Alta Terra di Lavoro

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PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (ventesima parte)

Posted by on Mar 12, 2018

PAOLO MENCACCI. UNO SGUARDO ALLA RIVOLUZIONE ITALIANA (ventesima parte)

LIBRO II

CAPO I.

La Società Nazionale.

Origine della Nazionale italiana.

Approfittandosi del breve periodo di calma che succedette alla guerra di Crimea, tra l’universale desiderio di pace, imperversava Cavour viemmeglio nei suoi intrighi e nelle sue cospirazioni con gli irrequieti nemici dell’altare e del trono, per i quali il riposo, la quiete e l’ordine sono supplizio. Egli con paterna sollecitudine da tutte le parti li raccoglieva intorno a so a Torino, ed anzi, a più efficacemente cospirare, appunto in quell’epoca l’egregio Conte si ascriveva alla Società nazionale italiana, fondata in Torino nel 1856 da Daniele Manin e da Giorgio Pallavicino Trivulzio. Garibaldi vi appartenne tra i primi, e l’emigrato napolitano Francesco Carrano, a pagine 167 e 169 del suo Racconto popolare, preceduto da alcuni cenni biografici sul medesimo Garibaldi (Torino, Unione tipografico editrice 1860) non solo reca la lettera di costui, colla quale ai 5 di luglio del medesimo anno 1856 si ascrive alla Società nazionale, ma porta il testo di quattro articoli organici di codesta Società, concepiti così:

Articoli organici della società

«1° Che intende anteporre ad ogni predilezione di forma politica, e di interesse municipale e provinciale, il gran principio della indipendenza ed unificazione d’Italia;

«2° Che sarà per la Casa di Savoja, finché la Casa di Savoja sarà per l’Italia, in tutta l’estensione del ragionevole e del possibile;

«3° Che non predilige tale o tale altro Ministero sardo, ma sarà per tutti quei ministeri, che promuoveranno la causa italiana, e si terrà estranea ad ogni questione interna e piemontese;

«4° Che crede esser necessaria alla indipendenza ed unificazione d’Italia l’azione popolare italiana; utile a questa il concorso governativo piemontese.»

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Il Carrano aggiunge che il Ministro Cavour, «che andava preparando le vie agli avvenimenti, dei quali siamo testimoni e attori, prese a proteggere, e quasi a governare la Società nazionale italiana. L’uno e l’altra per vero trovarono agevole l’opera loro pel fatto egregio del Re Vittorio Emmanuele, il quale da dieci anni tenendo alta e intemerata la bandiera italiana, e con lealtà rara, anzi unica, mantenendo incolumi nel suo Regno le franchigie concedute dal padre suo, prode e infelice, forte agognava di poter di nuovo sguainare la spada…»

Il Governo Governo piemontese alla testa della società nazionale italiana

Il Governo Governo piemontese infatti con alla testa il suo primo e più influente ministro, unito alla nuova setta, congiurava ormai a viso aperto contro tutti indistintamente i Principi d’Italia. E il Conte di Cavour fu in breve il vero capo e l’anima della nuova Società, avvegnaché altri figurasse come tale; quindi non curando né diplomazia, né riguardi ad amiche Potenze, cospirava e andava innanzi. Ma poiché l’origine della Società Nazionale è un punto saliente della nostra raccolta citiamo un brano della Storia Italiana dal 1814 al 1866 del Belviglieri, storico liberale, che ci darà maggior lume in proposito:

Daniele Manin e la società nazionale

«… Le proteste di Cavour, al Congresso e nel Parlamento, scrive il Belviglieri, indicavano al popolo italiano la insegna intorno alla quale doveva rannodarsi, ed a ciò contribuirono potentemente il consiglio e l’opera d’illustri patriotti, in passato propugnatori di Repubblica, primissimo dei quali Daniele Manin. Caduta Venezia(1849), egli si era stabilito a Parigi, dove conduceva vita illibata,poveramente facendo il maestro: bellissimo esempio e solenne rimprovero a parecchi, i quali offuscarono con vanti indecorosi il merito delle cose o fatte o sofferte per la patria, e mendicando ed adunghiando indecorose mercedi…….. Egli dall’ampio orizzonte politico di Parigi ben vide e comprese, come, nelle condizioni in che trovavasi, e, secondo ogni verisimiglianza, sarebbesi per gran tempo trovata l’Europa, fosse vano e pernicioso pensare a repubbliche, e come d’altro canto senza forte unità fosse impossibile all’Italia (vale a dire ai settori d’Italia) conquistare e mantenere la sospirata indipendenza; e, sebbene affranto dai dolori, si diede con alacrità giovanile a sviluppare questo concetto con varii scritti su effemeridi nazionali e straniere, sforzandosi di persuaderne le frazioni, nelle quali scindevansi i liberali d’Italia. Né egli veramente aveva atteso il Congresso di Parigi; ma ponderata tutta la importanza della spedizione piemontese nella Crimea, fino dal 6 gennaio (1856) aveva pubblicato una lettera, allo intento di concretare un grande partito nazionale.

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Lettera programma di Manin e

«Sia (diceva in quella lettera) la iscrizione della bandiera nazionale: Indipendenza, unificazione. Ho proposto questa formola, ho mostrato questa bandiera, ho invitato a schierarsi intorno tutti i sinceri patriotti italiani; ed ho motivo di credere che lo invito non sia rimasto senza frutto. Al di fuori del partito puro piemontese, e del partito puro mazziniano, v’è la grande maggioranza dei patriotti italiani. Questa per diventare grande partito nazionale, ed assorbire gli altri, aveva bisogno d’una bandiera propria, che ne esprimesse rettamente le aspirazioni. Essa ora esiste. II partito nazionale dovrebbe costituirsi sotto l’influenza d’una idea di conciliazione, d’unione, di concordia, al di fuori dei partiti che rappresentano idee di disunione e di discordia. Il partito nazionale comprenderebbe patriotti realisti e repubblicani; vincoli d’amore e di concordia fra loro sarebbero la comunione dello scopo, e la risoluzione di sagrificare le loro predilezioni di forma politica, in quanto pel conseguimento di quello scopo fosse richiesto. Bisognerebbe rendere più intima questa unione, più forte questa concordia, trovando modo di fondere le due frazioni in guisa, da costituirne un tutto compatto; perciò si esigerebbero concessioni reciproche,» dalle quali potesse risultare un accordo. Nel rinvenire i termini» di questo compromesso sta il vero nodo della quistione, ed a scioglierlo devono pensare tutti i veri amici d’Italia. Io per una» parte ho proposto una soluzione. Il Piemonte è una grande forza nazionale. Molti se ne rallegrano come d’un bene, alcuni lo deplorano come un male; nessuno può negare che sia un fatto. Ora i fatti non possono dall’uomo politico essere negletti; egli deve constatarli e trame profitto. Rendersi ostile, o ridurre inoperosa questa forza nazionale nella lotta per la emancipazione italiana, sarebbe follia. Ma è un fatto che il Piemonte è monarchico; è adunque necessario che all’idea monarchica sia fatta una concessione, la quale potrebbe avere per correspettivo una convalidazione dell’idea unificatrice… Il partito nazionale, a mio avviso, dovrebbe dire: Accetto la monarchia, purché sia unitaria; accetto la casa di Savoia, purché concorra lealmente ed efficacemente a fare l’Italia, a renderla indipendente ed una, e se no, no.... Bisogna pensare a far l’Italia, e non la repubblica; a far l’Italia non ad ingrandire il Piemonte. L’Italia col Re sardo: ecco il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque vuole che l’Italia sia, e l’Italia sarà.

