Drouyn de Lhuys disse a Villamarina: – Siamo al tutto soddisfatti della risposta del vostro governo. Sta bene che» intanto il Piemonte si tenga in una prudente riserva; ma non tralasci di prepararsi in silenzio a far fronte alle eventualità che possono sorgere. Se l’Austria viene con noi francamente e definitivamente, quand’essa sarà bene impegnata e avrà date guarentigie sode, il Piemonte potrà fare i suoi calcoli per vedere se» gli conviene prestarci un concorso attivo, onde avere il suo voto e la sua parte» di compenso nell’assetto definitivo delle cose. Se l’Austria ci vien meno, tanto peggio per essa.: la Sardegna avrà un’occasione favorevole per prendersi una buona rivincita. (Dispaccio confidenziale Villamarina, Parigi 16 giugno 1854).Cosicché nell’uno o nell’altro modo il Piemonte doveva essere avvantaggiato, e l’Austria sacrificata. (Nicomede Bianchi, Storia documentata della Diplomazia in Italia dall’anno 1814 al 1861, vol. VII, Cap. V. p, 166).

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Del resto il Gabinetto inglese e Palmerston sono sempre l’anima del complotto.

Segue la quarta lettera:

Caro Collega!

Parigi, 14 Aprile 1856.

Ieri essendo a pranzo dal principe Napoleone col Conte Clarendon, ebbi con questi due personaggi una lunga conversazione. Entrambi mi dissero avere tenuto il giorno prima lunghi discorsi coll’Imperatore sulle cose d’Italia, nei quali gli avevano dichiarato, che la condotta dell’Austria collocava il Piemonte in una condizione talmente difficile, che era una necessità l’aiutarlo ad uscirne. Lord Clarendon disse schiettamente che poteva esser condotto (il Piemonte) a dichiarare la guerra alV Austria e che in questo caso sarebbe stata una necessità l’assumere le sue parti. L’Imperatore parve assai colpito, rimase sopra pensiero, e manifestò la volontà di conferire meco. Io spero di poterlo fare capace della impossibilità assoluta di rimanere nella condizione, che ci viene fatta dalla condotta ostinata e provocante dell’Austria. Conoscendo le sue simpatie per l’Italia e per noi, riconoscendo la necessità di agire, lo farà colla risoluzione e la fermezza che tanto lo distinguono.

Se il Governo inglese divide i sentimenti di lord Clarendon, l’appoggio della Gran Bretagna non «i farà difetto. Questo ministro, incontrando Buoi dall’Imperatore, gli disse: «Voi gittate il» guanto all’Europa liberale; pensate che potrà essere raccolto, e che vi sono Potenze che, quantunque abbiano fermata la pace,» sono pronte e vogliose di ricominciare la guerra.» Discorrendo meco dei mezzi di agire moralmente ed anche materialmente sull’Austria, gli dissi: «Mandate alla Spezia i vostri soldati sopra legni da guerra, e lasciate li una vostra flotta.» Mi rispose tosto: «L’idea è ottima.» II principe Napoleone fa quanto può per noi, dimostra apertamente la sua antipatia per l’Austria: al pranzo di ieri tutti i plenipotenziarii erano invitati, meno i tedeschi. Richiesto del motivo di questa esclusione, rispose:

«Parce que je ne les aime pas, et que je n’ai aucun motif de cacher mon antipathie.»

II Congresso si raduna quest’oggi, e forse ancora mercoledì. Giovedì partirò per Londra, ove mi fermerò il meno possibile. Ma dovrò forse al mio ritorno fermarmi per vedere l’Imperatore.

Avendoci pensato bene, credo che Ella possa senza inconvenienti comunicare le mie lettere a Durando, la cui freddezza, fermezza e retto senso m’inspirano molta fiducia. Mi creda

Suo aff.mo amico

  1. Cavour.

E qui la cosa è chiara: l’Inghilterra era l’istigatrice e l’appoggio vero del Piemonte; e fu palese quando, senza un riguardo al mondo, cooperò con le sue navi alla invasione garibaldesca della Sicilia.

– 274 –

Ed ecco la quinta lettera di Cavour a Rattazzi:

Caro Collega

Giovedì, 6 di sera.

Sul punto di partire per Londra e di affrontare la Manica, che dicono cattiva, le scrivo per parteciparle avere avuto una lunga conversazione con Clarendon, che si era trattenuto quest’oggi due ore coll’Imperatore.

