Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (diciottesima parte)

Posted by on Mar 3, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (diciottesima parte)

CAPO XI.

STATO DEL REGNO DI NAPOLI ALL’EPOCA DEL CONGRESSO DI PARIGI.

Il trentennio 1830 1860

Del Congresso di Parigi abbiamo ormai detto abbastanza; uopo è ora occuparci dello stato del Regno delle Due Sicilie, preso a pretesto di censura nel Congresso parigino, e vedere con occhio imparziale, se le condizioni governative di quel Reame giustificassero le allarmanti querimonie della diplomazia occidentale e le insistenti accuse degli uomini di Torino, di Parigi e di Londra. I fatti che seguirono giustificarono più che non abbisognasse il Re Ferdinando II e il suo governo: ma le condizioni stesse del Reame di Napoli in quell’epoca, ne erano luculenta giustificazione per chi l’osservava senza secondi fini. Un rapido sguardo allo svolgimento dell’ultimo trentennio 18301860 farà scorgere una strana antitesi fra codesti due estremi.

Nel 1831 le Corti di Europa si allarmavano di quel che esse chiamavano liberalismo del Re Ferdinando. Salendo il Trono dei suoi Padri, il giovane Re accordava amnistie, richiamava esiliati, riabilitava i suoi awersari politici, alcuni ne collocava perfino nei posti più importanti dello Stato, ricolmandoli anche di onori. Il fatto è cosi vero, che nel 1867, quando nelle Due Sicilie imperversava vie maggiormente l’invasore subalpino, uno scrittore devotissimo a lui non meno che alla rivoluzione, non dubitava di pubblicare per le stampe le seguenti parole riguardo al Re Ferdinando II:

Giudizio di Nicomede Bianchi su Ferdinando II.

«Era egli Re di potente Stato italiano, venuto nelle grazie del suo popolo per gagliardi rimedii apportati ai gravissimi danni accagionati dal governo del suo antecessore in tutti gli ordini pubblici; che dedicò le sue cure per aver un florido esercito; che aveva concessa un’amnistia abbastanza larga, restituendo cariche civili e militari ad uomini traviati in materie politiche; che allontanava dai consigli della Corona ministri uggiosi al popolo; che dichiarava rimosso per tutti qualunque ostacolo a battere la via dei pubblici impieghi, e che per soprassello mostravasi proclive alle idee del Governo francese, e restìo a farsi dominare dagli influssi austriaci, geloso sempre della indipendenza del suo Reame.»

– 218 –

Il governo di Torino si allarma per il liberalismo di Ferdinando II.

Quegli che scrive così non è altri che Nicomede Bianchi nella sua storia documentata della diplomazia in Italia dal 1814 al 1861, vol. Ili pag. 254 e seguenti: nella quale istoria, il Bianchi, a provare quel che asserisce, reca per soprassello i segreti dispacci diplomatici, in prova delle apprensioni di alcune Corti estere, tra le quali primeggiano quella di Vienna e (incredibile a dire) quella di Torino, che si scandolezzano del liberalismo governativo del Re Ferdinando!

Nel citato libro leggonsi altri non sospetti encomii, oltre gli arrecati, del saggio governo e della prudenza politica di Ferdinando II, principalmente per la prima idea da esso proposta di una tega federale degli Stati italiani. I documenti diplomatici originali del 1833, quivi testualmente riportati, dimostrano ad evidenza la sapienza civile ed internazionale del giovane Monarca. Siffatte cose però parvero pericolose novità ai Gabinetti del Nord, che se ne preoccuparono fino al punto di spectfre a Napoli un diplomatico in missione straordinaria, affine di rassicurare il vecchio Re di Prussia più allarmato di ogni altro! Chi avrebbe mai detto allora al Re Ferdinando li, che dopo 26 anni appena di regno, in sul punto di divenire il Decano dei Sovrani d’Europa, la diplomazia di due ‘ liberalissime Potenze occidentali, eccitata appunto dal Governo di Torino, 26 anni prima così scrupoloso e restìo a ogni cosa che sapesse di liberalismo, sì sarebbero occupate dei fatti suoi in un solenne Congresso dì Stati europei per dargli consigli sul modo di governare i proprii Stati, e per impegnarlo a seguire una politica più liberale (1). ‘

Ferdinando li nel 1848.

La condotta del Re Ferdinando II nel 1848, in mezzo al parossismo rivoluzionario di quell’epoca, punto non ismentiva i suoi precedenti. Abbiamo detto come concedesse allora uno Statuto costituzionale al suo Regno, e come, dopo averlo attuato, i disordini cagionati dai nemici implacabili d’ogni leggittimo regime, che tendevano a detronizzarlo, non meno che i voti delle fedeli popolazioni, lo inducessero a sospenderlo poco dopo conceduto (2).

L’emigrato napolitano Tofano, in un suo libro pubblicato in Napoli nel 1861, spiega a lungo tutte le arti faziose adoperate nel 1848, il fatto del 15 maggio e le cose che seguirono (3). Ma i ragguagli storici precisi di quelli avvenimenti sono arrecati da noi nel seguito di queste Memorie.

(1) Vedi A. P. vol. I. profilo politico, pag. 59

(2) Vedi. A. P. vol. I pag. 58. ‘ ‘

(3) Giacomo Tofano ai duo! elettori, dalla pag. 172 a 263, appendice.

– 219 –

La Sicilia aveva proclamato la decadenza del Re ed aveva organato un Governo indipendente, offerendo la Corona ad un Principe straniero di Casa Savoja; né scarso era il numero di coloro, che avevano figurato in quella rivoluzione. Re Ferdinando accordava ciononostante generale amnistìa, eccettuati solo 43 dei più colpevoli capi della insurrezione, che poi riceverono anch’essi la grazia sovrana. – Non fu dissimile la politica del Re nei domini di qua dal Faro, mostrandosi egualmente clemente verso i ribelli. – II Monarca, cui il Governo inglese raccomandava nel 1856 la dolcezza, quasi fosse virtù estranea alle sue abitudini e al suo cuore, amnistiava nello spazio che corse tra il 1849 e l’istesso anno 1856 circa 3,000 condannati politici.

Sono noti per la storia i documenti che rendono testimonianza non sospetta di quell’epoca. Ma eloquenti sono le confessioni fatte da deputati napolitani nella Camera di Torino quando si trattò delle esorbitanze commesse dal Governo subalpino, fattosi padrone delle Due Sicilie, soprattutto con lo stato d’assedio permanente ed altre simili enormezze.

Confessioni di deputati

Nicotera

«….. Nelle provincie meridionali, diceva l’ex garibaldino e deputato Nicotera ( che mentre scrivevamo queste pagine era anche Ministro dell’Interno), governanti di Torino violano lo Statuto costituzionale e la libertà dei popoli che li crearono; e con un sistema di repressioni prepotenti e con ipocrita codardia politica all’estero intendono fondare l’Italia…. per essi non esiste guarentigia di Statuto, libertà individuale e di stampa, inviolabilità di domicilio. Fanno arrestare i deputati, e spingono tant’oltre il dispregio della legge da sorpassare il governo borbonico, il quale sapeva mantenere una certa apparenza di legalità, e rispettava la magistratura; né ci è esempio che tribunali avessero ricevuto, direttamente e apertamente senza riguardo, ordini per decidere in un senso piuttostochè in un altro: quest’esempio ce lo da il governo di Torino col suo telegramma alla Corte suprema di Napoli (per far giudicare come ribelli i garibaldini di Aspromonte). Sapete voi le cose buone che Napoli riconosceva nel Governo borbonico? erano la proprietà e la vita garantite! Ma la presente amministrazione, tra i tanti mali di cui ha aggravate le provincie meridionali, non ha neppur forza a garantire la proprietà e la vita!… È doloroso dover ricordare certi fatti. Io ricordo che il 15 Maggio 1848, nella Camera napolitana, vi fu il mio amico e deputato Stefano Romeo che ebbe il coraggio di proporre, che quella Camera si fosse mutata in Costituente per dichiarare la decadenza dal Trono di Re Ferdinando II…….

– 220 –

Ebbene, o signori, fino a quando non fu sospeso lo Statuto, Stefano Romeo non fu molestato!» (Dep. Nicotera, tornata 25 novem. 1862.)