Così, nota il Belviglieri, nel modo più solenne e preciso, veniva alla nazione (che non se ne occupava punto) enunziato il concetto, nel quale,

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dopo i casi del 6 Febbraio, avevano intravveduto salvezza parecchi repubblicani, Saliceti, Montanelli e Lafarina, che sino d’allora accontatisi, deplorando le fraterne discordie, proponevano di secondare quel Governo, qualunque ei fosse, che prendesse a propugnare l’indipendenza e l’unione d’Italia in un sol regno (programma 9 aprile 1853). E dietro gli accennati, altri moltissimi intatta riputazione tra i democratici, e grandissima parte dei costituzionali aderirono al programma dell’antico dittatore di Venezia. Così l’avessero fatto sinceramente quanti avevano dedicato pensiero e braccio alla patria! quante forze morali e materiali non si sarebbero più tardi logorate in perniciosi ed imprecati conflitti!» (1) – Fin qui il Belviglieri.

Origine delle relazioni del La Farina con Cavour

Ma, poiché abbiamo nominato il La Farina, è da recare la seguente lettera di lui al Cavour, che stabilisce il punto di partenza delle relazioni di costui col famoso Ministro piemontese; relazioni, che tanta parte ebbero poi nella invasione di Sicilia.

Ecco la lettera:

«Riveritissimo signor Conte,

So che è grande indiscrezione usurpare il tempo d’un Ministro occupato in tante faccende, con lettere private; e io davvero che non vorrei passare per indiscreto presso la S. V., ma il caso mio parmi possa e debba fare eccezione alla regola. Dalle conversazioni che ho spesso coll’ottimo cavaliere Castelli è nata in me la convinzione, che il ministero reputi l’avvenimento di Murat al trono di Napoli come cosa utile al Piemonte ed all’Italia. Noi abbiamo opinione contraria, e lavoriamo a far sì che la futura rivoluzione delle Due Sicilie sia fatta al grido di: Viva Vittorio Emmanuele! Non è qui il caso di discutere quale delle due opinioni sia la più utile, la più onorevole, e la più agevolmente traducibile in fatto. Noi crediamo la nostra. Ora noi non chiediamo ai governo piemontese aiuti palesi, perché sappiamo che non, può darne; non chiediamo aiuti segreti, perché sappiamo che non vuoi darne; non gli chiediamo alcuna dichiarazione ne pubblica, né privata, e rispettiamo le sue determinazioni; ma ciò che chiediamo si è, che o non dia alcun favore alla parte murattiana, o che ci avverta. Ella, signor Conte, nella sua alta intelligenza comprenderà benissimo, che la nostra posizione non è più tenibile nel caso che il governo piemontese si mettesse più o meno apertamente dalla parte di Murat: essa diventerebbe per lo meno ridicola, e non può essere accettata da un uomo che si rispetta. Noi stiamo

(1) Collana dì Storie e memorie contemporanee diretta da Cesare Canta. Storia d’Italia dal 1814 al 1866 di Carlo Belviglieri. Milano, Corona e Caimi editori, 1870.

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facendo dei gravissimi sacriflzi, e stiamo compromettendo le persone che ci sono più care; non vogliamo avere il rimorso di spingere gente al patibolo, col dubbio che la loro opera sia contrariata da quelli stessi in prò de9 quali cospiriamo. Io mi rivolgo quindi alla S. V. come al Conte di Cavour, e le chiedo ch’ella lealmente voglia dirmi: – Noi non contrarieremo, e non daremo favore al Principe Murat; ovvero il contrario. – In questo caso a me personalmente non rimarrebbe che un favore da chiederle, quello di un passaporto per Parigi.

«Mi rivolgo ad un cavaliere, fo appello alla sua lealtà, e sono persuasoche riceverò risposta quale da un cavaliere si deve attendere.»

Ausonio Franchi, ossia il raccoglitore dell’Epistolario del La Farina, aggiunge in nota:

«Manca la data nella minuta; ma essa rilevasi dal biglietto seguente, che fu la risposta di Cavour, fissò il primo abboccamento segreto fra loro, e diede origine a quella nobile amicizia, che unì per il rimanente della vita le anime loro ed ebbe tanta parte nel maturare l’impresa dell’indipendenza ed unità d’Italia.»

Torino, 11 Settembre 1856.

«Il conte di Cavour prega il Signor Giuseppe La Farina di «volerlo onorare di una visita domani, 12 settembre, in casa sua, «Via dell’Arcivescovado, alle ore 6 del mattino; e gli presenta «nel tempo stesso i suoi complimenti.»

In mezzo a queste cose, a migliaia diffondevansi i manifesti e i proclami rivoluzionari dal Piemonte negli Stati vicini. Valga per tutti il seguente, che traccia il disegno delle annessioni.

«Italiani!

Proclama della società nazionale. Disegno della futura rivoluzione

«Quale sarà la nostra condotta? quali saranno i nostri atti, appena i popoli italiani si agiteranno e chiederanno un’Italia, affinché questa non rimanga, come nel 1848, una sublime aspirazione, ma diventi subito un ente politico pubblico, pieno di vita? Al primo movimento, (e lo supponiamo serio, non una magnanima follia, come ai 6 febbraio 1853) alla prima insurrezione dei popoli italiani, sorgendo per domandare il Regno d’Italia con la dinastia Sabauda e lo Statuto sardo, un solo sarà il grido, nel Piemonte del Parlamento e dell’armata: essi acclameranno l’Italia, e da quel momento essa avrà un’ esistenza ed una vita politica. Come sorgerà allora un’ autorità che non sia né piemontese, né lombarda, né veneta, né toscana, né siciliana; ma italiana?

 

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Con la trasformazione del Parlamentò piemontese in Parlamento italiano. Che farà il Parlamento italiano?

