Alta Terra di Lavoro

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PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (quindicesima parte)

Posted by on Feb 14, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (quindicesima parte)

CAPO VI.

Dopo il Congresso.

Cavour da conto alle camere della sua missione al congresso

Ritornato a Torino il Conte di Cavour, ai 5 di Maggio, fu nominato Ministro degli Affari esteri. Quindi nei due giorni seguenti rese conto alla Camera dei Deputati di quanto avevano operato i Plenipotenziari sardi nel trattato di Parigi, e fra le altre cose disse:

«La missione dei Plenipotenziari sardi aveva un doppio scopo. In primo luogo dovevano concorrere coi loro alleati all’opera congresso della pace colla Russia, e alla consolidazione dell’Impero Ottomano; in secondo luogo era debito loro di fare ogni sforzo onde attirare l’attenzione dei loro alleati e dell’Europa sulle condizioni d’Italia, e cercar modo di alleviare i mali che affliggono questa Nazione». Disse delle conseguenze possibili del Trattato e dei vantaggi materiali, che erano per derivarne allo Stato; quindi aggiunse: «Ma più che ai vantaggi materiali stimo che dobbiamo badare a quelli morali, che dalle conferenze abbiamo ricavato. Io ritengo che non sia poca cosa per noi Tessere stati chiamati a partecipare a’ negoziati, e prendere parte alla soluzione di problemi, i quali interessano non tanto, questa o quell’altra Potenza, ma sono questioni di un’ordine europeo, È la prima volta, dopo molti e molti anni, dopo forse il trattato di Utrecht, che una Potenza di second’ordine sia stata chiamata a concorrere con quelle di primo ordine alla soluzione di questioni europee. Così venne meno la massima stabilita dal Congresso di Vienna a danno delle Potenze minori. Questo fatto è tale da giovare non solo al Piemonte, ma a tutte le nazioni che si trovano in identiche condizioni. Certamente esso ha di molto innalzato il nostro paese nella stima degli altri popoli, e gli ha procacciato una riputazione, che il senno del Governo, la virtù del popolo, non dubito, saprà mantenergli.

«Vengo ora alla Questione italiana.

«Lo stato attuale d’Italia non è conforme alle prescrizioni dei Trattati vigenti. I principii stabiliti a Vienna e nei susseguenti Trattati sono apertamente violati; l’equilibrio politico, quale fu stabilito, trovasi rotto da molti anni.

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«Quindi i Plenipotenziarii della Sardegna credettero dovere specialmente rivolgere l’opera loro a rappresentare questo stato di cose, a chiamare sopra di esso l’attenzione della Francia e dell’Inghilterra, invitandole a prenderlo in seria considerazione.

Qui non incontrarono serie difficoltà; giacché i loro alleati, sin dai primordi delle loro istanze, si dimostrarono altamente ad esse favorevoli, e manifestarono un sincero interessamento per le cose d’Italia. La Francia e l’Inghilterra, riconoscendo lo stato anormale in cui si trovava l’Italia in forza dell’occupazione di una gran parte delle sue contrade per parte di una Potenza estera, (e la Francia non era estera!) manifestarono, lo ripeto, il desiderio di veder cessata questa occupazione e ritornate le cose atto staio normale.

«Ma un’obiezione veniva mossa alle nostre istanze. Quali saranno le conseguenze dello sgombro delle truppe estere, se le cose rimangono nelle attuali condizioni? I Plenipotenziarii della Sardegna non esitarono a dichiarare che le conseguenze di tale sgombro, senza preventivi provvedimenti, sarebbero state di un carattere il più grave, il più pericoloso, e che perciò non sarebbero stati giammai per consigliarlo; ma soggiunsero che essi ritener vano, come, mercé l’adozione di alcuni acconci provvedimenti, quello sgombro si sarebbe reso effettuabile.

«Invitati a far conoscere la loro opinione, essi pensarono di dover formulare, non già un memorandum, ma una memoria, ohe, sotto forma di nota verbale, venne consegnata alla Francia e all’Inghilterra.

«L’accoglienza fatta a questa nota fu molto favorevole. L’Inghilterra non esitò a darvi la più intera adesione; la Francia, ammettendo la proposta in principio, stimò di dover fare un’ampia riserva all’applicazione che per noi si chiedeva.

«Fu deciso dal Governo Francese con quello dell’Inghilterra, che la questione sarebbe sottoposta al Congresso di Parigi; e ciò fu nella tornata degli otto Aprile.

«I Plenipotenziarii dell’Austria opposero alla proposta della Francia e dell’Inghilterra una questione pregiudiziale, affinché non fosse ricevuta. Essi dissero, e, diplomaticamente parlando, con ragione, che il loro Governo non essendo stato prevenuto prima della riunione del Congresso che si avrebbe a trattare delle cose d’Italia, essi non avevano né istruzioni, né poteri all’uopo.

«Nessun risultato positivo si può dire essersi ottenuto. Tuttavia io tengo essere un gran fatto questa proclamazione che si fece, per parte della Francia e dell’Inghilterra, della necessità di far cessare

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l’occupazione dell’Italia centrale, e dell’intendimento per parte della Francia, di prendere tutti i provvedimenti a quest’uopo necessarii.

«Io vi ho esposto, o Signori, il risultato delle negoziazioni alle quali abbiamo partecipato.

«Rispetto alla questione italiana non si è, per dir vero, arrivati a grandi risultati positivi. Tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima, che la condizione anormale ed infelice dell’Italia è stata denunziata all’Europa, non già da demagoghi, da rivoluzionarii esiliati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito; ma bensì da Rappresentanti delle primarie Potenze di Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni, avvezzi a consultare assai più la voce della ragione, che a seguire gl’impulsi del cuore.

«Ecco il primo fatto che io considero come di una grandissima utilità.

«Il secondo si è, che quelle stesse Potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell’interesse dell’Italia, ma in un interesse Europeo, di arrecare ai mali d’Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni, quali sono la Francia e l’Inghilterra, siano per rimanere lungamente sterili.