Ricciardi

«Io aveva l’onore, diceva un altro, di essere deputato nel Parlamento napolitano nel 1848: noi eravamo ribelli, costituzionalmente parlando; poiché prima che il Parlamento fosse costituito secondo la lettera dello Statuto, ci costituimmo in assemblea deliberante: che anzi, dietro mia proposta, un comitato di pubblica salute fu eletto nel nostro seno: un comitato, i cui atti furono tutti rivoluzionari. Or bene, il Borbone vincitore, la sera del 15 maggio, non faceva arrestare nessuno dei deputati. Era serbato al generale Lamarmora, luogotenente di un governo costituzionale, il far quello che non aveva osato un Re assoluto! tenendo in carcere, in segreta, i tre deputati Fabrizi, Mordini e Calvino, senza permettere ad alcuno di visitarli…. Vedete dunque che ora non uno, ma due governi esistono in Italia: uno costituzionale in Torino, e l’altro dispotico in Napoli. (Dep. Ricciardi, tornata 15 dec. 1862). – Vedi nota 2. pag. 3 A. P. vol. 1. e nota 1 pag. 220 ivi.)

Magnanimità dei monarchi di Napoli

basti per ora di confessioni. Era riserbato al successore di Ferdinando II di completare nel 1859 e 1860 Tatto magnanimo del generale perdono iniziato dall’augusto Genitore; di confidare anzi eminenti cariche governative agli stessi nemici di sua dinastia, che maggiormente contribuirono ad abbatterla. Se i generosi perdoni, le larghe concessioni, le cure incessanti pel benessere dei popoli dovessero rendere sempre felice il governo di un Monarca, tale sarebbe stato quello di Napoli nell’epoca di che trattiamo; ma sventuramente questo Monarca doveva raccogliere ingratitudine dove aveva seminato benefizi.

Nei concerti della setta però era stabilita la mina del trono delle Due Sicilie, e poiché non v’erano colpe politiche da farne punto di leva, si approfittò degli abusi – e dove non ve ne sono in questo mondo? – ed esagerandoli in ogni guisa con le stampe e con la viva voce, nei gabinetti e nei Parlamenti esteri, come nei caffè e nelle bettole, si prese a giudicare all’impazzata il governo delle Due Sicilie, ed a formare quel fascino capriccioso dell’opinione pubblica della piazza. Per siffatta maniera si riuscì a distruggere un secolare reggimento ed a surrogarlo con un altro, nell’esercizio del quale impunemente si commettevano appunto e senza pudore quelle istesse onoratezze, ed anche maggiori, che lo spirito di parte, con un sistema scaltrito e perseverante di menzogne e di calunnie, per tanti anni, aveva atteso ad addebitare al legittimo governo.

– 221 –

Il quale se fosse stato tirannico non avrebbe dotato il paese d’istituzioni ammirate dagli stessi nemici, né si sarebbe spinto a dare quelle istesse liberali concessioni, che produssero deplorabili eccessi, da far con ragione desiderare un regime più assoluto, dove si parlasse meno di libertà e se ne godesse alquanta di più.

Il Governo quale lo fece Iddio.

Noi non istaremo qui a giudicare quale governo convenga meglio a questo o a quel popolo. Dio fece la società umana monarchica; diede un padre alla famiglia, e fece sudditi i figli; fece i % Patriarchi capi di più famiglie, e i capi di queste loro coadiutori, ma non principi come loro; fece i Giudici e U dirigeva Egli stesso, essendo soggette tutte le altre classi del popolo; fece i Re e, untili del sacro olio, li volle suoi rappresentanti sulla terra, avendo soli giudici di loro opere i Profeti. Così, in un modo o nell’altro, ma sempre, governava Iddio. Venne l’epoca cristiana e, per mezzo dei Papi, Vicarii di Gesù Cristo sulla terra, consacrò gl’Imperatori e i Re, ordinò loro di governare i popoli in nome suo. Seguirono le celebri Repubbliche italiane e, piene come erano del sentimento cristiano, sentendo il bisogno naturale di Monarchia, fecero loro Re Cristo Salvatore e Regina Maria Santissima e, in nome loro, quelle altiere repubbliche governarono i popoli, facendo cose grandi, ammirate da tutti i secoli. – Le istesse repubbliche pagane nei maggiori bisogni chiamavano un Dittatore.

Il Governo quale lo fece la setta

L’epoca presente, distrutti gli antichi Parlamenti cristiani, naturali consiglieri dei Monarchi, ci ha apportato gli Ordini costituzionali basati sull’assurdo principio della sovranità del popolo, condannato dalla Chiesa. Se questi convengano meglio di quelli lo sentiamo noi e lo giudicherà la storia. Cosa certa è ed evidente, che i partiti sono il principale elemento di una Camera costituzionale. Sollevato il popolo e proclamatolo sovrano, agognerà giustamente il potere, come ogni altra classe. E così, se la Camera sarà la esclusiva espressione di un partito demagogico, sarà seme necessario di turbolenze contro il Governo, che dovrà, per salvare il paese, disfarsene, come sperimentossi in Napoli nel 1848, nelle sole due volte che si riunì la Camera. Che se all’opposto la stessa Camera sarà il resultato dei brogli ministeriali, il paese rimarrà in balia di un ministero, o di un ministro dispotico, e reclamerà invano il diritto di compiere il suo mandato e di governare. Prova ne siano quell’indigesto ammasso, fuso nello stampo subalpino, che chiamasi Regno d’Italia; prova ne sia la Francia, che in men di mezzo secolo si vide soggetta a 18 governi diversi; la Spagna, che non ebbe più un solo giorno di pace; il Belgio, che, ad onta di un ministero cattolico,

– 222 –

ed una Camera, nella maggioranza cattolica, fa leggi anticattoliche, e vede adunarsi in pubblica assemblea i socialisti, che vogliono l’inferno per loro paradiso, e invocano ad alta voce la ghigliottina da troncarvi la testa del loro Monarca, senza che l’Autorità abbia nulla a ridire; prova ne è l’Austria, che lotta smaniosa in un dualismo contradittorio che l’uccide; e prova la Prussia, dove il Principe di Bismarck fa presso a poco quel che vuole, ed è l’onnipotente della Germania e, fummo per dire, dell’Europa.

Dopo di ciò e dopo la triste esperienza del 1848, il governo del Re Ferdinando comprendeva, che quando anche tutte si concedessero le desiderabili guarentigie e vi si aggiungessero anzi quelle che nemmeno si domandavano, il malcontento e le insistenze sarebbero pur sempre le medesime; conciossiachè le società segrete, potenza occulta che dominava a Torino, che tramava a Londra e a Parigi, e che cospirava a Napoli, aveva da pezza decretato, con l’abolizione delle legittime Monarchie italiane, l’Unità d’Italia per giungere alla distruzione del Papato.

Condizioni del governo di Napoli

Il Governo adunque di Napoli, all’epoca del Congresso di Parigi, era governo cristianamente assoluto. – Il passare a rassegna le condizioni governative delle Due Sicilie all’epoca cui si riferiscono le calunnie del Gladstone, è cosa di non lieve importanza e che noi non ometteremo di fare in questo lavoro. Non possiamo però fin d’ora lasciar di notare alcuni dati e fatti principali, che molto lume spargono su quel che narriamo. Cosi nella restaurazione della Monarchia legittima nel 1815, i Borboni, insieme con la legittima loro autorità, non ristaurarono, o non poterono ristaurare, le antiche leggi del Reame; mantennero invece in vigore le nuove istituzioni degli invasori francesi, e, salve alcune indispensabili riforme, il Codice napoleonico non cessò più di esistere nel Reame, che per tal modo covò in seno quel fuoco desolatore che doveva prepararne la rovina. (1) – Parto del redivivo Cesarismo pagano e della sapienza del secolo, noi che scriviamo abborriamo con tutta l’anima quel disgraziato Codice, che ha reso possibile la permanenza della ribellione al diritto cristiano, e che, dopo di aver distrutto la Francia, ha distrutto e distrugge tuttora tutti quegli Stati, che, di buona o cattiva voglia, lo ebbero più o meno esplicitamente accettato. In Napoli, se non c’inganniamo, quel funesto Codice fu imposto dall’alta setta

(1) A. P. Notizie e documenti intorno alla pressione anglo-francese nell’interno del regno delle Due Sicilie, mas. allegat, pag. 21.