«Dopo aver poste alcune condizioni ed aver domandate e ottenute alcune garanzie, il Parlamento italiano investirà il Re della Dittatura durante la guerra dell’Indipendenza. – Che farà il Re Dittatore? Egli ci unificherà, dicendo: – Popoli italiani, unitevi intorno a me, obbedite ai Commissari che io vi spedisco per armarvi Fate che le vostre legioni accorrano da tutte le parti per ingrossare la mia Armata, che non è più l’armata piemontese, ma italiana. Io sono con vol. Oggi la opinione pubblica ci è favorevole, è dunque il momento opportuno; facciamo in modo da profittarne, recandoci insieme sul terreno dell’azione. Non ci diamo pensiero della diplomazia, più di quanto occorre. La diplomazia ci schiaccerà sotto i suoi piedi senza misericordia, se noi avessimo la sventura di non riuscire, come nel 184849. Tifa appena il Re di Sardegna si mostri sulle Alpi, alla testa di 500 mila combattenti, la diplomazia, malgrado delle sue ripugnanze, si affretterà a riconoscere il fatto compiuto. Non ci facciamo illusioni; la questione italiana è una questione di giustizia innanzi al tribunale di Dio, e una questione di forza, unicamente di forza, innanzi al tribunale degli uomini»

Questo manifesto, sparso in Italia nel 1857, è letteralmente il disegno attuato nel 1859 e 1860, è. la traccia del proclama di Vittorio Emanuele ai popoli italiani all’incominciare della guerra di Lombardia. Tutto è verificato co’ fatti posteriori.

Del resto lasciamo stare la questione di giustizia innanzi al tribunale di Dio, che condanna sempre l’empietà e la perfidia; la questione di forza, unicamente di forza, innanzi al tribunale degli uomini, fu la sola esistente nella cosiddetta questione italiana, facilmente sciolta per opera delle armi di Napoleone III e delle arti delle società segrete, coadiuvate dal Governo Inglese. Il programma finge di temere di restare schiacciati dalla diplomazia e di esser posti sotto i suoi piedi senza misericordia; ma il lettore sa ormai a ohe attenersi su questo proposito, rammentando la lettera di Gaetano, segretario intimo di Metternich, e ad un tempo capo frammassone a Vienna (1). Era l’esercito austriaco vincitore a Novara, quello che si temeva, e che a vincerlo faceva d’uopo un altro esercito, se non più valoroso, almeno più forte di esso.

(1) V. le presenti Memorie; Dispetto primi «Uno sguardo alla rivoluzione italiana» pag. 51 e 42.

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Certa cosa è, e lo provano innumerevoli irrefragabili documenti, che i Governi della Penisola avrebbero avuto bisogno di un’energia sovrumana, e di precauzioni presso che impossibili, per difeuJoioi dagli insidiosi moltiformi continui attacchi della setta anticristiana, che allo spensierato popolo faceva brillare le parole speciose di indipendenza e di nazionalità, che sconciamente orpellavano quelle di prepotenza e di annessione. La Società degli Unitarii era infatti tra le sètte segrete la più numerosa, meglio protetta e meglio pagata per acclamare ed applaudire: era la clique di Lord Minto, (espressione di Lord Normanby nel suo libro: Le Cabinet anglais, l’Italie et le Congrès).

Programma della società nazionale.

Intanto i violenti conati rivoluzionar! che presero a prodursi in quest’epoca, e che gettavano il malessere e lo sgomento in ogni cuore non avvezzo a guardare in faccia alla rivoluzione, parvero nati fatti per ottenere buona accoglienza al nuovo programma di Associazione nazionale «messo fuori, dice il Coppi (Annali d’Italia), da alcuni moderati, fra i quali Giuseppe La Farina, e favorito dagli emissari piemontesi, in virtù del quale, si pretese di unire in un sol fascio tutti gli amatori di novità e tutti quei rivoluzionari dal cuore piccino, che rifuggivano da scosse violente.» Quindi nel mese di Agosto del 1857 veniva pubblicato il seguente programma:

«Indipendenza, unificazione!

«Nell’intento di propagare le dottrine politiche del partito nazionale italiano, ed usando della libertà guarentita dallo Statuto piemontese, noi v’invitiamo a far parte della Società da noi fondata. Entrando in essa, voi assumete l’obbligo morale di propagare, nei limiti della vostra possibilità, e coi modi che reputerete convenienti, le dottrine che costituiscono il nostro credito politico, e massime queste: – che ogni predilezione di forma politica ed ogni interesse municipale o provinciale deve posporsi al gran principio della indipendenza ed unificazione italiana; e che il partito nazionale deve far causa comune colla Casa di Savoja, finché la Casa di Savoja sarà per l’Italia in tutta la estensione del ragionevole e del possibile, come la nostra Società ha fiducia che sia. –

«La nostra Società è stata fondata a fine di dare legame di unità, e quindi potenza operativa, agli sforzi dei buoni, i quali si perdono ed isteriliscono nell’isolamento; e l’adesione di uomini autorevolissimi per virtù cittadine, per provato e operoso amore

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di libertà, per ingegno, riputazione e aderenze, ci da ragione di bene sperare, che l’opera nostra non sia per riuscire inefficace a pro’ della patria comune, oppressa da tirannide nostrale e forestiera, ed insanguinata da tumulti impotenti.

«Come la famosa lega contro la legge sui cereali, che ebbe umili principi e partorì sì salutari effetti in Inghilterra, noi intendiamo colle parole, cogli studi, cogli scritti, con le adunanze, con le personali aderenze e con tutti gli onesti mezzi, dei quali possiamo disporre, di propagare quei principi, nei quali, secondo noi, è riposta la salute della comune patria italiana.»

Si stabilì che ogni socio pagasse una lira mensile per le spese di stampa, e si determinarono altre cose conformi agl’intendimenti dei cosiddetti moderati; al successivo svolgersi degli avvenimenti si lasciò di fare il resto.

I comitati nazionali e i rappresentanti sardi cospiratori

Comitati Nazionali, aggiunge il De Volo, avevano ad istituirsi in pressoché tutte le italiane città. Comitati centrali nelle capitali dei vari Stati d’Italia; e quindi furono essi sollecitamente istituiti prima a Parma, poi a Firenze, a Modena, a Milano, a Roma, ed a Napoli. Dovunque erano costituite Legazioni sarde, calpestando orrendamente il diritto delle genti, immedesimavansi queste coi suddetti Comitati centrali e convertivansi in ridotti di facinorosi contro la stabilità dei Governi presso i quali erano accreditate. E questo ufficio non sdegnarono di adempierlo un Migliorati a Roma, un Groppello a Napoli, un Boncompagni a Firenze, a Modena, a Parma. Le stampe sovversive, le corrispondenze sediziose, le delazioni traditrici garantite dall’inviolabilità dei suggelli officiali, penetravano dovunque e riedevano al Comitato direttore….

Francesco V alla sua volta era troppo leale per immaginare anche solo che l’ufficio di Ministro potesse in modo cotanto indegno essere abusato, né avrebbe spinto la sua sfiducia del sistema costituzionale sino a credere che potesse andarne assoluto quel capo dello stato, il quale tollerasse fra’ suoi consiglieri responsabili uomini capaci di azioni così disoneste. Esso però aveva attentamente seguita la parte palese del contegno dei reggitori subalpini prima e dopo la guerra di Crimea, durante e dopo il Congresso di Parigi, ed erasi formato un criterio esatto e giusto su tutto quanto ormai preparavasi per un non lontano avvenire (1).