«Sicuramente, se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall’altro debbo riconoscere che esso non è scevro d’inconvenienti e di pericoli. Egli è sicuro che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni coll’Austria. Noi dobbiamo confessare, che i Plenipotenziarii della Sardegna e quelli dell’Austria, dopo di aver seduto due mesi a fianco, dopo di aver cooperato insieme alla più grande opera politica che siasi compiuta in questi ultimi quarant’anni, si sono separati senza ire personali, ma coll’intima convinzione esser la politica dei due paesi più lontano che mai dal mettersi d’accordo, essere inconciliabili i principii dalVuno e dalValtro paese propugnati.

«Questo fatto è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli; ma è una conseguenza inevitabile, fatale, di quel sistema leale, liberale, che il Re Vittorio Emanuele inaugurava salendo sul trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi l’interprete, al quale avete voi sempre prestato fermo e valido appoggio. Né io credo che la considerazione di queste difficoltà, di questi pericoli, sia per farvi consigliare al Governo del Re di mutar politica.

«La via che abbiamo seguita di questi ultimi anni ci ha condotto ad un gran passo.

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Per la prima volta nella storia nostra la Questione italiana è stata portata e discussa avanti ad un Congresso europeo, non come le altre volte, non come al Congresso di Lubiana e al Congresso di Verona, coll’animo di aggravare i mali d’Italia e di ribadire le sue catene; ma coll’intenzione altamente manifestata, di arrecare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichiarare altamente la simpatia che sentivano per essa le grandi Nazioni.

«Terminato il Congresso, la causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione; a quel tribunale, a cui, a seconda del detto memorabile dell’Imperatore de’ Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva.

«La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l’esito finale. (1)

Discorsero in vario modo varii deputati, in favore o contro il Trattato; Cavour diede alcune spiegazioni; Cadorna propose, e la Camera, «udite le spiegazioni date dal presidente del Consiglio dei ministri, approva la politica nazionale del Governo del Re, e la condotta dei Plenipotenziarii sardi nel Congresso di Parigi; e, confidando che il Governo persevererà fermamente nella stessa politica, passa all’ordine del giorno». (2)

Il 10 di Maggio, il trattato di Parigi veniva presentato al Senato, al quale Massimo d’Azeglio faceva la seguente proposta:

«Il Senato, convinto delle felici conseguenze che dovrà arrecare il Trattato di Parigi, sì per promuovere la civiltà universale, come per stabilire sulle sue vere basi l’ordine e la tranquillità della Penisola italiana; riconoscendo altresì l’onorevole parte che ebbe ad ottenere questo desiderato effetto la politica del Governo del Re, unita all’opera dei suoi Plenipotenziari al Congresso, esprime un voto di piena soddisfazione.

Il Senato approvò ad unanimità là proposta, e le tribune applaudirono (3).

Conosciute tali cose a Vienna, per mezzo degli atti del parlamento di Torino, il Conte Buoi, Ministro austriaco, senza perder tempo, indirizzava ai Rappresentanti austriaci a Roma, a Napoli e agli altri Stati italiani la seguente Nota:

(1) Atti della Camera dei deputati. Tornata 6 Maggio 1856, fog. 254.

(2) Atti della Camera, 6 e 7 Maggio 1856. fog. 254257.

(3) Atti del Senato, 1856, fol. 56.

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Nota dell’Austria ai governi italiani

«Il Conte di Cavour dichiarò, che i Plenipotenziari dell’Austria e della Sardegna al Congresso di Parigi si erano divisi coll’interna persuasione, che i due paesi erano più lungi che mai dall’accordate la loro politica, e che i principii rappresentati dai due Governi erano inconciliabili. Dopo presa cognizione delle spiegazioni date dal Conte di Cavour al parlamento piemontese, non possiamo, io lo confesso apertamente, che soscrivere a tale dichiarazione da esso fatta sulla immensa distanza che ci divide da lui sul terreno dei principii politici.

«Fra gli allegati del Presidente del Consiglio dei Ministri, assoggettati all’esame della Camera, ci sembrò degna di particolare attenzione la nota portante la data del 16 Aprile, presentata dai Plenipotenziari piemontesi ai capi dei Gabinetti di Londra e di Parigi. Ridotto alle più semplici, espressioni, quest’atto non è altro che un appassionato libello contro l’Austria. Il sistema di compressione e reazione violenta, inaugurato nel 1848 e 1849, asserisce il Conte di Cavour, deve necessariamente mantenere le popolazioni in uno stato d’irritazione costante e di fermento rivoluzionario; e i mezzi dall’Austria impiegati onde comprimere un tale fermento, l’occupazione permanente di territorii che non le appartengono, annullano, secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’equilibrio ristabilito dal Trattato di Vienna, e sono una incessante minaccia pel Piemonte. I pericoli che sorgono pel Piemonte dall’estensione delle forze dell’Austria, sono, agli occhi del Conte di Cavour, sì grandi, che essi potrebbero costringere da un’ora all’altra il Piemonte ad appigliarsi a partiti estremi, le cui conseguenze è impossibile valutare. In tal guisa i timori, che il contegno dell’Austria in Italia inspira al capo del Gabinetto sardo, servono di pretesto per lanciare contro di noi una minaccia, a mala pena velata, da nulla certamente provocata.

«L’Austria dal suo canto non può in verun modo aderire alla missione assunta dal Conte di Cavour, a nome della Corte di Sardegna, di alzare la sua voce a nome d’Italia. V’hanno su questa Penisola diversi Governi, pienamente l’uno dall’altro indipendenti, e come tali riconosciuti dal diritto pubblico di Europa. Questo diritto pubblico d’Europa, d’altro canto, nulla sa della specie di protettorato che il Gabinetto di Torino sembra voler assumersi in suo confronto. Per quanto riguarda noi, sappiamo apprezzare l’indipendenza dei diversi Governi esistenti nella Penisola, e crediamo dar loro nuova pruova di questo apprezzamento, appellandoci in questo affare al loro imparziale giudizio. Voi non ci taccerete di menzogneri, ne siamo altamente persuasi, ove asseriamo che il Conte di Cavour si sarebbe molto più avvicinato alla verità, qualora avesse invertito il suo ragionamento e avesse asserito tutto il contrario di quello che fece.