– 223 –

che maneggiò le cose nel Congresso di Vienna, e che fin d’allora, con la corruzione e l’irreligione, esercitava funestissima influenza in tutti i Gabinetti europei; i quali, scienti o inscienti, non sappiamo, insipientemente surrogarono l’incerto equilibrio della forza al sacro equilibrio del diritto. Ciò non ostante la sapienza sovrana paralizzò, per quanto era possibile, Inazione di quel veleno legislativo, e rifulse nel diminuire le imposte gravose, e nell’abolire nel Codice penale alcune pene odiose. Furono peVò conservate le pubbliche discussioni, e la difesa libera. L’istituzione del vfuri non’fd creduta adatta all’indole delle popolazioni napolitano, iiè queste ebbero a dolersi della rettitudine dei giudizi penali, nei quali il Giùdice del diritto ìò è anche del fatto, giusta il canone antico «ex facio óritur jus». La pena della confisca non esisteva nelle leggi riapólitane. Ih seguitò delle vicende politiche del 184818.49, non pochi sono stati i giudizi polìtici compitisi in quei tribunali, ma nemmeno poche sono state le liberazioni degli imputati, e le grazie dei condannati, in virtù della clemenza sovrana. Da statistiche officiali si ha, che queste sono nella proporzione di 90 su 1Ó0, a fronte delle condanne: tra le quali moltissime è da ricordare che il Duca di Serra di jFalcó, presidente del Senato rivoluzionario di Sicilia nel 1848, e capo della deputazione che andò ad offerire in quel tempo la Corona siciliana al Duca di Genova, godette ei sempre in Napoli della sua piena libertà. Ih seguito poi degli stessi avvenimenti del 18489 non vi fu neppure una esecuzione di condanna a morte.

Le condanne pronunziate dai tribunali ordinari criminali di Napoli nel famoso processo delle cospirazioni unitarie, servirono, come è noto, di pretesto alle difficoltà messe innanzi dalla diplomazia inglese. I condannati, per verità, avrebbero avuto qualche diritto di recriminazione a carico di Lord Minto, il famoso agitatore del 1848, dal quale furono spinti al mal fare; ma il rappresentante di Oxford alla Camera dei Comuni inglesi, il signor Gladstone, fu quello appunto che prese su di sé a patrocinarne la triste causa. Senza nulla aver veduto da per sé stesso, e adottando come di propria fede le maligne insinuazioni dei cospiratori, indirizzò egli le due lettere a Lord Aberdeen, per mezzo delle quali scaglia contro il Re e la Magistratura giudiziaria delle Due Sicilie tutto quello che uno spirito infermo e preoccupato può sentirsi capace d’inventare. Per verità, Lord Aberdeen non accettò, come accennammo, la responsabilità di siffatte calunnie, e lo stesso signor Gladstone pensò poi di ritrattarsi per la maggior parte delle sue asserzioni, delle quali però la stampa al servizio della rivoluzione erasi intanto impadronita,

 

 

– 224 –

sforzandosi per tutti i modi di dar loro credito e pubblicità. – E pure in quell’epoca certo non pesava sugli Stati napolitani la ferrea legge Pica, né i Tribunali militari straordinari, che in soli due anni fecero fucilare 7151 individui, quando le Due Sicilie erano divenute province meridionali del neoregno Sardo-italiano! Nemmeno opprimevano a quel tempo quelle infelici popolazioni l’abituale stato di assedio, o i centuplicati gravissimi balzelli, imposti loro per ammiserirle dai rigeneratori subalpini.

Le Finanze

Non diciamo nulla delle finanze degli Stati napolitani. Le Due Sicilie erano il solo Reame, tra tutti gli europei, dove le finanze, e per la floridezza, e per la economia del reggimento, avevano destata la generale ammirazione. Basti solo di accennare che il Gran Libro del debito pubblico napolitano era solo di 140 milioni con una popolazione di circa 10 milioni d’abitanti; mentre che il Governo sardo, con la metà di abitanti, faceva pagare a quel tempo di sole annue imposizioni una uguale somma. Che dire del sistema daziario? In Francia, il cui sistema daziario passava per modello, era ragguagliato a 54 franchi annui per persona; nelle Due Sicilie non oltrepassava mai i 15 franchi. Il prezzo del pane non si elevava mai oltre i 28 centesimi a chilogramma, per la prima qualità, e di 20 per la seconda. Tanta era la cura dei Monarchi napolitani nel tenere provveduti i mercati di cereali e granaglie (1). Il numero dei bastimenti mercantili iscritti al controllo di marina nel 1850 era di 7,084; e dopo sei anni ascendeva a 8,847, con aumento di 1,790. Altra pruova incontrastabile di prosperità era l’aumento della popolazione, che, dal 1850 al 1860, era cresciuta di oltre un decimo. – Ma di questi ed altri fatti di buon regime governativo nelle Due Sicilie non dovevasi tener conto dagli irreconciliabili detrattori della Monarchia napolitana, dai diplomatici della rivoluzione, la quale, ad onta dell’evidente sentimento delle popolazioni napolitano, andava innanzi balda e sicura sull’appoggio, ormai palese, dei Potentati di Europa.

Inutile è di ripetere quello che tutti sanno del prospero corso dei suoi fondi pubblici, dell’abbondanza e del buon mercato dei generi annonarii di prima necessità, della sicurezza delle proprietà e delle persone, della inalterata tranquillità delle campagne, turbate solo, qualche volta da conati briganteschi, suscitati appositamente dalle società segrete, come fu poscia palese. Inutile dire della modicità del debito pubblico e delle pubbliche imposte, del favore e dell’efficace incoraggiamento accordato alle scienze, alle

(1) A. P. 349-504 e 510.

– 225 –

arti, alle industrie, da destar gelosia in ogni altro Stato; dell’impulso generoso dato al commercio e alla marina, della disciplina e della magnifica tenuta dell’esercito, della protezione all’agricoltura e ad ogni elemento di ben’essere sociale; cose tutte che diciamo ora di volo, e delle quali ragioneremo più lungamente in queste pagine. L’insieme di tale situazione spiega l’impotenza degli sforzi settarii contro il Reame napolitano, i cui popoli aveano purtroppo imparato a proprie spese, fin dal cadere del passato secolo, quanto sappia amaro il frutto delle rivoluzioni, i fomentatori delle quali sono in promettere larghi e in tenere corti, volgendo ogni cosa a loro profitto.

La popolazione e l’esercito

Le popolazioni napolitano intanto erano tranquille, subordinato e fedele era l’esercito, quindi le trame dei cospiratori dall’estero sereno. per alterarne la devozione con iscritti e proclami sediziosi, mandati e sparsi a mezzo principalmente delle navi a vapore straniere. Uno dei più efficaci a recarne era un semplice inserviente di vapori da commercio, certo Michele Viat, oriundo francese, che spesso assumeva nomi diversi in diverse circostanze. Mezzo di comunicazione più attiva in Napoli era la moglie dell’emigrato Maziotti e il barbiere Leopoldo Vetro, che, a meglio riuscire nel diffondere eccitamenti nelle file dell’esercito, faceva arruolare volontario il degno suo allievo Luigi La Sala nell’8° battaglione dei cacciatori, dove l’accennata femmina riesce a indurre il caporale guastatore Antonio del Baglivo, suo conterraneo del Cilento di Salerno, ad attentare ai giorni del Re in una militare rivista nel 1854. Scopertasi la trama, i principali complici si mettono in salvo colla fuga. Presi il De Baglivo e il La Sala rivelano tutte le particolarità della congiura, ma mite è la pena che viene loro inflitta; il secondo la espia nell’isola di Ponza, dove tra poco lo vedremo figurare al seguito di Pisacane, e ad esaltarne la condizione gli apologisti della setta gli appiccheranno la professione di chirurgo. – Notiamo fin d’ora come fra i molti che furono pienamente amnistiati dal Re Francesco II, in occasione delle riforme governative da lui concesse, fosse appunto l’accennato individuo, avvegnaché sperimentato avesse già precedentemente la grazia sovrana, essendogli stata commutata dall’istesso Re Ferdinando in pena temporanea la condanna capitale per l’attentato di Sapri (1).

(1) Regio Decreto del 16 Agosto 1860, paragrafo XIII dell’elenco delle grazie, riportato nel Giornale officiale n. 180, e R. decreto del 1 Sett. 1860, § Vili dell’elenco delle grazie, Giornale officiale n. 195.

– 226 –

I partiti liberaleschi

e a notare come generalmente – ciò che avviene di ogni altro Stato preso di mira dalla rivoluzione – si voglia considerare il Regno delle Due Sicilie diviso in due parti, come nel 1820 e come nel 1793. Una di queste parti, scarsa pel numero, ma potente per l’audacia, comprende le gradazioni tutte del liberalismo, dal realista costituzionale fino all’ultra repubblicano, come lo prova un importante articolo del giornale Là Presse, che qui appresso rechiamo. Vi si trova qualche raro individuo del partito ostile, come gli antenati feudatari, ad ogni accrescimento del potere regio. Il maggior contingente viene dato a questa fazione dal ceto dei professori, degli avvocati, dei medici, degli studenti, dei sensali ed altri bruciati dall’ambizione, o dal bisogno, o dalle due cose insieme, tutti aspiranti a far brillare i loro supposti talenti su di una bigoncia parlamentare, da averne facile passaggio ad afferrare un portafoglio qualunque di ministro, e far fortuna.