(1) Bayard de Volo. – Vita di Francesco V, Duca di Modena. (18191875.) Tom. II, Parte I. Modena Tipograf dell’Immacolata Concezione.

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Chiudiamo questo capitolo riassumendo una importante corrispondenza alla Civiltà Cattolica di quell’epoca.

Agitatevi ed agitate e l’epistolario di Manin

In mezzo allo agitarsi degli uomini e dei partiti, v’è detto, giunta Agitatevi la state del 1856, in Piemonte tace il Parlamento, ma continua a parlare Daniele Manin già dittatore della Venezia, il quale da Parigi scriveva lettere sopra lettere a un suo caro Valerio, e questi le pubblicava nel giornale Il Diritto. Assunto primario del Manin come abbiamo veduto, era di mettere d’accordo i libertini italiani e conciliare i repubblicani coi monarchici. Egli non voleva scegliere tra monarchia e repubblica; ma caldamente si raccomandava perché si lasciasse ora in disparte tale» questione, e il partito nazionale si unisse in un pensiero solo: l’Unificazione d’Italia; Vittorio Emanuele II re d’Italia. – Faceva grazia il Manin alla monarchia piemontese «perché essa non ha fatto concessione alcuna ai perpetui nemici d’Italia: l’Austria ed il Papa», come egli scriveva addì 11 di Maggio. Sperava che le sarebbe impossibile retrocedere, facile progredire. Laonde gridava agli italiani in altra sua lettera dei 13 Maggio: AGITATEVI ED AGITATE; parole che andarono fatalmente celebri, perché furono il motto d’ordine per la ruina d’Italia. «L’agitazione non é propriamente l’insurrezione, scriveva Manin, ma la precede e la prepara… Molesta il nemico con migliaia di punture di spillo, prima che sia trafitto con le larghe ferite della spada. (Diritto N. 125.) Il 28 di Maggio ritornava a scrivere: «La rivoluzione in Italia è possibile, forse vicina;» e diceva ai Romani: «Finché c’è guarnigione francese in Roma, Roma non deve insorgere.» E il giorno dopo scriveva un’ altra lettera per raccomandare «l’unanime consentimento nella forma razionale – Indipendenza ed unificazione, – e nella presente sua pratica applicazione: – Vittorio Emanuele Re d’Italia.»

Tutte queste lettere facevano ridere allora i Piemontesi assennati, e gli stessi giornali libertini sembravano volgere in ridicolo e Manin e il caro Valerio; ma era tema di non riuscita, se non tattica settaria. L’assassinio politico però non entrava nel programma di Manin. Una lettera sua contro quell’abbominevole ferocia gli valse la collera di tutto quanto il giornalismo libertino.

Manin riprova l’assassinio politico

Il 25 di maggio l’ex-dittatore scriveva secondo il suo costume Manin al caro Valerio, che questa volta non giudicava prudente pubblicare la sua lettera. In essa diceva: «E cosa che strazia il cuore; è vergognoso il sentir ogni giorno di fatti atroci, di pugnalate, che succedono in Italia. Sono certo che la maggior parte di queste infamie si possono imputare ai vili partigiani del despotismo austro-clericale; ma possiamo noi negare

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Commenti del Times e della Gazzetta delle Alpi

che una parte di esse è perpetrata da uomini che si chiamano patrioti, e che furono pervertiti dalla teoria del pugnale? – Questa lettera giungeva in Piemonte pubblicata dai Times, che v’appiccava i suoi commenti e scrivea: commenti «in Italia èvvi il dispotismo, ma questo è migliore di nessun governo; evvi la dominazione del prete, ma questi è più clemente che il capo d’una società segreta; èvvi il potere delle baionette, ma le baionette sono ancora da preferirsi al pugnale. Uomini di stato, funzionar!, giudici, ecclesiastici perirono per la vendetta della democrazia italiana. Una tale democrazia è dessa capace di governare?» – Immagini il lettore se lettera e commenti non movessero a sdegno i libertini! Citiamo soltanto per saggio le parole della Gazzetta delle Alpi, la quale nel suo N. 135 del 7 giugno 1856 appone al Manin di aver dichiarato in cospetto dell’Europa, che «il partito cui appartenni è una mano d’assassini.» E poi soggiunge: «Il sig. Manin ci risponderà forse ch’egli non ha accusato tutti gl’italiani; ma alcuni pochi che egli crede vili partigiani del partito austro-clericale. No; noi invece gli diciamo, che fra coloro che ferirono di coltello in Italia furono uomini amanti sinceri di libertà, incorrotti di vita e di costumi.» E dopo di avere rivendicato agli uomini sinceri, amanti di libertà la proprietà degli assassinii politici, la Gazzetta delle Alpi conchiude: «Le illusioni falliscono; stava egli al Manin, a lui già capo di una repubblica risorta per opera di quegli uomini, il gettare il fango in faccia ai fratelli, il coprirli di rimproveri, il gridare al mondo: Stranieri, l’Italia è la terra degli assassini?» In tutte queste parole, come si vede, vi sono di molte e belle confessioni delle quali gli onesti faranno tesoro, e la storia darà il giudizio severo che si meritano.

Agitazioni e feste

Intanto avendo scritto Daniele Manin: agitatevi ed agitate, tosto s’idearono tra le altre cose un mondo di feste, e nel beato regno subalpino si era sempre con qualche nuova solennità politica da celebrare.

L’8 di Giugno 1856 fu festa in Genova, e si gridò evviva all’indipendenza italiana! Ai soldati reduci dalla Crimea vennero indirizzate alcune linee, che circolavano tra le loro file, e dicevano: «Ora un santo dovere vi spinge, ci spinge tutti a combattere le battaglie della patria. Affrettiamo con indomita volontà quel giorno glorioso.» Domenica 15 di Giugno fu gran festa in Torino. Il Municipio, che aveva speso nel Maggio precedente cinquantamila lire per festeggiare lo Statuto; ne spese altre cinquantamila per la nuova festa. Gli imprestiti e le imposte poi pagavano lo scotto

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– Si compera la cirala a immenso prezzo!

– cantava l’Unità di Casale, in quello chela Gazzetta del popolo si lagnava che il pane era caro! Tali le delizie della rivoluzione: scialacqui e miseria!

Nel medesimo tempo incominciava la guerra dei giornali; quelli di Piemonte giornalmente assalivano “l’Austria e la sua preponderanza in Italia, proclamandosi poi essi gli offesi; i giornali austriaci, con dignitosa fermezza, rispondevano. Dai giornali da trivio e dai semiofficiali la discussione, divenendo sempre più viva, passò ai fogli ufficiali, e il Conte Buoi ministro degli Affari Esteri dell’Impero d’Austria, ai 10 di Febbraio 1857, per mezzo del Conte Paar, Incaricato d’Affari a Torino, faceva serie rimostranze al Governo sardo. Il Conte di Cavour, sicuro sempre dell’appoggio di Francia e d’Inghilterra, rispondeva colla usitata insolenza, come chi avesse ragione da vendere; cosicché ai 16 di marzo il Conte Buol, credendo sconveniente alla dignità del Governo austriaco di lasciare a lungo, testimonio delle dimostrazioni ostili del Governo piemontese, il suo rappresentante, lo richiamava a Vienna. Il Governo sardo faceva altrettanto del suo incaricato presso la Corte austriaca, e le relazioni diplomatiche tra i due Governi venivano rotte.