«Giudicando dalle sue parole, soltanto il prolungato soggiorno delle milizie ausiliarie in alcuni Stati italiani mantiene il malcontento e il fermento degli animi, Non sarebbe stato infinitamente più giusto il dire: la continuazione dell’occupazione non è soltanto resa necessaria dalle incessanti manovre del partito dello sconvolgimento,

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e nulla è più adatto a incoraggiare le sue colpevoli speranze ed eccitare le sue ardenti passioni, dei discorsi incendiarii che tuonarono, non ha molto, sotto le volte del Parlamento piemontese? Il Conte di Cavour asserì: la Sardegna, gelosa della indipendenza degli altri Governi, non permette che una Potenza qualsia» possa avere il diritto d’intervento in altro Stato, quando anche questo l’abbia formalmente invitata. Spingere tanto oltre il rispetto per l’indipendenza di altri Governi, da loro contestare il diritto di chiamare in soccorso una Potenza amica, nell’interesse della loro conservazione, ella è una teoria, alla quale l’Austria rifiutò costantemente la sua approvazione. I principii che l’Austria professa in proposito sono troppo conosciuti per indurci qui ad esporli di nuovo.

«L’Imperatore e i suoi augusti antecessori, nell’esercizio del loro incontestabile diritto di sovranità, prestarono più di una volta soccorso armato ai vicini, che lo avevano chiesto contro interni o esterni nemici. Questo diritto l’Austria vuoi mantenerlo inalterato, e riservarsi la facoltà di farne uso all’uopo. Del resto, é egli permesso a chiunque siasi di nutrire dubbii sulle intenzioni predominanti nelle intervenzioni dell’Austria in diversi tempi, quando sta dinanzi aperto il libro della storia per mostrare che noi, in tal modo agendo, mai non seguimmo secondi fini o mire d’interesse, e che le nostre milizie si ritirarono immediatamente, allorché le competenti autorità dichiararono essere esse in istato di mantenere la tranquillità senza aiuto straniero? E sempre si confermerà un tal fatto.

«Appunto come le nostre milizie abbandonarono la Toscana, appena fu sufficientemente consolidato l’ordine legale, elleno saranno pronte a sgombrare gli Stati Pontifici, appena il Governo non avrà più bisogno di loro per difendersi contro gli attacchi del partito rivoluzionario. Del resto, non è nostra intenzione di escludere dal novero dei mezzi addotti al più facile raggiungimento di questo risultato sagge riforme interne, che noi abbiamo incessantemente raccomandate ai Governi della Penisola, nei limiti di una sana prattica e con tutti i riguardi dovuti alla dignità ed alla indipendenza degli Stati; in riguardo alle quali non riconosciamo nel Gabinetto di Torino il diritto di erigersi a censore privilegiato. D’altro canto noi siamo persuasi che gli uomini dello sconvolgimento non cesseranno dal dirigere le loro macchine di guerra contro l’esistenza dei legali Governi d’Italia, sino a tanto che vi saranno paesi che loro accordano appoggio e protezione e vi avranno uomini di Stato che non rifuggano di diriggere un appello alle passioni ed agli sforzi tendenti allo sconvolgimento.

«In breve, lungi dal lasciarci deviare dalla direzione del nostro procedere da un inqualificabile attacco, che vogliamo ammettere sia stato provocato dal bisogno di una vittoria parlamentare, attendiamo di pie fermo gli avvenimenti, convinti che il contegno dei Governi italiani, che furono, come noi, oggetto degli attacchi del Conte di Cavour, non differirà dal nostro.

«Pronti ad applaudire ogni ben intesa riforma, pronti ad incoraggiare

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ogni utile miglioramento, che parta dal libero e spregiudicato volere dei Governi italiani, pronti ad offrire loro la nostra morale e zelante cooperazione per lo sviluppo delle loro fonti di prosperità e del loro benessere, l’Austria è pur anco fermamente risoluta di mettere in opera tutta la sua forza per respingere qualsiasi ingiusto attacco, da qualunque parte esso provenga, e di cooperare dovunque si estende la sfera della sua attività, perché vadano ad arenarsi i tentativi dei fomentatori di disordini e dei fautori dell’anarchia». (1)

Nota dignitosa ed eccellente, se ne eccettui le frasi un pò elastiche risguardanti le così dette riforme, le quali pur troppo potevano essere interpretate a senso dei mestatori, mentre che le uniche e vere riforme da farsi in alcuni dei Governi della Penisola erano quelle soltanto di una più saggia e ferma repressione dei settarii e delle loro dottrine, e una più leale e franca protezione della Chiesa e dei salutari suoi insegnamenti.

Tale nota, mentre provava a maraviglia la perfidia del Piemonte e dei suoi fautori ed amici, provava ancora la impotenza dell’Austria, che il giorno dopo del Congresso sentiva già gli effetti disastrasi della sua politica durante la guerra. Abbandonata dalla Russia, trovavasi alla sua volta sola in faccia alla coalizione delle tre Potenze massoniche occidentali, succeduta a quella delle tre Potenze del Nord, e distrutta dalla guerra d’Oriente. Disprezzata fin d’allora dai settarii, l’Austria non si sentiva più forte abbastanza da chiedere conto dell’inqualificabile operato dei Plenipotenziarii gallo-anglosardi: trovavasi quindi costretta a difendere la propria dignità in una nota diplomatica. Altra volta il glorioso Impero degli Absburghi avrebbe inflitta una giusta lezione agli impudenti attentati della Sardegna e dei suoi alleati; oggi accontentavasi di confutarli! E questo fu il primo immediato effetto del Congresso di Parigi, che doveva trame seco infiniti altri, fino al discacciamento dell’Austria dall’Italia, alla distruzione di tutti gli Stati della Penisola, e all’imprigionamento del Sommo Pontefice in Vaticano. Dichiara A corroborare le quali asserzioni servono mirabilmente le lettere del La Farina, uno dei più importanti uomini della rivoluzione dopo Cavour,dal quale era stato messo a parte delle segrete cose della sua politica. Rechiamo alcune di queste lettere, e per la prima la seguente diretta a Giuseppe Oddo, a Malta:

Dichiarazioni di La Farina

(1) Gazzetta di Vienna, 11 Giugno 1856.