Nell’altra parte, che, a dir meglio, è la maggioranza vera della popolazione, si annoverano i nobili, i grandi possidenti, la onesta borghesia, gli artigiani, le popolazioni della campagna: tutti o quasi tutti costoro chiudono le orecchie alle seduzioni della propaganda rivoluzionaria, conscii di essere governati con equità e con fermezza dal legittimo Sovrano; paventano quindi le avventatezze di riformatori, sorti dal seno delle società segrete.

Il vero popolo

Gli scrittori, i giornalisti, gli apostoli della penna, al servizio della prima di queste parti, ci offrono in proposito un curioso esempio della elasticità che sanno dare alle parole del loro nuovo dizionario politico. Non appena una parte della popolazione che, in virtù dei loro eccitamenti si spinge a gridare – viva la riforma, viva là repubblica! – subito è da essi, con ampollose frasi, chiamata la nazione, il paese, il popolo sovrano, sia pure che quella parte rappresenti, per il numero, appena una centesima o millesima parte della popolazione; la quale poi se s’interroghi individualmente, per la maggior parte non sa dirti di che si tratti o cosa vuole. Ne abbiamo avuti molteplici esempi toccati con mano da noi Stessi. Che se poi per vero slancio di spontaneo entusiasmo, o per istinto di devozione, prorompesse il popolo, il vero polo, quello che nessun uomo al mondo può negare esser tale, prorompesse diciamo in applausi all’autorità reale, o in altri atti di riconoscenza e di devozione verso il legittimo Sovrano (come avveniva nel Regno delle Due Sicilie, ad onta della barbara ferocia del subalpino invasore, fino al punto di lasciarsi fucilare a migliaia pel loro legittimo Re) allora, nel linguaggio convenzionale degli scrittori della setta,

– 227 –

quel popolo martire è detto invece feccia di popolaccio, bordaglia, briganti da fucilarsi tutti per non spendere la corda ad appiccarli! – Scellerata epoca è veramente la nostra, della quale arrossiranno i posteri! Ma ad un tale deplorevole rovesciamento di cose e d’idee contribuì soprattutto il numeroso esercito di legulei d’ogni ragione – chiamati paglietti nel dialetto napolitano – di cui aveva triste dote il troppo felice Regno delle Due Sicilie.

Aggiungiamo perciò una parola di schiarimento su tale proposito, paglietti rimontando all’anno 1806, epoca della abolizione definitiva del Feudalismo. Codesto tatto, che produsse naturalmente grande scompiglio nelle fortune delle famiglie nobili, fu sorgente d’innumerevoli litigi, continuati per più generazioni innanzi ai tribunali, dando occupazione e guadagno vistoso alla gente del foro. Ogni famiglia, ogni benestante ebbe il suo avvocato, il suo procuratore, o curiale. Da ciò la improvvisa occasione per ogni classe di gente, ma principalmente per la piccola borghesia, di darsi allo studio del diritto. Ma i processi feudali vennero a finire, e le liti e i guadagni vistosi cessarono appunta allora, o almeno assai diminuirono, quando il numero dei paglietti era smisuratamente cresciuto; quindi è che questa classe attiva, irrequieta, ciarliera, divenuta bisognosa di nuovi mezzi di sussistenza, si fece avida d’impieghi; e, poiché questi ancora non bastavano 4 supplire i cessati guadagni, divennero cospiratori, affin di pescare nel torbido una medaglia di Deputato o un portafoglio di Ministro, nel rovesciamento del Governo, o almeno nel rimescolamento degli Ordini stabiliti, nel che divennero pur troppo famosi.

Ad onta di ciò, gli straordinari fatti diplomatici del Congresso di Parigi, che soli sarebbero bastati a fare insorgere il Reame delle Due Sicilie, qualora fosservi esistiti gli elementi reali di malcontento supposti dai Plenipotenziarii del famoso Congresso, passarono invece inosservati e negletti allo sguardo delle tranquille e felici popolazioni napolitano. E qui giova riferire, tra gli svariati giudizii della stampa contemporanea, l’insieme di vari articoli pubblicati dal giornale francese La Presse, dei 3 ottobre, 10 e 27 novembre 1856, firmati I. B. Labiche, da noi poco fa accennato.

Importanti giudizi de la Presse

«Che farà il Re di Napoli, scriveva La Presse, quando avrà messo la indipendenza del suo Governo e la dignità della sua Me Corona a discrezione di tutte le questioni esteriori illegittime? Cosa farà? In ciò che concerne l’atto costituzionale, la questione è molto meno semplice, che non sembri a prima vista.

– 228 –

Il Re, che poteva abrogare la Costituzione del 1848, dopo gli avvenimenti del 15 maggio, non ha fatto altro che sospenderla; ma quand’anche dovesse richiamarla in vigore, pure questa nuova concessione sarebbe molto lungi dal contentare tutti. Abbiamo già detto, che il partito della rivoluzione comprendeva tutte le gradazioni del liberalismo. È da avvertire, che i soli Costituzionali si dividono in Napoli come appresso:

«1° Costituzionali realisti puri e semplici, che reclamano un nuovo esperimento di fatto del regime parlamentare, sì infelicemente messo a pruova nel 18481849.

«2° I Costituzionali realisti federalisti, che vorrebbero, indipendentemente dal reggimento costituzionale, un sistema di Confederazione italiana, a guisa della Confederazione germanica: costoro domandano l’abdicazione del Re Ferdinando II; è questo il partito inglese, di cui Poerio (ente mitologico giusta il Petruccelli) è divenuto il capo, dopo essere passato dal campo unitario al federalista.

«3° I Costituzionali realisti unitarii, il maggior numero dei quali trovasi in Sicilia, che pretendono di fare dell’Italia un Regno unico e porlo sotto lo scettro del Re di Sardegna: gli emigrati rifugiati nel Piemonte, dove hanno il loro quartiere generale, compongono questo partito.

«4° Vengono poi le due gradazioni del partito costituzionale repubblicano, che ha pure i suoi unitari e i suoi federalisti. I mazziniani, o i repubblicani rossi, rarissimi nell’Italia meridionale, sono quasi tutti unitari, benché siano discordi in alcuni punti del loro programma.

«Relativamente alle misure di clemenza, noi abbiamo veduto che Ferdinando II ha saputo dispensarle a larga mano; ma possiamo supporre, per gli antecedenti del 1830, che egli vorrà riserbarsene la iniziativa, e che lo stato presente delle cose non è certamente opportuno a far affrettare tali indulgenze.

«L’intervento collettivo della diplomazia inglese e francese tra il Re di Napoli ed il suo popolo ha inspirato in Europa una certa sorpresa. Che l’Inghilterra, celando le sue mire ambiziose sotto la maschera umanitaria, che essa non manca mai di assumere nel proprio interesse, procuri di eccitare la Sicilia ed incoraggiare all’uopo il partito della rivoluzione, non è da maravigliarsene, perché è nel suo centro e resta fedele in ogni punto alle nobili tradizioni del Foreign Office.

«Ma che la Francia pretenda avere lo stesso interesse dell’Inghilterra in tali circostanze, e pensi a spingere una Potenza straniera in quella via,

dove essa medesima ha ravvisato esistere pericoli …….. ecco ciò che sembra impossibile a capirsi:

meno che non si supponga come scopo di questa questione complessiva qualche lato misterioso, che sfugge agli occhi del pubblico. Noi non ci occuperemo a togliere questo velo. Codesto esame ci trascinerebbe su di un terreno troppo ardente e pericoloso, che non ci è dato ora di affrontare. Siamo d’ altronde pervenuti al termine della carriera che ci proponevamo percorrere: il compito dello storico cessa, ove finiscono i capitoli de’ fatti compiuti». Fin qui la Presse.

– 230 –

CAPO XII.

IL GOVERNO DI NAPOLI E QUELLO DEI RISTAURATORI DELL’ORDINE MORALE.

Riserbandoci di trattare in seguito dell’amministrazione interna del Regno delle Due Sicilie, e di farne un confronto più completo col Governo liberatore, ci giova fin d’ora dare un rapido sguardo a quella così detta tirannia, che per ogni uomo di senno e di cuore non fu se non saggezza di governo, usata da Re Ferdinando II verso i suoi popoli, che nuotavano perciò nella pace e nell’abbondanza di ogni bene di Dio, mentre che i popoli soggetti ai suoi censori fruivano delle tristi delizie d’interminabili agitazioni, della immoralità e della miseria.

Benessere delle popolazioni napoletane

Sicurezza pubblica.