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CAPO II.

Agitazioni e Attentati.

Esitanze di Napoleone III

Bene a proposito sorse la Società nazionale a salvare l’edificio massonico, messo in pericolo dallo scapestrare delle passioni rivoluzionarie, che minacciavano di appiccare il fuoco per ogni dove, poiché il Congresso-complotto di Parigi ebbe pronunziato l’iniqua condanna contro i governi legittimi d’Italia.

Gli effetti del famoso convegno non si limitarono infatti a quelli da noi testé riferiti. E di vero; mentre una sola Nota benevola di Napoleone III, al principiare della guerra d’Oriente, assicurava l’Austria (perché non prendesse le parti della Russia) della quiete e dell’ordine che sarebbero serbati nei suoi possedimenti italiani, come in tutto il rimanente d’Italia; il Congresso e gli atti che lo accompagnarono e seguirono, produssero l’effetto del tutto opposto, con sollevare lo spirito di rivolta e di disordine, però non solo in Italia, ma sì ancora in Francia; di guisa che quello, che, secondo ogni ragione provata dalla storia, avrebbe dovuto essere pegno sicuro di una più o meno lunga pace, fu invece fiaccola ferale di più tremenda guerra. E ben sei sapeva il Sire francese, il quale, a non precipitare gli avvenimenti ed a mantenersene padrone, sembrò ristare di fronte all’agitazione dei settari, alla grave attitudine della Russia, al misterioso riserbo della Prussia, ed anche ai recenti impegni assunti comunque verso l’Austria. Quindi, mentre braveggiava in una coll’Inghilterra contro l’ambito Regno delle Due Sicilie, quasi a dare un pascolo alle impazienze rivoluzionarie, procedeva misurato e cauto per ischermirsi ad un tempo dalle scaltrite manovre degli alleati di Piemonte e d’Inghilterra, tutte intese a trascinare lui stesso dietro il carro fatale della ormai trionfante rivoluzione. Onde venne, che per nulla soddisfatti del procedere delle cose, ai loro occhi troppo lente, Mazzini e Mazziniani, un po’ per proprio conto, un po’ spinti dal Governo piemontese, cospiravano in Inghilterra, in Francia, in Italia, suscitando un incredibile malessere dappertutto, e minacciando ogni peggio a chi volesse opporsi all’incesso audace della rivoluzione.

Su questo proposito il Conte di Volo, nella sua stupenda Vita di Francesco V, scriveva gravi parole che giova recare.

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«Oltre che, dice egli, l’aprirsi del Congresso a Parigi era stato aspettato dai fuoriusciti italiani accolti in Piemonte, in Svizzera ed a Londra con febbrile impazienza, che ben isvelava quale risultato se ne attendessero; l’avviamento delle conferenze e le assicurazioni, che non tardarono a venirne, eccitarono talmente gli animi irrequieti, che in vari punti della Penisola se n’ebbero premature dimostrazioni.

Attentati a Parma

«Parma, già fatalmente funestata dall’assassinio del Duca (1) e fatta quindi sede di un Comitato che agitavala con frequenti sommosse (2), anche in questo incontro non ne fu risparmiata. 1 facinorosi vi proclamarono senza alcun ritegno siccome imminente il rovesciamento delle condizioni politiche attuali, per dar luogo alla riunione dei Ducati al Piemonte; e, quasi che fosse. essa compiuta, si diedero a tentare, come prima inevitabile conseguenza, la liberazione dei detenuti politici. E poiché il Conte Macauly, che aveva la direzione della pubblica sicurezza, e quindi anche delle carceri, si mise in dovere di attivare alcune misure di precauzione e di rigore tendenti a sventare un tale progetto, ne fu egli proditoriamente punito da mano ignota, che al suo rientrare in casa la sera del 4 Marzo lo colpì di pugnale. Due settimane appresso cadeva altra vittima l’auditore parmense Borgi, il quale fra le sue colpe contava quella di avere in addietro diretta una investigazione per attentato consimile alla vita del Commandante delle truppe Colonnello Anviti, il quale fortunatamente ne uscì illeso. Fin qui il de Volo.»

Attentato contro Napoleone III

Nell’istesso tempo Mazzini accontatosi a Londra con alcuni torbidi Inglesi, ne avea danaro sufficiente a recare in atto una vasta congiura. A raggiungere meglio lo scopo, ideò, pria d’ogni altra cosa, di attentare alla vita dello stesso Napoleone III, col doppio intendimento, o di proclamare la repubblica in Francia, se mai venisse ucciso; o di farlo correre più spedito e pronto nel servire la setta e compirne il programma, se mai scampasse. Coadiuvato l’agitatore da un Gaetano Massarenti calzolaio e da un Federico Campanella letterato, dispose che il cappellaio Paolo Grilli di Cesena e il calzolaio Giuseppe Bartolotti di Bologna, si portassero a Parigi, e quivi con un Paolo Tibaldi,

(1) Carlo III, Duca di Parma e di Piacenza, fu ferito a tradimento con un colpo di stile dalla mano d’un vile assassino il 26 Marzo 1854. Gli succedeva il giovinetto figlio Roberto I sotto la tutela della invitta madre, Duchessa Luisa di Borbone, sorella germana di Enrico V, legittimo Re di Francia.

(2) A Parma erasi costituito uno dei centri della Carboneria riformata, che pigliò il nome di Società Nazionale italiana. L’altro centro era a Livorno.

(Bayard de Volo. – Vita di Francesco V.)

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Attentato di Pianori.

ottico piemontese in quella città, accordassero il modo di assassinare l’Imperatore. Ebbero H però la imprudenza di valersi della posta nelle loro relazioni: Tibaldi, Grilli, Bartolotti furono arrestati e condannati, chi alla deportazione chi al carcere; Mazzini, Ledru Rollin, Campanella e Massarenti venivano condannati in contumacia. Ma non fu questo il primo attentato contro il Bonaparte. La doppiezza abituale di lui non aveva affidato mai coloro che avevano titoli acquisiti sulla sua cooperazione. Ed ognuno sa di quali mezzi costoro si valgano contro i Colleghi che ponno riuscire sospetti. Il 28 Aprile del 1855 l’imperatore dei Francesi attraversava a cavallo, seguito da due soli aiutanti, alcune strade di Parigi, quando un uomo di sinistro aspetto gli attraversava la careggiata, e,, traendo rapidamente una pistola, gli scarica addosso due colpi a bruciapelo. Una delle palle colpisce il cappello dell’imperatore; l’altra, benché diretta al polmone, ne è trattenuta dalla maglia d’acciaio, con cui egli era solito tenersi difeso.