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Torino, 29 Aprile 1856.

Carissimo Oddo,

Agitazione rivoluzionaria da chi promossa

«…Il Congresso di Parigi ha, secondo me, dato un colpo terribile ai governi italiani. E la prima volta che un’assemblea di diplomatici, gente senza cuore e senza coscienza, riconoscono che han torto i governi e ragione i popoli. Né io mi dolgo di non avere essi adoperate le armi in nostro favore: se così avessero fatto, certo ne avrebbero voluto profittare; ed in questo caso Napoli sarebbe stata serva dei Francesi e Sicilia degli Inglesi. Ciò che noi abbiamo acquistato è la certezza, che questi governi non ci saranno contrarii, e che l’Austria esce dal Congresso umiliata, dirimpetto al Piemonte, dispettata dalla Russia, e in odio alla Francia ed all’Inghilterra. Pare quindi a me cheil tempo sia propizio a farci vivi. Questo è anche il parere dei nostri migliori, come Michele Amari ed altri. E quindi necessario promuovere un agitazione gagliarda in Sicilia; e posso assicurarvi che il medesimo va a farsi per le Legazioni, per la Toscana e pei Ducati.

» Avete voi mezzi con Palermo? Nel caso affermativo avvisatemi. La parola d’ordine sarà: Indipendenza ed unità d Italia; fuori l’Austria ed il Papa: al resto ci penserà Dio (!?). lo sono stato finora contrario ad ogni movimento, nella convinzione che i tempi non erano opportuni. Ora però sono persuaso, che se noi lasceremo passare quest’anno, faremo un grande errore; perché, da qui ad un anno, chi sa quali mutamenti potranno seguire nella politica Europea. Animo adunque, e rimettiamoci all’opera con fede e con zelo.»

Così a Giuseppe Oddo emigrato a Malta scriveva La Farina, il quale a Vincenzo Natoli, luogotenente nel 3° reggimento della legione anglo-italiana, egualmente a Malta, ripeteva le medesime cose, dichiarando meglio il pensiero della rivoluzione:

«Mio carissimo Natoli.

Torino, 29 Aprile 1856.

» Vi ringrazio del gentile pensiero che avete avuto per me, e vi son grato delle notizie che mi avete dato della Legione, la quale, a quanto sento da ogni parte, si fa veramente onore. Qui non vi è nessuno avviso ufficiale di scioglimento, e mi persuado che anche se fosse sciolta, ciò non avverrà che da qui a qualche tempo. Cercate frattanto d’istruirvi nelle armi il più che potete, perché grandi avvenimenti potrebbero essere non lontani.

» II Congresso di Parigi ha dato un colpo morale fatalissimo ai governi italiani: é la prima volta che una riunione di diplomatici

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dice, che i governi han torto ed i popoli han ragione. Questo fatto è per me di grande importanza, e racchiude in sé il seme di una rivoluzione (1). Bisogna quindi tenerci apparecchiati e pronti a profittare d’ogni evento e di ogni opportunità, favorevole. La dimora della Legione in Malta toglie i sonni al re di Napoli. Mi dicono che in Sicilia abbia prodotto una qualche agitazione.»

La politica dell’Inghilterra apparisce a mano a mano più chiara nelle lettere del La Farina. “E mentre le armi quietavano per la pace conchiusa, gli armati anglo-italiani, come le altre legioni straniere assoldate dall’Inghilterra per la guerra di Crimea, erano mantenuti in attesa di nuove imprese contro amici governi. Poco dopo la surriferita lettera al Natoli, La Farina scriveva la seguente ad Ernesta “FumagalliTorti, altra apostola della rivoluzione, con la quale era in continue relazioni:

«Carissima Sig. Ernesta,

«Torino 8 Maggio.

«Si diceva che la Legione sarebbe ben presto sciolta, in effetto del trattato di pace; ma posso assicurarvi che fin ora non v’è alcuna disposizione in proposito, e che anzi pare che l7 Inghilterra voglia continuare a tenere al suo servizio tutte le legioni straniere, finché non sieno accomodate le cose d’Italia. Qui ha destato una forte commozione la discussione del trattato e dei protocolli delle conferenze di Parigi; ma più di tutto le parole dette da Cavour ieri l’altro nella Camera dei Deputati. La discussione ha finito con un ordine del giorno lodativo del Ministero, al quale ordine del giorno si associò anche la sinistra e gran parte della destra fra gli applausi universali. Il solo Della Margherita ed altri cinque o sei con lui votaron contro; ma Revel votò a favore. Qui tutti sono convinti che ci apparecchiamo ad ima guerra, e che questa guerra

(1) Giova recare qui in nota la seguente lettera-indirizzo al Conte di Cavour, scritta da La Farina a nome di molti emigrati italiani rifugiati a Torino, che con lui la sottoscrissero:

Sig. Conte,

«Nel Congresso di Parigi voi levaste la voce in prò dell’Italia, nella coscienza del diritto e dovere (!?) ch’era in voi di rappresentarla.

Fruttino o non fruttino quelle parale alcun bene alla patria nostra comune, noi sottoscritti emigrati di varie provincie italiane ne rendiamo grazie a voi ed al governo del quale voi fate parte. L’avvenire dimostrerà ohe voi faceste ogni atono per tettare i mali di una rivoluzione e ohe, se i vostri detti erano liberi e generosi, erano anche savii e prudenti.

«Gradite, sig. Conte, gli attestati della nostra stima e riconoscenza. «

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possa essere non lontana. Si vuole che l’Inghilterra abbia promesso al Piemonte, in caso di guerra, un soccorso di 30,000 uomini e di una flotta.»