Non pretendiamo noi rappresentare il Governo delle Due Sicilie come perfetto e scevro da ogni neo; e quale cosa, per quanto buona e santa, non ne ha in questo mondo, specialmente di questi tempi! Diciamo solo ed affermiamo, che fra tutti i Governi di Europa era l’unico, che desse prova di cristiana sapienza e di sovrana dignità. Non v’era, si può dire, Stato le cui finanze non versassero in più o meno laboriose condizioni; e in quei paesi stessi dove l’oro si vedeva sovrabbondare, il debito pubblico toccava le più favolose cifre, in quella che i balzelli colpivano poco meno che l’aria istessa respirabile. Il Regno delle Due Sicilie però non conosceva debiti, non aggravii, non ladri della cosa pubblica; le finanze napolitano erano le più prospere di tutta Europa: beati si chiamavano coloro che possedessero cartelle di Consolidato napolitano, che nelle borse principali di Europa si negoziavano a cento dodici per cento! Dir questo ai nostri giorni equivale a una mostruosità!…

La Sicilia era immune dai più comuni balzelli del sale, del tabacco, della polvere da fucile, della carta bollata ed altri.

Di grassazioni non era da parlare nel Regno di Napoli, e, se ne togli i furti parziali, di cui non vanno esenti le città anche le più ordinate,

– 231 –

tu potevi andarne coll’oro in mano con tutta sicurtà (1); né la calunnia così scaltramente utilizzata contro i legittimi Governi, osò mai colpire il Governo napolitano, su tale riguardo.

Nella statistica criminale napolitano, incominciando dal 1848, an»,, no pieno d’agitazione e calamità, p§r la povera Italia, la cifra dei misfatti, come in ogni altro, luogo, fu assai grande, e nel 1849 raggiungeva la somma di l8,855f nei,1850 raggiungeva pure i 18,826)., ma ne) 1851 si aveva,già una grande diminuzione, cioè del diciottesimo sul numero dei delitti, dell’anno precedente. Ancora,, maggiore fu nel 1854, sebbene la carezza dei pane, la invasione del colera e la guerra d’Oriente turbassero quei popoli eccitandone, le passioni

L’amministrazione della giustizia

L’amministrazione della giustizia ci da i seguenti risultati: nel 1854 le querele, dei privai o dei pubblici accusatori contro i sudditi napolitani toccarono la cifra di 27,181, dei quali solo 5,767 vennero condannati, mentre, gli altri erano messi in libertà, 0 in aspettazione di prove maggiori. Le cause solennemente, discussa, nel 1854 furono 5,010, per le quali furono,, ascoltati 69,575 testimonii. Nel 1858 non fuvvi nemmeno un caso, di rimedio per ritrai tastone, mentre che appunto in quell’anno i Collegi di Francia, e d’Inghilterra, fra i più riputati di Europa, ne offrivano di strepitosi, nei quali notavasi che molti innocenti furono condannati, anche a pene gravissime, a causa di falsi testimoni e di documenti falsi.

I duelli

Il duello piaga sociale dei nostri tempi e cosa di tutti i giorni in altri paesi e presso Governi più specialmente detrattori, del napolitano, scompariva, a mano a mano, dal Regno di Popoli, dove nella prima metà di questo secolo, inseguito dell’invasione napoleonica, erasi molto generalizzato. Re Ferdinando II vi rimediò in un momento; pareggiò le offese arrecate in duello alle premeditate, le rese di competenza ordinaria, benché tra militari, e le punì col laccio. Nel 1854 non vi fu un solo duello in tutto il Regno. Vedi tirannia!….

Clemenza di Ferdinando II

Delitti politici, come quelli che ricevevano continuo fomento, da scellerate influenze straniere, non mancarono nel Regno, e non mancò nemmeno la sovrana inesauribile clemenza di Re Ferdinando. Nello spazio di 4 anni, quanti ne corsero dal 1851 al 1854, ben 2,713 furono i graziati; 42 pene capitali, risultanti da

(1) Non è qui da confondere i delitti ordinari cogli attentati nel Cilento, nella Basilicata e in alcune parti della Sicilia e della Calabria, dove le società segrete e le influenze straniere spingevano al delitto quelle calde popolazioni.

– 232 –

condanne delle grandi Corti di giustizia in quello stesso spazio di tempo furono dal Re tiranno commutate, 19 all’ergastolo, 11 a 30 anni di ferri, 12 a pene minori: nessuno andò a morte! Se fosse lecito a noi giudicare quel gran Monarca, diremmo francamente che con tanta clemenza fece male assai!

Testimonianze non sospette

Per lo che, conchiude il Cav. Cantalupo, Consigliere della Suprema Corte di Giustizia, nel suo importante scritto sul progresso morale delle popolazioni napolitano, verificarsi appunto nel Regno di Napoli un fatto unico in tutta Europa, che cioè nello spazio di più anni non ebbevi alcuna esecuzione capitale.

Un Brussellese apologista della causa del Re di Napoli, del quale ci guarderemmo dall’accettare ogni detto, come quello che in più di un incontro si mostra irriverente verso il Papa, osserva su quel proposito, rivolgendo la parola a Lord Palmerston: «sapete voi che nelle Due Sicilie non è conosciuta la misura sbrigativa della deportazione? né Botany-Bay, né Lambessa, né Caienna, né altri sepolcri d’infelici viventi?»

Lo statista napolitano sopraccitato, dal quale togliamo questi appunti, fa notare, che dal 1830, da che fu Re Ferdinando II, fino al 1854, si distinsero sempre nel Regno i reati politici semplici dai misti, vale a dire da quelli che implicavano delitti comuni. Questa distinzione cotanto dibattuta nel Parlamento belga in occasione della legge di estradizione, era già in pieno vigore nel Regno di Napoli.

5 II Re, dice il medesimo Cav. Cantalupo, ha voluto decisamente, risolutamente, e a qualunque costo, che non si versasse sangue umano per motivi di lesa Maestà, quando tali reati, come nella causa di Rossaroll e complici, e in altre di simile natura, non erano misti a reati di scorrerìe armate, di omicidii o di altri attentati comuni.»

Quanto ai reati comuni, il Re Ferdinando fece 7,181 grazie dall’anno 1851 al 1854, le quali sommate insieme colle suddette 2,713 per reati politici, si ha la bella cifra di 9,894 grazie. E questo Re era un tiranno!

Gli studi nel Regno di Napoli

Le condizioni delle arti, delle scienze, e degli studii nel Reame di Napoli non la invidiavano a nessun più fiorente Stato del mondo. Su questo proposito l’Armonia di Torino ci fornisce preziosi appunti. «Noi Piemontesi, scrive quell’autorevole giornale, abbiamo una prova lampante dello stato delle scienze, e della condizione degli studii nel Regno di Napoli. Re Ferdinando ci ha mandato i migliori professori della nostra Università:

– 233 –

Scialoia, Mancini, Melegari (1), Ferrari, appartengono al Re di Napoli, e furono educati sotto quel Governo, che si accusa di favorire le tenebre e l’ignoranza!…

» Chi scrive i nostri diarii? sono in massima parte gli emigrati napolitani, che hanno preso le redini del Piemonte, e vi formano l’opinione pubblica. I Piemontesi, diciamolo a nostra somma vergogna, obbediscono ed imparano, o fanno mostra d’imparare. Ma intanto chi ha formato i nostri maestri? È Re Ferdinando. Egli ha dato avvocati al nostro foro, professori alle nostre scuole, pubblicisti ai nostri giornali.» – Re Ferdinando formava i dotti licei dai quali uscivano eletti e colti ingegni: ma non era certo responsabile se coloro, insuperbiti di loro stessi, e trascinati da malvage passioni, si lasciavano poi pervertire dalla frammassoneria, e quindi volgevano la dottrina e l’ingegno a danni della società e della religione, alle quali avrebbero dovuto servire.

La diplomazia

L’apologista di Brusselles poi aggiungeva: «I primi uomini di Stato d’Italia si consacrano alla politica di Re Ferdinando. Il Principe di Satriano (figlio del celebre Gaetano Filangieri), la prima spada, la più vasta capacità amministrativa d’Italia; i Principi di Carini, di Castelcicala, il Marchese Fortunato, il Marchese Antonini, il Duca di Serracapriola, per ogni maniera di ragioni, hanno dato e danno all’Europa diplomatica lezioni di sapere e d’ardimento governativo.»

Che dire poi della beneficenza di questo crudelissimo Principe? Il terremoto desolava gl’infelici popoli della Basilicata? e il Re e la Regina davano del proprio peculio 10,000 Ducati, non già Lire, come si fece poi in altri tempi a noi più vicini; i Ministri e i loro dipendenti, seguendo il bell’esempio dei loro Monarchi, davano complessivamente la somma di 21,000 Ducati: altri seguivano l’istesso esempio, e le oblazioni ascendevano a 142,000 Ducati.