Cosa si può fare per l’Italia?

Nel regicida arrestato scopresi un italiano, Giovanni Pianori di Faenza, condannato già per omicidi e per incendi avanti il 1848, poscia uno degli eroi di Garibaldi, infine uno dei complici dell’assassinio di Rossi e di tutti gli eccessi che inorridirono Roma nel 1849. Nelle congreghe dei fuorusciti italiani accolti a Londra aveva egli ricevuto il mandato di questa perentoria ammonizione al Bonaparte, non meno che le armi con cui darvi eseguimento, e se il colpo non era riuscito e l’ammonizione fosse rimasta inefficace, non era a dubitare che una replica ne sarebbe seguita, il cui risultato avrebbe potuto essere più sicuro, può Napoleone III ostentò grande calma e sangue freddo dopo l’attentato; ciò nonostante quando nell’autunno dell’anno stesso ricevette a Parigi la visita di Vittorio Emanuele, si lasciò come sfuggire la domanda: che si può fare per l’Italia? E con ciò dava a comprendere che al brusco avviso di Pianori non voleva restarsene sordo ed inoperoso. Cavour non aveva d’uopo di tanto per dar libero corso col maggiore entusiasmo alle concepite speranze, ed al fine di accelerarne e “quasi sforzarne la riuscita, indirizzò il 28 decembre successivo ai rappresentanti di Francia ed Inghilterra presso la Corte di Sardegna una Nota verbale, in cui delineava già la parte che egli avrebbe presa nelle conferenze che attendevansi nel caso non lontano di un trattato di pace: quella cioè di richiamare l’attenzione delle Potenze sopra le condizioni politiche d’Italia, e sopra l’impossibilità di conservarvi un ordine

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di cose, il quale ripugna in certe parti, alle più semplici nozioni della giustizia e dell’equità (1). – Ma poiché siamo a parlare di attentati, ci è d’uopo aggiungere qualche particolare circa l’attentato commesso da Agesilao Milano, sfuggitoci quando dicemmo di quell’abominevole fatto.

Una parola di più circa l’attentato di Milano

Dicemmo come quello sciagurato assassino il dì 8 Decembre 1856, in una rivista militare vibrasse un colpo di baionetta contro l’attentato il Re, che ne rimaneva prodigiosamente salvo. Unanime fu il grido di riprovazione che si alzava in tutto il Reame contro il sacrilego attentato. L’attitudine di Re Ferdinando in quella circostanza non fece che accrescergli le simpatie e la popolarità. Ma mentre che a Napoli si esultava per la prodigiosa sua salvezza, a Torino s’imprecava rabbiosamente contro di lui. La stampa estera devota alla setta faceva altrettanto, e il Morning Post ai 22 decembre 1856 giungeva allo incredibile cinismo d’invitare il Re delle Due Sicilie ad ammaestrarsi nella nobile condotta del regicida, cui porta a cielo, e conchiude col dire, che «l’accaduto era un giusto castigo profetizzato fin dal 1851 da Gladstone!…» Strano profeta invero, che colla parola e colla penna avea destato lo spirito di vertigine e di discordia in presso che tutta Europa.

Intanto si dispensavano le medaglie fatte coniare in Ginevra onori ai con l’effigie di Bentivegna e di Milano. In onore di quest’ultimo, – incredibile a dire – si dava il nome suo aduna strada di Torino!! Mentre indi a pochi giorni succedevano le esplosioni misteriose del deposito di polveri nel porto di Napoli, ai 17 Decembre 1856, e quella del vapore il Carlo III nel medesimo porto, ai 4 gennaio seguente.

Onori a Milano

È da dire però che l’assassinio di Re Ferdinando II era decretato lungo tempo prima di quest’epoca. Fin da quando egli ebbe a reprimere la rivoluzione del 1848, i cospiratori del Piemonte avevano giurato la sua morte. Abbiamo infatti sottocchio una deliberazione settaria dei 20 decembre del medesimo anno 1848, emanata dal Comitato generale d’Italia, e diffusa in tutto il Reame delle Due Sicilie che testualmente rechiamo.

Condanna settaria di Ferdinando II

«Considerando, (vi è detto) che l’omicidio politico non è un delitto; ed ancor meno quando si tratta di disfarsi di un nemico, anche dispone di mezzi potenti, e che in certo modo può rendere impossibile la emancipazione di un popolo grande e generoso;

«Considerando, che Ferdinando di Napoli è il più accanito nemico della indipendenza italiana e della libertà del suo popolo;

(1) De Volo. Vita di Francesco V. Tom. 2 pag. 268.

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«È approvata la seguente risoluzione, per essere pubblicata con tutti i mezzi possibili nel Regno delle Due Sicilie:

«Una ricompensa di 100,000 ducati è offerta a colui, o coloro, che libereranno l’Italia dal suddetto tiranno.

«Siccome nella cassa del Comitato si trovano 65,000 ducati disponibili a codesto oggetto; così gli altri 35,000 ducati saranno raccolti per soscrizione.»

Nel tempo istesso che il Comitato prendeva tale deliberazione, dirigeva pure un proclama eccitatore all’esercito napolitano, che cominciava dal chiamare quei bravi soldati sgherri della più feroce tirannide e giannizzeri del più crudele tiranno, e cercava persuaderli a ben meritare del popolo già sdegnato contro essi, con uccidere «quel mostro d’iniquità!» (1).

Rivelazioni circa l’attentato di Milano

Dopo di ciò e con tale precedente divien facile di spiegare che l’attentato del soldato del Baglivo, come quello di Agesilao Milano; a proposito del quale è da aggiungere quel che trovasi in un libro edito in Napoli nel 1865-1866 da un tale Fortunato Bracale, e che ha per titolo: Scene e quadri storici sulla rivoluzione del 1860. A pagina 63 vi è detto, a conferma di quanto abbiamo narrato, che Re Ferdinando II veramente intendeva perdonare Agesilao Milano, reo del sacrilego attentato di regicidio dell’8 decembre 1856; ma ne fu dissuaso da unanimi proteste dei Generali e Consiglieri di Stato, che insistettero per una punizione esemplare e pronta di quel truce scellerato.

Ravitti però nel suo libro intitolato: Recenti avventure d’Italia, tom. I, capo X, dice che il Generale Alessandro Nunziante (già segretamente ascritto alla setta degli Unitarii) ebbe tutta la premura di far subito morire il Milano, temendo che costui avesse fin d’allora rivelata la sua tristizia, fatta palese poco di poi. E qui, ad onore delle popolazioni napolitane e sicule, notiamo come di origine greca fosse l’assassino Milano; e greco egualmente un occulto emissario dei congiurati di Torino per nome Caridi, trapassato incognito nell’ospedale degli Incurabili di Napoli pochi giorni dopo le accennate esplosioni. Negli ultimi istanti di sua vita rivelava egli – essere complice nei due fatti, e conoscere come si trovasse già in salvo colui che aveva dato fuoco al Vapore, rimanendo però in Napoli altri conrei. –

Le indagini giuridiche offrirono poi elementi da constatare l’importanza del Milano, mostrando essere egli affiatato

(1) Albert de Dalmas Le Roi de Naples, sa vie, ses actes, sa politique. Paris 1851, Chez Amyot pag. 119.