Clarendon, essendosi mostrato con questi afflitto della sterilità degli sforzi tentati a favore dell’Italia, l’Imperatore gli disse: «Vi autorizzo a dichiarare al Parlamento, essere mia intenzione di ritirare le mie truppe da Roma, e di costringere l’Austria a fare altrettanto, parlando, se occorre, trèshaut Disse avergli Buoi fatte le più belle promesse, e finalmente s’impegnò ad unirsi all’Inghilterra per chiedere al re di Napoli un amnistia, in modo da non potere essere ricusata; cioè minacciandolo dell’invio di una squadra.

Clarendon mi disse, che gli parve essere l’Imperatore di buona fede; e che sicuramente se l’Austria non cambiava od almeno non modificava il suo sistema, fra un anno la Francia e l’Inghilterra l’avrebbero costretta a farlo, anche colle armi, occorrendo.

È certo che i plenipotenziari austriaci sono abbattuti e malcontenti. Anch’essi si lamentano di Walewski e si burlano della sua incapacità.

L’Imperatore mi ha regalato un vaso di porcellana di Sèvresdi un grandissimo valore. Se X lo sa, poveretto me; mi accuserà di avere venduta l’Italia.

La lascio per avviarmi verso la strada di ferro.

Mi ami e mi creda

Suo affezionatissimo amico

  1. Cavour.

A questa lettera non è d’uopo che aggiungiamo alcun commento. La situazione si accentuava sempreppiù, siccome meglio rilevasi dalla lettera seguente, che è l’ultima delle sei del Conte di Cavour al Rattazzi.

Caro Collega,

Eccomi in Londra da quasi tre giorni senza aver fatto gran cosa.

Ho trovato lord Palmerston in gran tutto per la repentina morte del figlio primogenito di sua moglie, lord Couper; così che tutte le combinazioni di Azeglio andarono a monte. Vidi però lord Palmerston, ma non potei addentrarmi molto nell’argomento che avrei avuto a trattare. Dissemi che un’ ultima lettera di lord Clarendon recava migliori notizie, e che non bisognava disperare.

– 275 –

Vedo bene che sino all’arrivo di lord Clarendon non potrò avere conversazioni serie.

La Regina m’invitò a pranzo il giorno dopo del mio arrivo, fu meco gentilissima e mi manifestò la più calda simpatia per gli affari d’Italia. Anche il principe Alberto fu non poco esplicito, per sino rispetto all’Austria (1).

La Regina m’invitò ripetutamele a rimanere per vedere la grande rivista navale che avrà luogo mercoledì. Non potei ricusare, giacché gl’Inglesi danno un gran peso a queste dimostrazioni delle gigantesche forze da essi riunite. Partirò quindi giovedì sera o venerdì mattina, assai dispiacente di avere fatto questa corsa. Certo se la notizia della disgrazia accaduta a lord Palmerston mi giungeva a Parigi, rivolgevo i miei passi nella direzione di Torino.

Ho già visto molti uomini politici. Tutti si dichiarano favorevoli alla nostra causa. I tory paiono non meno decisi dei whig; i più animati sono i più zelanti protestanti capitanati da lord Shaflesburv. Se si desse retta a questi, l’Inghilterra farebbe una crociata contro l’Austria.

Non le scriverò più da Londra, salvo succedesse qualche cosa di straordinario.

Mi creda

Suo affezionatissimo

  1. Cavour.

Il carattere anticattolico della rivoluzione italiana risulta evidente dalle ultime parole di questa lettera di Cavour, e tornano a grande onore della Casa d’Austria.

(1) Il principe Alberto, marito della regina Vittoria, era un Coburgo. Sul quale proposito, in un importante opuscolo di Leone Pagès, intitolato «Valmy, troviamo una nota assai istruttiva, che giova recare. «La frammassoneria, dic’egli, creò più di un Re. Abbiamo inteso dire il pastore Munier, presidente del concistoro di Ginevra (autorità competente) che, durante la rivoluzione, Weishaupt (capo degli Illuminati frammassoni) condannato a morte, avendo trovato asilo presso il principe di Coburgo, gli promise di ricompensamelo. E la frammassoneria ha popolato di Coburghi i troni di Europa. (Leon Pagòs, Walmv pag. 13. Parigi, Taran libraire, rue Cassette 33, 1877).

fonte

eleaml.org

 

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