Fra le lettere del La Farina havvene altre di altri cospiratori di conto, a lui dirette, che non vogliono essere trascurate: tutte collimano all’istesso intendimento e tutte aggiungono lume a rischiarare le vie tenebrose della grande congiura contro la S. Sede e contro gli. Stati italiani. La seguente è di Ruggero Settimo, famoso agitatore siciliano:

«Pregiatissimo Amico

» Malta, 21 Maggio 1856.

«….. Relativamente al disegno dell’avvenire per la Sicilia, non potendosi sperare di meglio, applaudisco a quanto me ne avete scritto, essendovi molto da guadagnare sotto tutti gli aspetti, e coincide per altro nella sostanza a quanto noi ci saremmo contentati dietro le trattative con lord Minto. Epperò non siamo d’accordo in quanto al principio di promuovere la rivoluzione in Sicilia sulle promesse d’aiuti segreti, mentre questi, a mio credere, dovrebbero essere reali, positivi e palesi; senza di che non si farebbe che provocare la tanto abbommevole anarchia, e con essa il trionfo dei malvagi e l’avvilimento di tutti i buoni.»

» Dev. Affez. servo ed amico

Ruggero Settimo.»

Più tardi, nel mese di luglio, il La Farina scriveva ad un altro cospiratore, Vincenzo Cianciolo, residente a Genova, e gli diceva così:

«Carissimo Amico

» Torino, 19 Luglio 1856.

Mene unitarie in Romagna, in Toscana e a Napoli

«Vi scrivo per sollecitare, quanto è possibile, la partenza dell’amico. La ragione è, che ho da notizie positive che in Napoli si farà un tentativo importante da qui a poco. La cosa è cosi segreta, e mi è stata confidata con tante esortazioni e promesse da mia parte di silenzio, che non ne ho fatto parola neppure con Gemelli. Vi confido anche, che in Toscana il lavoro va bene, ed in Romagna benissimo. In nome di Dio adunque, mettiamo mano all’opera. Assicurate l’amico, che, se nella città dove egli va l’affare riesce, da Malta si farà un tentativo in altro luogo.

«Domani riceverete una lettera per l’amico di Messina; vi raccomando spedirla al più presto.»

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E il 3 Agosto, egualmente da Torino, scriveva allo stesso:

«…….. Le notizie che ricevo direttamente da Napoli confrontano con quelle che voi mi date, e ci farebbero sperar bene anche dalla parte dell’esercito. In Massa e Carrara Mazzini, al solito, non potendo fare, ha tentato disfare l’opera nostra. Che razza di patriottismo sia questo, io davvero noi so.»

Come si vede, Mazzini, che lavorava sempre per fare dell’Italia una repubblica, sembrava in quel momento in contraddizione con Cavour e La Farina, monarchici unitari. Si accordavano però sempre nel voler distrutti i Principati italiani onde distruggere quello della Chiesa. – Ma abbiamo ancora da dire qualche cosa circa il Congresso di Parigi.

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CAPO VII.

IL PRINCIPIO DEL NON INTERVENTO.

Ingratitudine verso Ferdinando II. 

Composte alla meglio e in fretta, siccome narrammo, le cose con la Russia, il Congresso di Parigi, che al di fuori si era mostrato più o meno scrupoloso osservatore degli altrui diritti, di dentro e, come suoi dirsi, dietro le scene, per taluni di quei Plenipotenziari, specialmente pei francesi, per gl’inglesi e pei sardi, fu un vero Club rivoluzionario, nel quale ad altro non si attese, che a diplomaticamente cospirare contro la S. Sede, e contro i governi che ne erano principali sostegni, in ispecial modo contro l’Austria e contro il Re delle Due Sicilie, Ferdinando II. – Egli, che solo nella cessata guerra si era condotto con cavalleresca lealtà verso l’amica Russia, ne veniva da lei rimeritato, dopo qualche inutile atto diplomatico, abbandonando il giovane figliuol suo Francesco II, in balia della rivoluzione, allorché si trovò oppresso dagli alleati cospiratori d’Occidente. Quale mostruoso spettacolo di egoismo e di ingratitudine! – Saremmo tentati a dire, che nel Congresso di Parigi vi furono uomini d’una arcaica buonafede, che non si accorsero di quel che si faceva sotto tavolo, se non fosse noto che i più scaltriti settari di Europa, i più famosi cospiratori sedevano in quel consesso. Quindi è, che mentre si stabiliva nell’illustre Areopago, riservandolo in petto, il principio sommamente immorale e contro natura del Non intervento (contro del quale solennemente protestava Calderon Colantes nelle Cortes Spagnuole, confessando come Napoleone III minacciasse guerra alla Spagna, se fosse intervenuta a favore del Papa), si iniziava un triplice intervento diplomatico, rivoluzionario, armato contro i pacifici Stati d’Italia e i loro governi a profitto del Piemonte; di guisa che agli amici fosse inibito d’intervenire, ai nemici lasciato pieno libito d’invadere e soggiogare a man salva.

Buon senso inglese circa il non intervento

Dicemmo cospiratori rivoluzionar! i maneggiatori del famoso Congresso; imperocché lo scopo apparentemente principale di esso fu di riconoscere ed assicurare la piena indipendenza e autorità del Turco nei propri Stati, e si combatteva intanto quella della S. Sede. Il Conte Walewski, degno ministro e plenipotenziario del Sire francese, dichiarava pomposamente in seno al Congresso che «il titolo di Figlio primogenito della Chiesa, onde si gloria» il Sovrano di Francia, fa un dovere all’Imperatore di prestare

 

 