La beneficenza

La carestia affliggeva il Regno di Napoli, come molta parte di Europa? e furono tosto aperti forni di panificazione per tutto lo Stato; fu proibita l’esportazione all’estero severamente dei generi necessarii alla sussistenza, mentre si commettevano in Odessa carichi abbondanti di grano.

Veniva meno il lavoro al popolo? e il Re ordinava lavori pubblici; nel solo anno 1854 furono spesi 3 milioni 556 mila 670 Ducati in opere di utilità pubblica, militari e idrauliche. – Quale confronto desolante coi tempi in che scriviamo!

(1) Melegari, benché Modenese, aveva studiato in Napoli.

– 234 –

Quanto all’esercito lasciamo parlare il citato apologista. «Il primo esercito italiano è l’esercito dalle Due Sicilie, riordinato con 20 anni di lavoro da Ferdinando II: dopo le antiche legioni romane giammai l’Italia ebbe un esercito così numeroso, e nello stesso tempo così ordinato e istruito. La prima flotta, dopo la flotta francese, che veleggi nel Mediterraneo e nell’Adriatico, venne interamente creata dallo stesso Re.»

Questi son fatti, esclama qui l’Armonia, e non parole!

Il rivoluzionario giornale II Risorgimento andava cercando chi fosse l’autore della difesa del Re di Napoli pubblicata a Bruxelles. È ricerca inutile, osservava il citato giornale, dovrebbe invece adoperarsi per ribattere tutte le cifre e tutte le verità che ci vennero accennate. «Provi, che in Napoli vi è una stampa empia e rivoluzionaria, come la nostra. Provi che non siano Napolitani coloro che presentemente illuminano il Piemonte. Provi che il governo di Napoli viva d’imprestiti come noi. Provi che ubbidisca a Francia e Inghilterra come noi; che abbia venduto il suo commercio agli Inglesi come noi; che abbia dovuto accettare gli Austriaci nelle sue fortezze come noi; che tenga in permanenza le forche come noi; che abbia tanti ladri come noi; che curi così poco il popolo come noi. Attendiamo dal Risorgimento questa importantissima dimostrazione.» – Ma il Risorgimento non rispose.

Piemonte.

Abbiam veduto qual fosse il governo del Tiranna, nel momento appunto in cui veniva accusato; ora diamo uno sguardo a quello dei liberatori. E principiando dal Piemonte, dal pessimo stato dalla cosa pubblica, dai delitti che in brevissimo spazio di tempo si verificarono, si giudichi della moralità e dell’ordine di quel Governo. Affinché possano i nostri lettori apprezzar meglio la cosa, stimiamo conveniente innanzi tratto di levare la lista e la somma delle imposte, tanto dirette quanto indirette, che si pagavano dal Regno modello, quale appariva dal bilancio pel 1857 approvato dalla Camera. Il Piemonte adunque godeva fin d’allora:

La imposta

  1. La contribuzione prediale, in 16 milioni;
  2. L’imposta personale e mobiliaria, in 3 milioni e mezzo;

III. La tassa delle patenti, in 3 milioni;

  1. La tassa per vendita di bevande ecc., in 700 mila lire;
  2. La tassa sulle vetture, in 800 mila lire;
  3. Centesimi di sovrimposta sulle contribuzioni dirette, in un milione e mezzo;

VII. L’insinuazione, in 10 milioni e mezzo;

– 235 –

VIII. Diritti d’emolumento, in un milione e 209 mila lire;

  1. Dritto d’ipoteche, in 300 mila lire;
  2. Diritti di successione, in 5 milioni;
  3. Carta bollata, in 6 milioni e 200mila lire;

XII.

Carte da giuoco, 6 milioni e 200 mila lire;

XIII.

Tassa sui redditi dei Corpi morali, in 400 mila lire;

XIV. Tassa sugli stipendi e pensioni, in lire 850 mila;

  1. Sali, 10 milioni;

XVI. Tabacchi, 17 milioni;

XVII.

Gabbella sulle carni, 6 millioni e mezzo, oltre a varie altre imposte di minor momento che omettiamo per brevità. – Con tutte queste imposte si aumentarono i redditi dello Stato fino a 135 milioni e 800 mila lire. Ma non bastano ancora alle spese;imperocché queste per Tanno 1857 vennero approvate in lire 143 milioni e 700 mila: spese che poi all’opera aumentarono, mediante i crediti suppletivi nel modo istesso che aumentarono sempre quelle degli anni precedenti. Aggiungi a ciò tutte le imposte municipali, provinciali e divisionali, e si avrà la somma delle felicità finanziarie del beatissimo Regno! E ci sia lecito di ripetere quel che Massimo d’Azeglio scriveva in un suo opuscolo: «Parlando in generale, più le derrate sono cattive a questo mondo,più s’hanno a buon mercato. Ma non è così dei Governi: più sono cattivi e più costano.»

I delitti

Passiamo ai delitti. La Gazzetta Piemontese, che mai parlava degli assassini che si commettevano quotidianamente in Piemonte, in uno dei suoi numeri di Giugno 1856 usciva a dire tutto in un tratto, che le Romagne erano infestate da assassini; ma mentre ella si scandolezzava pei fatti altrui, il giorno innanzi era stato trucidato un macellaio nel bel centro di Torino con grande indegnazione di tutta la città, che ornai riconosceva di non esser più sicura nemmeno nelle proprie abitazioni; e il giorno istesso i diarii torinesi erano più che mai fecondi di notizie d’ assassini commessi; il giorno dopo poi furono appesi per la gola un emigrato e un carabiniere, rei d’omicidio e di grassazione. Così negli Stati sardi nel 1854 gli omicidi furono 114, le grassazioni 607, i furti 4306, le risse e ferimenti 995, gl’incendi delittuosi 138, e nei primi 10 mesi del 1855 gli omicidi sommarono a 90, le grassazioni a 498, i furti a 3491, le risse e i ferimenti a 898 e gl’incendi delittuosi a 76. Tali sono le cifre lasciateci in testamento dal Giornale il Piemonte ora morto; che quanto a statistica criminale lo Stato a quel tempo non voleva pubblicarla, quantunque da vari anni si pagasse una buona somma per ciò!

– 236 –

Le esecuzioni capitali del resto erano così numerose in Piemonte da spaventare anche i più indifferenti. In otto anni di libertà si avevano già in Torino 105 esecuzioni capitali, mentre quelle degli otto anni anteriori non arrivarono alla diecina. – Brofferio toccava di questa dolorosa statistica nella Camera dei deputati, e faceva vedere come nel 1853 si avessero avuto 28 condanne a morte, mentre che la Francia, otto volte più grande del Piemonte, non ne avea avuto che 45.

Intanto il 17 Giugno 1856 ha luogo il dibattimento contro un uxoricida; l’istesso giorno due sono appesi per la gola; il 20 e 21, condanna di sette truffatori; il 21 istesso un operaio ferisce sua moglie, poi uccide sé stesso; il 26 un padre uccide la propria moglie, cinque figli e poi sé stesso; il 29 Giugno un segretario del Ministero degli Affari Esteri si suicida; l’istesso 29 sei grassatori son condannati alla galera in vita. In meno di 15 giorni, scrive il Giornale La Maga, 28 Giugno N. 78, a Torino sono eseguite cinque sentenze di morte col laccio sulle forche!

I furti sacrileghi

Che dire dei furti sacrileghi? Il 10 Giugno viene rubato l’Ostensorio e la S. Pisside nella Chiesa parrocchiale di Mirabello, dove poco prima era stato commesso altro furto sacrilego. L’11 di Giugno altro furto sacrilego nella parrocchia di Salabue; altro furto sacrilego in Sorina. Il 10 di Giugno ladri sacrileghi penetrano notte tempo nella Chiesa parrocchiale di Pecetto, scassinano la porta del Tabernacolo, gettano via le sacrosante Particole, e rubano la Pisside. l’Unità di Casale affermava «esistere in Piemonte una banda organizzata per profanare e spogliare le Chiese.» Mentre i ladri profanavano e derubavano il Luogo santo, Deforesta e Rattazzi scagliavano dispotiche circolari contro il Clero!…

La sicurezza pubblica

Quanto alla sicurezza pubblica, procedeva essa di pari passo colla sicurezza delle Chiese e dei luoghi sacri al culto divino. Un’autorevole corrispondenza alla Civiltà Cattolica (30 Agosto 1856) recava: «I ladri continuano ad infestare le nostre contrade; e quei forestieri che capitano fra noi ci lasciano il pelo è la pelle. Così è avvenuto a un Toscano, che, giunto in Genova, fu spogliato dai malandrini, e al eh: sig. Zanelli di Roma, che dovette cedere ai medesimi quanto aveva in tasca. Essendosene lagnato alla polizia, questa, per sua consolazione, gli rispose, che l’avvenuto a lui avveniva quotidianamente a moltissimi. La medesima polizia di Genova poi dichiarava, che i furti vi sono generali…… per confessione universale, il Piemonte non si trovò mai a cosi malparato.