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Chi era Agesilao Milano

coi capi della setta all’estero, ed averne avuto incarico di redigere, secondo un dato modello statistico, l’elenco degli affigliati, notandone l’esatta biografia, la possidenza, l’attitudine e la idoneità possibile in servizio della rivoluzione. – Nelle file adunque di questa era l’infelice Milano alto locato, come organatore e statistico (1).

Impudenza di Cavour

In mezzo a queste cose la politica del Conte di Cavour toccava l’apogeo della perfezione nell’arte di mescolare il più freddo cinismo con le più malvagie opere. Rispondendo nella Camera di Torino alle interpellanze, sui narrati sacrileghi attentati affermava francamente: «Noi abbiamo seguita una politica pura e leale senza linguaggio doppio, e finché saremo in pace con altri Potentati noi non impiegheremo mezzi rivoluzionarii, non mai cercheremo di eccitare tumulti e ribellioni. Rispetto a Napoli egli è con dolore che rispondo all’onorevole interpellante. Egli ha ricordato fatti dolorosissimi: scoppio di polveriere e di navi da guerra, ed un attentato orrendo.

(1) A questo punto non crediamo inutile di aggiungere la seguente nota: Molte scempiaggini, raccolte dalle più scurrili dicerie della feccia dei partiti sono state introdotte senza criterio nel libro Memorie della rivoluzione dell’Italia meridionale del deputato Giuseppe Lazzaro (vedi pag. 487 A. P, in nota. Cenni su di esso Lazzaro) (pag. 469 a 475; e pag. 560 a 563 della Rivista del Progresso anno 2°. di IVAponte.)-II Lazzaro per darsi aria di sentenziatore acerrimo, stimatizza calunniosamente, tra gli altri, il Magistrato giudiziario incaricato della processura penale sui complici di Milano. L’intera Calabria conosce con quale scrupolosità e diremo quasi fanatismo di onore esso raccolse le prove circa il gravissimo misfatto; niun individuo però fu fatto arrestare di suo ordine e bastano le semplici date per convincere di mendacio lo scrittore Lazzaro. Il Magistrato anzidetto, delegato da Napoli per tale disimpegno, parte ai 13 novembre 1856 e giunge a Cosenza ai 16, e quivi trova già incarcerati d’ordine del Ministero di polizia e dell’Autorità provinciale, i due fratelli del regicida, ed altri individui che indicavansi nella epistolare corrispondenza come indettati col Milano, e che costui enunciava nelle carte conservate e repertate nel proprio sacco militare. Niuna donna fu mai arrestata, e i fratelli stessi del Milano, Cannilo, scritturale nella Cancelleria comunale, e Ambrogio sostituito da colui nel servizio militare pel criminoso fine, furono dopo qualche mese liberati

Nel 1865, per la erostratica impresa di un Luigi Mira impiegato nel ministero di Polizia, donde alcune carte metteva in serbo e poscia tradiva ai Piemontesi, veggono la luce le cennate processure penali per l’attentato del Milano e complici. Ove si voglia esaminarle, senza preoccupazioni e senza introdurvi elementi di calunnia, si vedrà con quanta regolarità fu proceduto. – Vedi A. P. pag. 657 e 903.

E qui è da aggiungere un altro appunto che troviamo nel succitato incarto circa i fratelli del Milano. – «Camillo (di età matura e calvo), Ambrogio (giovane e minore di età ad Agesilao rozzo zappatore) rinnegavano nel decembre 1856 la fraternità col famigerato Agesilao, e di fatti ne vivevano separati e poco amici. Dopo il 1860 però hanno approfittato della corrente rivoluzionaria, e han fatto valere la stessa fraternità come merito per afferrare cariche lucrative.»

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Egli ha parlato in modo da lasciar credere, che questi fatti siano opera del partito italiano; io lo ripudio altamente, e ciò nello interesse di Italia. Sono fatti isolati di qualche disgraziato illuso, che può meritare pietà e compassione.» (Tornata 15 gennaio 1857 atti uff. n. 12 pag. 41.)

Ricompense del Governo Sardo ai colpevoli

Nello stesso tempo però che così parlava il Cavour, presidente verno sardo dei ministri in Torino, facevasi quivi l’apoteosi dell’assassino Milano, ed emanato il decreto che immortalava la costui memoria, ed assegnava vistose ricompense alla famiglia sulle finanze dello Stato del Re Vittorio Emanuele (come facevansi altri molti atti di rimunerazione ai disgraziati illusi, secondo lo stile cavourriano, onde si dichiaravano meritevoli di pietà e di compassione i regicidi e gl’incendari di navi e di città!) – Ma non la pensava più così l’onesto ministro, quando, incominciandosi a smascherare nella usurpazione del Regno delle Due Sicilie, scriveva all’ammiraglio Persano – essere arrivato il tempo delle grandi misure, e doversi fucilare senza pietà i marinai napolitani, – che, costretti a servire sulle navi sarde, ne disertassero, per non combattere contro il proprio Re; tuttoché le leggi del paese non ammettessero pena capitale per la diserzione. (Nicomede Bianchi loc. cit. pag. 104).

Movimenti in Genova

Mazzini intanto infaticabilmente animava i suoi settari in Italia; e, fosse realtà, fosse piuttosto arte per mostrarsi vittima egli stesso, il Governo piemontese aveva a reprimere alla sua volta i conati rivoluzionari. Infatti il 29 di Giugno 1857 si tentava un serio movimento in Genova, impadronendosi i cospiratori del piccolo forte del Diamante, presto preso, e più presto evacuato. De’ cospiratori 29 evasero, 49 furono arrestati e tradotti in giudizio, e, cosa strana! 6 condannati a morte erano tutti contumaci; gli altri vennero condannati a varie pene, per essere liberati o per evadere dalle carceri alla prima propizia occasione.

Ne segue l’attentato di Massa e Carrara

Nel medesimo tempo Cavour fa tentare l’invasione rivoluzionaria a Massa e Carrara, nella notte del 25 Luglio dell’anno istesso 1856, e lascia che si creda sia stata opera di Mazzini, o intrigo dell’Austria. Manda contemporaneamente emissari a Parma, a Modena, a Palermo a Napoli, a Firenze, a Roma, dove già gli agenti diplomatici e consolari del Piemonte intrigavano ad eccitare disordini, procacciavano soscrizioni, e votavano indirizzi di ringraziamento e medaglie all’istesso Cavour, per l’energia da lui spiegata nel Congresso di Parigi a favore della rivoluzione italiana; mentre i suoi discorsi, si come le parole attribuite ai vari plenipotenziari del Congresso, venivano stampati e diffusi a migliaia di esemplari negli Stati italiani, a Napoli principalmente.