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» aiuto e sostegno al Sovrano Pontefice»; ma ne accusava nel medesimo tempo la condizione anormale, la situation anormale,del Governo; e perché non rimanesse solo il Pontefice nell’accusa, gli veniva associato (assai onorevolmente) il Re di Napoli,al Governo del quale quei sapienti davano i soliti disinteressati avvertimenti! L’ingerenza dei proclamatori del nuovo principio di non intervento in casa altrui apparve sì impudente, che non potò fare a meno di altamente indignare ógni uomo onesto; di guisa che, nel maggio del medesimo anno 1856, discutendosi nel Parlamento inglese di ciò che si era fatto nel Congresso parigino, il Signor Sidney Herbert energicamente inveiva contro «la passione d’intromettersi negli affari degli altri paesi». E il sig. Gibson esclamava: «È veramente strano il vedere i protocolli che invitano ad intervenire negli affari di Napoli e di Roma, in quella che tali documenti si studiano di far apparire che in Turchia (dove pur si potrebbe credere aver noi qualche dritto d’intervento) ogni cosa deve emanare dalla volontà spontanea del Sultano.» E Gladstone, l’istesso Gladstone,il celebre scrittore delle Lettere Napolitane così maligne verso il Governo del Re Ferdinando, accennando al protocollo dell’8 Aprile, in uno di quei lucidi intervalli, che non mancano mai anche alle menti più pervertite, dichiarava: «Dubito grandemente della prudenza di ciò che si è fatto… È ella questione molto grave ed anzi credo sia una totale innovazione nella storia dei Congressi di pacificazione: 1. di occuparsi di simili argomenti in conferenze ufficiali; 2. di rendere di pubblica ragione le risoluzioni prese.» Quindi è che giustamente il Lamartine caratterizzava il Congresso parigino: Une déclaration de guerre sous une signature de paix, la pierre d’attente du Chaos européen; la fin du droit public en Europe!

Il non intervento intervento rivoluzionario

Il peggio si fu la ceffata data da Napoleone III a tutte indistintamente le Potenze europee, arrogandosi ei solo fra tutti il dritto d’intervenire. Il quale intervento per soprassello veniva tacitamente o espressamente consentito dai Plenipotenziarii europei, ed era tanto più poderoso e temibile in quanto che veniva ammesso dalla parte più alta, e da molti creduta più sapiente, dei vari Stati. Ma gran parte di essi, piuttosto che dei propri Governi, erano i plenipotenziari della Frammassoneria, la

quale appunto aspettava l’iniziativa dell’intervento diplomatico, per metter mano all’intervento rivoluzionario, mentre apparecchiava quello delle armi.

E l’intervento rivoluzionario scoppiò subito, e si palesò trionfante

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nelle aule dei cosidetti rappresentanti del popolo della camera di Torino, allora appunto che in quella meno corrotta dell’Inghilterra, si protestava contro la strana ingerenza consegnata nei protocolli del Congresso. Infatti, fin dal 7 di Maggio 1856, il Deputato Lorenzo Valerio diceva: «Le nostre parole, le parole del sig. Presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre, non istaranuo sicuramente chiuse in questo recinto, o serrate nei confini che segna il Ticino..» Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi; e l’audacia e il coraggio, che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d’Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire. (Atti uff. N. 257).

Ciò fu cosi vero, ohe non andò guari e nel Luglio del medesimo anno 1856 si scuoprivano a Novara e altrove casse di filetti, di stili e di cartuccie; e la notte del 25 dello stesso mese si tentava una invasione rivoluzionaria in Massa e Carrara, mentre si mandavano emissarii a Firenze, a Napoli e a Roma. Nella nota indirizzata dai Plenipotenziarii sardi a Lord Clarendon e al Conte Walewski, il 16 Aprile 1856, non appena terminato il Congresso di Parigi, essi scrivevano: «La Sardaigne est le seul État de l’Italie qui ait pu élever une barrière infranchissable d l’esprit révolutionnaire.» Vale a dire, la rivoluzione è da pertutto in Italia, fuorché in Sardegna! – Ed era vero; conciossiachè, essendo il Governo sardo l’istessa rivoluzione personificata, gli altri Stati italiani, non rivoluzionarii, erano una permanente rivoluzione contro la rivoluzione, in quell’istesso modo che la proprietà pel ladro è un furto!…. Quindi è che il deputato Buffa, facendo eco alla citata nota, affermava: «Le condizioni dei varii popoli italiani sono più o meno intollerabili, ma tutte infelici. Ad essi è negata non solo ogni libertà, ma anche quella stessa larghezza, che gli stessi Governi assoluti oggidì, purché civili, non sogliono negare…… Tutto questo non fa che alimentare lo spirito di rivoluzione, che, sorgendo la occasione, può diventare un gran pericolo, come per l’Europa intera, così più specialmente per noi… Lo spirito rivoluzionario si manifesta e si svolge in tutti i paesi dove sono stanziate le milizie austriache.» Né si dica che il Governo sardo dissentisse dai suoi Deputati; che anzi ne approvava altamente le parole, alle quali era sollecito di dare la maggiore diffusione.

«Tutti ricordano, scriveva a quei giorni l’Italia e Popolo (30 Luglio 1856 ) come, all’epoca della memoranda discussione parlamentare, il Governo sardo, a far divampare il fuoco latente

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Dichiarazioni della Gazzetta austriaca e del Dritto.

nelle altre provincie d’Italia, facesse stampare i discorsi di Cavour e di Buffa, e li diffondesse a migliaia di copie nei Ducati, nelle Romagne, nel Lombardo-Veneto, a Napoli e in Sicilia.»

È inutile di notare dopo di ciò quanto a ragione la Gazzetta austriaca, parlando della succitata Nota, scrivesse: «La nota del 16 di Aprile, sottoscritta dal Conte di Cavour e dal Marchese di Villamarina, è un appello alla rivolta!» Il Diritto,giornale non punto sospetto, conveniva perfettamente colla Gazzetta austriaca, e nel suo numero 126, dei 28 Maggio, diceva: «La conseguenza è quella che ne trae la Gazzetta austriaca; perocché dire ad un popolo, come l’italiano, ancora di vita gagliarda e indomita:» – i tuoi patimenti sono senza nome, i tuoi oppressori senza umanità, né v’ha chi possa toglierti di dosso il giogo, colpa la perfidia. dell’Austria, – vuoi significare che lo si incita a disperati tentativi, che la legge della propria conservazione consiglia e suggerisce un tenace amore alle proprie tradizioni; vuoi significare in fine, che gli si addita qual’ è l’antico, l’inconciliabile avversario di ogni suo bene – l’Austria – e gli si dice: – insorgi contro essa! – Parliamo francamente, è un VERO APPELLO ALLA RIVOLTA.»