– 237 –

Un Deputato autorevole in Parlamento ebbe ad esclamare, che i ladri in Piemonte cuoprivano il paese come una lebra! Da Castelnovo Bormida si scriveva all’Opinione: «Alcuni scapestrati, uniti in una specie di società segreta, affiggono continuamente proclami incendiar! e minaccianti le produzioni agricole, e perfino la vita di persone per ogni senso apprezzabili. Né questi sono semplici detti; poiché a molti vennero tagliate le viti cariche d’uva ancora acerba; ad altri atterrati al suolo bellissimi gelsi, e non è molto che ad un Guardaviti, esatto nel suo dovere, veniva abbruciata la casa, e lui stesso malconcio; finalmente ogni giorno abbruciate quelle capanne che si costruiscono in campagna, onde proteggere da furti i raccolti! Insomma i lamenti per la poca sicurezza delle robe e delle persone sono forti e continui, eziandio da parte dei più caldi amatori delle moderne istituzioni politiche del Piemonte.»

E il Diritto così scriveva: «Ci venne riferito, che l’arma dei Carabinieri reali abbia operato in una delle scorse sere nei dintorni della Crocetta (a qualche centinaio di passi da Torino) l’arresto di 18 malandrini. Speriamo che, stante le loro instancabili cure, poco per volta riesciranno ad operare l’arresto di ben altri ancora, che infestano con continue aggressioni e furti i dintorni della Capitale, ed anche le provincie, come quasi ogni giorno ci viene fatto di leggere nei giornali.»

Su questo medesimo proposito il Risorgimento, del 17 Settembre 1856, si esprime cosi: «L’opinione pubblica francamente espressa dalla stampa indipendente della Capitale e delle provincie, da lunga mano protesta contro la non rassodata sicurezza dai malfattori……. contribuenti sono disposti a qualunque sacrificio, perché abbiano le persone ed i beni sicuri; eppure i delitti si moltiplicano. «E minacciava il Governo, soggiungendo: «Pensino i governanti a far sì che i severi giudizi, che ormai la università dei cittadini incomincia a portare sulla indolenza loro in materia si vitale, non abbiano a tradursi in fatti più decisivi.»

La moralità

Che dire della moralità di quello Stato modello, che a modello degli altri Stati italiani si proponeva, ed era senza controllo accettato dai benevoli Potentati di Occidente? Una testimonianza sola ci basti. Il Conte di Pollone al Senato del regno, nella tornata del 24 di Aprile, diceva precisamente così: «Altra spesa che tuttodì aumenta ed aggrava enormemente il bilancio della divisione di Torino,

 

 

– 238 –

si è quella riferentesi al contributo provinciale pel mantenimento degli esposti. Mentre nel 1847 e nel 1848′ questa spesa era di Lire 139 mila, arriva essa pel 1856 a lire 335 mila 878, cioè assai più ohe non la metà dell’imposta normale divisionale, con un aumento progressivo di oltre il 152 per cento, e ciò nel breve giro di otto anni!» – E l’onorevole Conte avvertiva «come fossero espresse gravi opinioni intorno all’impellente necessità di sviluppare il senso morale e religioso delle nostre popolazioni, come il mezzo più efficace, per non dire unico, di frenare i tristi effetti della corruzione dei costumi, della quale abbiamo le più irrefragabili prove nel segnalato straordinario armento di tanti esseri infelici.» E la Gazzetta Piemontese, e le Note diplomatiche parlavano intanto del malgoverno di Roma e di Napoli!

I malfattori

Inghilterra.

Dal Piemonte passiamo a un altro Liberatore e Moralizzatore dell’Italia, vogliamo dire all’Inghilterra.

Rapporti officiali circa la città di Londra ci offrono all’epoca di che ragioniamo le seguenti cifre. – In Londra, sopra una popolazione di 2 milioni 362 mila 236 anime, vivono senza domicilio noto o fisso 143 mila 64 persone, delle quali 4 mila sono vagabondi di professione, e costano alla Città 50 mila lire sterline annue per il loro mantenimento. Di più vi sono 110 ladri detti di estrazione (house beatrer) i quali esercitano a man salva, sotto la vigilanza della Polizia, la loro professione! E poi 107 ladri detti del buon giorno; 40 ladri di strade maestre; 773 borsaiuoli; 3675 ladri comuni; 11 ladri di cavalli; 143 ladri di cani; 3 falsari; 28 coniatori di monete false; 317 spacciatori delle medesime monete; 141 vivono scroccando da birbo; 182 scrocconi speciali di contribuzioni filantropiche per mezzo di false dichiarazioni; 343 ricettatori di cose rubate; 50 autori di falsi certificati di mendicità, e finalmente 86 ladri detti all’americana. Insomma i pubblici malfattori, conosciuti e autorizzati dalla Polizia, che li lascia fare servendosene, come il cacciatore fa dei richiami e delle leve, per iscoprire gli altri, sono 16 mila 900, e questi rubano la modesta cifra di 42 mila lire sterline all’anno, che è quanto dire la cifra tonda di 210 mila franchi. –

Se tanti sono i ladri conosciuti e accreditati, che lavorano a man salva e a sangue freddo, quale sarà mai la cifra degli altri ladri e degli altri delittuosi, che agiscono spinti da malnate passioni, e da prepotenti bisogni della più sconsolata miseria, quale regna in una grande parte di quella sterminata città?

– 239 –

Il pauperismo

Altra piaga dell’Inghilterra, è il pauperismo, scriveva l’autorevole Civiltà Cattolica, (Ottobre 1856). Il rapporto semestrale del Comitato, che sta sopra la legge dei poveri (Poorlaw Board) fa sapere che, nell’Inghilterra e nel principato di Galles, in sei mesi si spesero 2 milioni 98 mila 655 lire sterline (franchi 52 milioni 466 mila 375) a sollievo dei poveri$ e chi li ha visitati sa come siano trattati questi infelici Onde si inferisce, che più di 100 milioni di franchi vi si spendono ogni anno pel meschinissimo sostentamento dei poverelli, ‘ che sono ricettati negli asili, o altrimenti sovvenuti ex officio senza dire delle miriadi che si avvolgono nel lezzo e nella miseria più spaventosa, prima di buttarsi ai delitti e sprofondarsi nelle carceri!

Morti di fame

Né questo è tutto. Conviene ricordarsi che, secondo notizie certissime, perché officiali, nell’anno 1842 morirono di fame in Irlanda 187 persone; 515 nel 1845; 2,041 nell’anno appresso; 6,058 nel 1847; e 9,395 negli anni 1848 e 1849! Nel decennio dal 1841 al 1851 il numero delle persone spente dalla fame ascese all’enorme cifra di 21,770! Non diciamo degli innumerevoli cittadini inglesi emigranti in America per fuggire la miseria. Ed ecco le beatitudini procacciate dalla potenza inglese, figlia dello scisma e della irreligione! Ed ecco chi ardiva insultare al Re di Napoli e al suo Governo, dettandogli lezioni di moralità e di ordine – Ma non é tutto.

L’Economist recava le tabelle statistiche in materia di delitti per l’anno 1858, asserendo essere le più complete e le più ufficialmente constatate, di cui il pubblico inglese sia mai stato fornito dal suo governo. Le quali tabelle non appartengono che ai delitti commessi nel 1858 in Inghilterra e nel paese di Galles; debbonsi perciò escludere affatto la Scozia e l’Irlanda.

Statistica criminale

Questi risultati, dice la Perseveranza del 9 Gennaio, sono sommariamente ridotti nel modo seguente:

Popolazione dell’Inghilterra e del paese di Galles 17,927,609

Numero degli agenti di polizia 20,256

Categoria I. Numero dei delinquenti, o in prigione o fuori, conosciuti dalla polizia 160,346

Categoria II. Numero delle Case di cattiva fama da essi frequentate 25,120

Categoria III. Numero dei delitti portati a cognizione della polizia 57,888

Categoria IV. Totale delle persone venute in mano della giustizia 434,492

– 240 –

I 160,346 delinquenti della prima categoria sono quindi divisi in due classi; la prima consiste di coloro che, sebbene in liberti, sono conosciuti per persone criminose, e questa classe ammonta a 134,922 persone; la seconda consiste dei delinquenti in prigione, e si eleva a 25,424.

Della prima classe di 134,922 persone, si sono fatte alcune divisioni relative alla condizione, al sesso ed all’età; eccone il quadro autentico:

Ladri e predatori conosciuti 40.032

Sotto ai 16 anni 4,773 1,608 6381

Dai 16 anni in su 26,772 6,879 33,651

Incettatori di oggetti rubati

4.315

Sotto i 16 anni 119 29 148

Dai 16 anni in su 3,410 787 4,197

Prostitute 28,760

Sotto i 16 anni 1,647 1,647

Dai 16 anni in su 27,113 27,113

Persone sospette 39,622

Sotto i 16 anni 3,912 1,512 5,424

Dai 16 anni in su 28,028 5,774 33,802

Vagabondi 22,559

Sotto i 16 anni 3,264 1,943 5,207

Dai 16 anni in su 11,390 5,962 17,352

Totale 134,922

Sotto i 16 anni 12,068 6,739 18,807

Dai 16 anni in su. 69,600 46,515 116,115

Su queste cifre sono da farsi parecchie osservazioni. Nessuno si dia a credere, che trovinsi notati sulla citata statistica tutti i ladri dell’Inghilterra, essendovi soltanto quelli conosciuti dalla polizia, e d’ordinario questi sono i meno. Di poi si avverta che le 434,492 persone venute in mano della giustizia, durante il 1858, non furono i soli colpevoli dell’Inghilterra; giacché un buon dato commette il delitto impunemente, e sfugge alle più diligenti ricerche; tanto più in Inghilterra, dove è portato all’eccesso il rispetto alla libertà individuale. Si noti ancora che le donne di mala vita non sono recate in questa statistica, se non per altri delitti che commettono, uccidendo o spogliando i mal capitati; imperocché il numero delle sgraziate, che nella sola Londra vivono di mal costume, oltrepassa le ottantamila, come risulta da una statistica del giornale The Lancet, 30 Maggio 1857.

– 241 –

Si noti inoltre la quantità di ladri e scellerati giovanissimi che sono in Inghilterra. Sotto i sedici anni si contano 6381 ladri; sotto i sedici anni 1647 donne perdute; sotto i sedici anni 5424 persone sospette; sotto i sedici anni 5424 vagabondi.

Si noti finalmente che in Inghilterra i delitti aumentano sempre di anno in anno. L’Alison scrisse che tale aumento è senza esempio in Europa (England as it is. Oap. XIII). E Enrico Mavhen confessò: La nostra popolazione criminale aumenta come i funghi in una fetente atmosfera (1).

Ora noi domandiamo, se un Governo che offre all’Europa statistiche di questo genere, ha diritto di giudicare il Papa e condannare i Governi italiani! E qui cade a proposito una riflessione.

L’autore dell’opuscolo: II Papa e il Congresso, potrebbe applicare agli Inglesi le sue nuove teorie, le quali portano di restringere gli Stati del Papa, perché non tutto vi procede a meraviglia, essendo abitati e governati da uomini, non da angioli. Imperocché,

considerando i ladri e i malandrini dell’Inghilterra, potrebbe l’anonimo francese chiedere, che la regina Vittoria venga concentrata insieme con Lord Palmerston nel principato di Galles, provando all’una ed all’altro, che ciò sarà meglio per l’anglicanismo e per la civiltà.1

Dall’Inghilterra passando finalmente alla Francia troviamo i seguenti appunti. Dal 1851 al 1854, secondo la Statistica officiale pubblicata dal Moniteur, si moltiplicarono con progressione spaventosa gl’infanticidi, e i delitti di ogni maniera contro la proprietà. I falsari crebbero di 15 per cento, i furti qualificati di 25 per cento, gli incendi di 31 per cento. Di che vuolsi certamente accagionare in parte l’influenza della miseria, in cui vennero le migliaia di proletarii col caro dei viveri e delle derrate di prima necessità: e questo provasi dal numero di furti di biade e farine, che era di 161 nel 1851, e che giunse a 502 nel 1854. Ma quello che contrista l’animo e chiarisce lo stato cangrenoso d’una classe sociale assai importante si è, che i fallimenti frodolenti crebbero di 66 per 100; che il numero delle baratterie salì da 1652 a 2629; quello d’abuso di fiducia da 1653 a 2420; e per ultimo quello dell’ingannare sopra la natura, la qualità e la quantità delle cose vendute, da 1719 a 8946. Or egli è evidente, che tal sorta di delitti non sono effetto d’indigenza, né frutto di passioni subite e violente, ma sì conseguenze di quelle cupidigie sfrenate e calcolatrici, che agognano sempre a cumulare profitti

(1) «Our felon population increases among us as fast as fungi in a rank and fetid atmosfere.» The Great world of London, London, 1857, part. II pag. 90.

– 242 –

e addoppiar guadagni, o procacciarsi piaceri. E finché un principio superiore, la legge della coscienza e della religione, non farà sentire più efficacemente la sua autorità, vano è sperare d’infrenar codeste ree tendenze col crescere di 225 nuove brigate di gendarmeria, e di 1144 nuovi Commissari di polizia, la forza così numerosa con cui l’umana giustizia tende a prevenire o punire il delitto.

La moralità

Gli Spartimenti della Senna e di Corsica, come sempre per lo passato, furono i più fertili di così trista messe. In quelli della Senna i delitti contro la proprietà sono i più numerosi, perone sono in proporzione di 82 per 100, cioè quattro quinti; in Corsica per lo contrario prevalsero sempre i reati contro le persone, e toccarono l’enorme ragione di 89 per 100! Nel 1354 v’ebbe qualche diminuzione. Dei 7556 accusati che si trovarono involti nei 5525 processi, giudicati dalle Corti d’Assise in quest’anno, ve ne ebbe 1883 (240 sopra mille) che furono prosciolti; 2813 (372 sopra mille) che furono condannati a pene afflittive ed infamanti; e finalmente 2860 (379 sopra mille) che furono condannati a pene correzionali. Il numero delle condanne a morte fu doppio di quello degli anni precedenti; inoltre il Giurì fece prova d’assai maggiore severità, non ammettendo che assai meno sovente il beneficio di circostanze attenuanti. Il numero proporzionale dei recidivi fra gli accusati era di 283 sopra mille nel 1851, di 311 nel 1852, di 328 nel 1853. Pertanto l’anno 1854, paragonato col 1851, offre un aumento di più che un ventesimo. La Moralità Una parola circa la pubblica moralità.

«Barone di Watteville, Ispettore Generale delle Istituzioni di beneficenza, scrisse un rapporto al Ministro degli Interni, intorno ai ricoveri degli esposti, gli abbandoni di bambini, gli infanticidi e i nati morti dal 1826 al 1854; ed è cosa di tanto momento, che il Ministro degl’Interni lo mandò pubblicare per le stampe. Noi ne ricaviamo le seguenti cifre: La Francia, nel 1826, contava 31,851,545 anime, e nel 1853 era cresciuta di 3,930,083. Le nascite illegittime in 28 anni furono 1,964,205; ossia, prendendo la media annua, 70,150; ovvero una nascita illegittima sopra 13 710 legittime. Il qual disordine è proporzionalmente più grande nelle grandi città. Nel 1826 esistevano in Francia 217 ospizi con ruota per ricevere i bambini esposti, e 56 senza ruota. Dal 1826 al 1853 furono abolite 165 ruote, e giova vedere quali ne siano stati gli effetti, e per rispetto agli abbandoni, e per rispetto agli infanticidi.

– 243 –

Ora s’inferisce dalle varie comparazioni di cifre che «gli abbandoni di bambini diminuirono progressivamente in Francia dal 1826 al 13 nella proporzione di una metà rispetto alle nascite, e di 4|9 rispetto alla popolazione.»

Dal 1836 fino al 1853 inclusivamente visi commisero 3671 infanticidi, ossia un infanticidio sopra 7394 nascite. E ciò per tener conto solo di questi delitti noti e accertati dalla magistratura. Quanti saranno gli sconosciuti?

E basti per ora questo, a far ragione di quel che fossero i Governi censori di quello delle Due Sicilie, il cui maggiore difetto era la soverchia abbondanza di ogni bene dl’ Dio, e di una vera e schietta felicità, quale umanamente è possibile su questa misera terra.

Altre dunque erano le ragioni, (prescindendo per un momento da quelle della setta anticristiana) che spingevano le Potenze occidentali ad assalire più particolarmente il Governo napolitano.

– 244 –

 fonte

eleaml.org

Capitolo Precedente

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.