I cento cannoni per Alessandria

Apprensioni dei conservatori inglesi.

Intanto vennero fuori le offerte per i cento cannoni di Alessandria, ideate, diceva l’Armonia di quel tempo, apparentemente dalla Gazzetta del Popolo di Torino; ma favorite dalla Gazzetta piemontese, per mettere in rivoluzione l’Italia. Quindi le spedizioni di filibustieri partite dagli Stati di Sardegna per gli altri Stati d’Italia; quindi il Barone Bentivegna, che, presa la imbeccata a Torino, sbarca in Sicilia; e Pisacane, che da Genova va a Salerno; e il regicida Agesilao Milano, che trova protettori e panegiristi in Piemonte; e i Diplomatici sardi, che abusano a Firenze, a Napoli, a Roma e negli altri Stati italiani della propria inviolabilità, per cospirare e proteggere i cospiratori, e si servono della salvaguardia del diritto sacro delle genti per trascinarlo con le loro persone e il loro governo nel fango.

Aggiungi a questo l’epistolario del famoso Daniele Manin che impunemente dice in Piemonte agli Italiani: «Agitatevi ed agitate; l’agitazione non è propriamente l’insurrezione, ma la precede e la prepara.» Sommate queste ed altre molte simili circostanze, che sarebbe soverchio di qui arrecare, e di leggieri potevasi prevedere quali sarebbero per essere le conseguenze del famoso Congresso. E desse in fatti apparvero fin da principio così palesi, che gli stessi fautori più caldi della rivoluzione italiana non tardarono ad esserne impensieriti e spaventati. Di fatti avendo chiesto il Piemonte all’Inghilterra,

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Apprensioni di Napoleone III

poco dopo il Congresso, vari milioni, e i conservatori inglesi, forte temendo che il Piemonte se ne servisse per mettere a soqquadro l’Italia, Lord Palmerston, a tranquillizzare gli animi in Parlamento, ebbe a pronunziare importanti parole che il Daily News, nel Giugno 1856, compendiava cosi: «Lunedì scorso Lord Palmerston dichiarò cortesemente al Rappresentante di Pio IX e del Re di Napoli, nella Camera dei Comuni, che il progetto di legge sull’imprestito sardo non era introdotto per dare a quel Governo i mezzi di rivoluzionare l’Italia. Lord Palmerston accompagnò tale dichiarazione con una avvertenza, sulla quale i liberali inglesi hanno diritto di chiedere, alla loro volta, qualche schiarimento. Disse Lord Palmerston, che il Governo di Sua Maestà era bensì desideroso di sostenere il Governo sardo in quel procedimento illuminato e liberale, che ha tenuto finora in modo così onorevole: ma che se avesse da accadere, ciò che per ora non è, che il Governo sardo fosse animato da progetti di aggressione, il Governo inglese farebbe uso di tutta la sua influenza per distoglierlo da una tale condotta.

Furono queste parole, non v’ ha dubbio, come acqua gettata sul fuoco; ma in così scarsa quantità, che quello ebbe a divampare viemmaggiormente. Ciò si vide in fatti nello imperversare che fece più che mai l’agitamento settario in tutta la Penisola, non solo, ma benanco in Francia. Di che scosso Bonaparte, volle dare indietro dal fatale cammino, a propria salvezza; ma non fu più in tempo, o, per dir meglio, non gli bastò il coraggio, tosto che si vide fatto segno al pugnale della setta alla quale lo legavano antichi giuramenti.

Entra in scena Garibaldi

Il Governo subalpino intanto, mentre chiedeva danaro all’Inghilterra, e Palmerston rassicurava alla meglio i conservatori inglesi perché glie ne dessero, col solito giuoco scatenava il suo can da leva, Garibaldi, ad agitare le tranquille contrade della Lombardia e dei Ducati, destinati pei primi a saziare le ingorde brame della Frammassoneria. Quindi è, che il famoso eroe, che già aveva posta sua stanza nell’Isola di Caprera, ad un tratto si disse malato, e il 9 di Luglio del medesimo anno 1856 recavasi a Voltaggio, per una sua cura idropatica, che però non durava se non cinque giorni. E qui applausi, ovazioni, serenate, con tutto quel corredo di clamorose dimostrazioni che segnano un punto di partenza a settari intendimenti. L’animo dell’agitatore, già s’intende, non fu insensibile a quelle spontanee e cordiali manifestazioni, e con un suo pistolotto, dal quale traspariva tutto un programma, ringraziava

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subito i cittadini di Voltaggio, mentre eccitava quelli delle contrade più direttamente prese di mira dai gerofanti della setta.

Lettera di quei di Voltaggio

«Accenti di musica deliziosa, scriveva il Garibaldi, bearono ia questa notte gli abitatori di questo Stabilimento, e mi venne detto che i cittadini di Voltaggio vollero in me onorare il principio italiano.

«Io accetto, intenerito e riconoscente, quest’omaggio d’un popolo benemerito, ed auguro da queste e da altre non equivoche manifestazioni la prossima liberazione del nostro paese. Sì ì giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compire il sublime concetto di Dio, emanato nell’anima dei nostri grandi di tutte le epoche, l’unificazione del gran popolo, che diede al mondo gli Archimedi, i Scipioni, i Filiberti. – A voi guardiani delle Alpi viene commessa oggi la sacra missione; non vi è popolo della Penisola che non vi guardi e che non palpiti alla vostra guerriera tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia,

– Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l’abituro dei vostri fratelli, ha la paura e la morte nell’anima.

«Gl’Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al glorioso vessillo che vi regge, e io, giubilante di compiere il mio voto all’Italia, potrò, Dio ne sia benedetto, darle questo resto di vita.

«Dallo Stabilimento idroterapico dei Sigg. Alsaldo e Romanengo,

«Giuseppe Garibaldi.»

Come il lettore vede, il Nizzardo si ricordava tuttora di Dio: l’ipocrisia era ancora utile in quel tempo agli scaltriti intendimenti di chi il mandava.

Tentativo di Massa e Carrara.

Arrivato il 9, Garibaldi partiva il 15 da Voltaggio: in cinque giorni era bello e guarito, e pronto a nuove prodezze! La malattia non era stata seria…. Per via, nuove ovazioni, nuove dimostrazioni, nuovi applausi; fu un’andata e un ritorno trionfale! Il fuoco della ribellione ne aveva nuova esca, l’agitazione cresceva nei bassi fondi del popolo e, con essa, il malessere e il sospetto tra gli Stati vicini.

Cosa là si facesse in segreto dal Garibaldi non ci è noto; ma noti sono pur troppo i proclami incendiarii messi fuori a Napoli e a Roma, e il fallito tentativo di rivolta a Massa e Carrara, nel l’istesso mese di Luglio: circa il quale il Risorgimento dichiarò: – le popolazioni non aver punto aderito alla insurrezione. – Ma non monta; se fosse riuscito il tentativo si sarebbe usufruttato; fallito, se ne riversò la colpa sull’Austria: fu detto opera di agenti austriaci, per attaccar briga coll’innocente Governo sardo!

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Il citato Risorgimento però questa Tolta era sincero, e confessava essere quel tentativo conseguenza legittima della politica piemontese. «L’Italia 8’ha da liberare, diceva quel diario repubblicano; solo modo una buona rivoluzione interna aiutata dal Piemonte.» Ma La Farina ci ha già detto di chi fosse opera quel tentativo.

E L’Armonia (sebbene volesse tenere scevra da colpa la diplomazia europea) raccoglieva accortamente le fila, e notava: 1° L’attentato di Carrara e Massa fu una conseguenza della politica e delle esortazioni del Ministero piemontese. 2!° Mazzini e Cavour non si possono ornai distinguere nel volere una rivoluzione in Italia, perché svanite le speranze nella Diplomazia, debbono convenire amendue nella necessità d’una rivolta. 3° I giornali ministeriali sono necessariamente infinti nel disapprovare l’ultimo tentativo. 4° La sede della rivoluzione non è che in Piemonte, e solo dal Piemonte partono gli eccitamenti alla rivolta. 5° Le popolazioni anche più guaste della Penisola (come appunto quelle di Massa e Carrara) guardano i mestatori che cercano di levarle a tumulto, e non corrispondono ai tentativi. 6° Quanto i Plenipotenziari sardi hanno asserito nel Congresso di Parigi è solennemente smentito dai fatti.

Significato dei cento cannoni di Alessandria

Ma abbiamo accennato ai cento cannoni per la fortezza di Alessandria: parve questa una proposta patriottica e nulla più; i pure è un fatto dei più scaltriti immaginato dalla setta. «Alessandria, gridava la Gazzetta del Popolo, per ora, è come la parola d’ordine per gl’Italiani, è il simbolo dell’unione.» Ma era assai di più. Il 26 di Luglio 1856 quel giornale recava la seguente lettera:

«Amico.

» Susa, 23 Luglio 1856.

«Un’idea mi è venuta per la testa, mio caro Govean; locchè prova due cose: e che ho una testa, e che ho delle idee! Dite un pò: a quel modo che si è aperta una sottoscrizione per un ricordo alle nostre truppe in Crimea, non si potrebbe egli aprirne un’altra per sussidiare il Governo nella santa opera di fortificare Alessandria? Come vedete, lo scopo è lo stesso, trattandosi anche qui? non tanto di spremere ingenti somme dalle tasche degli oblatori, quanto di dimostrare a chi di ragione che l’idea del Generale Lamarmora ha un’eco nella Nazione tutta quanta, e in altri siti. Trattasi insomma di far cicare l’Austria. Ora figuratevi quanto non cicherà essa, quando veda che non solo il Piemonte, ma l’Italia tutta, ma le lontane Americhe, ed ogni popolo incivilito portino la loro pietra a questo sacrosanto edificio? Oh! provate vi dico, che sarà un bel ridere.

«Tutto vostro,

«N. Rosa.»

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Questa lettera, passata per molti inosservata in quel momento, è una preziosa rivelazione: uno dei più importanti uomini di Stato e di guerra, il Lamarmora, era il proponente di quell’idea, non già per aiutare il Governo, ma per dimostrare a chi di ragione, vale a dire ai Potentati europei, che quella proposta aveva eco non solo nella Nazione, ma ancora in altri siti; vale a dire, che si voleva ottenere una dimostrazione universale a favore dell’Unità italiana, voluta dalle società segrete, e ciò per impegnare contro l’Austria non solo l’Italia e l’Europa, ma le lontane Americhe e ogni popolo civile.

La Rivoluzione italiana cessava a mano a mano di essere cosa locale; diveniva invece cosa cosmopolita e universale, in ordine allo scopo della Frammassoneria, la distruzione cioè del Papato.

Insomma il Congresso di Parigi e la pace che vi si era conclusa non erano che una crudele menzogna. I giornali tutti della rivoluzione, mentre da principio si mostrarono scontenti di quella pace, che ai meno addentro delle segrete cose parve troncare a mezzo il filo delle loro speranze di una totale disfatta della Russia, Potenza fino allora sommamente avversa alla rivoluzione europea, presto si consolarono come videro rotto il ghiaccio della Questione italiana, secondo affermava lo stesso Eco della Borsa; e l’Austria, non meno che gli Stati italiani e Roma, fatti segno palesemente agli attacchi della Diplomazia europea. Perciò gli atti e i discorsi del Parlamento e del Senato di Torino, nei quali si erano pienamente svolte queste cose, erano stampati e sparsi a miriadi di copie per ogni dove, e, come aveva dichiarato Massimo d’Azeglio in pubblico Parlamento, attraversavano tutti i confini, deludevano tutte le Polizie, erano letti in tutti i paesi. La rivoluzione italiana, protetta ormai dai Governi europei, diveniva torrente irresistibile e desolatore, cui non poteva più far argine che il braccio onnipotente di Dio.

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fonte

eleaml.org

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