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Spedizioni clandestine

Venivano poscia e le offerte dei cento cannoni e dei 10 mila fucili, e le spedizioni clandestine partite dagli Stati sardi, foriere di quella dell’avventuriere Nizzardo, succeduta ai 6 di maggio 1860, cose tutte da noi raccolte in queste pagine. Riassumiamo in proposito alcune importanti corrispondenze dalla Civiltà Cattolica di quei giorni (1).

Sottoscrizioni spontanee

– Sorgeva, una nuova sottoscrizione nazionale in Genova. L’Italia e Popolo proponeva di radunare denari per l’acquisto di diecimila fucili destinati alla prima provincia italiana che insorgerà contro il comune nemico. «L’Italia deve insorgere, diceva il giornale di Mazzini: questo dovere non si discute, si sente, e tristo quell’italiano che non ne avesse coscienza.» L’Unione di Torino e il Lemme di Novi facevano adesione alla sottoscrizione mazziniana. La prima diceva che la sottoscrizione dell’Italia e Popolo merita «l’appoggio di tutti gli organi liberi della stampa ed il concorso di tutti gli Italiani dello stato sardo non solo, ma d’ogni altra provincia italiana. Il secondo ripeteva sottosopra lo stesso. Intanto la sottoscrizione della Gazzetta del Popolo pei cento cannoni andava a rilento; sottoscrivevano gli impiegati perché la Gazzetta Piemontese avendo approvato la sottoscrizione, avrebbe pericolato l’impiego se non sottoscrivessero. Si lesserò anche lettere, che si mandavano per la posta con minaccie a coloro che non sottoscrivevano. Per indurre il popolo a dare il suo nome e il suo obolo si diceva che la sottoscrizione doveva servire a bagnare la meliga; giacché in quei giorni soffriva per la siccità. Né le sottoscrizioni erano l’unico mezzo adoperato per la rivoluzione. Circolava stampato in Torino uno scritto che diceva: «Al primo rumore di popoli italiani chiedenti il regno d’Italia colla dinastia di Savoia e lo Statuto piemontese, il Parlamento e l’esercito in Piemonte leveranno il medesimo grido; ed eccoti l’Italia viva persona politica…. Il Re Sardo si mostri sulle Alpi capitano di 500 mila combattenti, e la diplomazia, benché a mal in cuore, si affretterà a riconoscere il fatto compiuto.» – Le centinaia di migliaia di combattenti vennero pur troppo sulle Alpi, ma non erano del Re Sardo!…..

Tutta la vita politica del Piemonte era pertanto nelle sottoscrizioni. Quella dei 100 Cannoni era opera dei moderati e parto della loro mente; l’altra dei 10 mila fucili veniva da Mazzini; quella nasceva in Torino figliata dalla Gazzetta del Popolo, questa in Genova sotto il patrocinio dell’Italia e Popolo Una sottoscrizione collegavasi coll’altra, come avvertivano i giornali e principalmente il Diritto. Imperocché, essi dicevano:

(1) Civiltà Cattolica, Serie III, vol. 3. e 4.

 

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Municipio di S. Remo e le sottoscrizioni.

«L’Italia ha da fare contro l’Austria una guerra offensiva e difensiva. Stanno per difenderci i cento cannoni, e prepariamo per offendere i diecimila fucili.» Si mise mano pertanto alla raccolta delle offerte. La sottoscrizione ministeriale ottenne tosto le firme di tutti gli impiegati, e dei Municipi, che dagli impiegati pubblici poco differiscono. Imperocché essi pure erano colti dalla paura, e se non temevano il ministero, temevano la Gazzetta del Popolo che minacciava, bene spesso ai suoi avversar! – due dita alla gola ed un coltello nel cuore. – In quei paesi però dove qualche coraggioso osò pronunziare una risoluta parola, la sottoscrizione ministeriale andò a monte. Così nel municipio di S. Remo il Sindaco proponeva di sottoscrivere pei cento cannoni; ma un consigliere avendo solennemente disapprovato la proposta per le condizioni del paese e l’indole stessa del corpo municipale, il consiglio fu tutto col valoroso Consigliere e il povero Sindaco restò solo in mezzo ai cento cannoni. Del resto i ministri e i ministeriali si mostravano disingannati: giacché si ripromettevano le sottoscrizioni non solo di tutto il Piemonte; ma anche dell’Italia intera, e invece dall’Italia nulla giungeva, e dal Piemonte si ricavava pochissimo. Basti sapere che era da un mese e più aperta codesta sottoscrizione, i municipi largheggiavano del denaro altrui, eppure fino al 5 settembre di quell’istesso anno 1856 si raccolsero appena trentamila franchi, vale a dire un quinto della somma necessaria pei cento cannoni. Ma a suo tempo il ministero suppliva a tutto coi denari dello Stato. Erano dieci giorni che la sottoscrizione pei dieci mila fucili da darsi al primo Stato italiano che insorgesse correva pel pubblico, e l’Italia e Popolo aveva di già raccolto un presso a duemila nomi, allora quando il fisco di Genova, il 30 Agosto, sequestrò il giornale e le liste. E’ cosa che fa sorridere di pietà! (diceva l’Italia e Popolo dando questa notizia). E fa realmente pietà vedere un governo distruggere con una mano ciò che fabbrica coll’altra. Ma giustizia vuole che si scusi il Ministero, il quale ha ordinato il sequestro perché la Diplomazia gliene fece l’intimazione.

Mazzini e le sottoscrizioni.

Prima di lasciarsi andare a questo passo esitò per molto tempo, scrisse per telegrafo l’ordine del sequestro, poi lo ritirò, inviandolo finalmente una terza volta in modo definitivo. Giuseppe Mazzini che, giusta la voce comune, stava in Genova, scrisse su questo proposito una lettera ai ministri nell’Italia e Popolo. Voi vedeste, dice egli ai ministri il nome infausto di Novara scritto sulla parete;

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e invece di ritrarne eccitamento a magnanimi sdegni ne ritraeste impicciolimento e tremore. Ma perché non sopprimere energicamente fin dal primo giorno il virile disegno? Le autorità vostre sequestrarono in Genova spontanee, ma imperfettamente, alcuni esemplari del foglio che conteneva la proposta; poi, quasi vergognando, sostarono. E voi mandaste dapprima ordini di prosecuzione, e li ritrattaste il di dopo; e lasciaste che sette giorni corressero senza richiami e minacce; poi, quando l’assenso pubblico avea convertito in manifestazione solenne quella proposta, esciti 800 nomi di soscrittori, seguito l’esempio dato sotto gli occhi vostri dalla stessa Torino, approvato il disegno da giornali di ogni colore, spediste, ridesti a un tratto, ordini inesorabili, e cominciarono i giornalieri [sequestri. Or, ridesti da che, se non dall’esoso intervento straniero?» E continuando il Mazzini dice ai Ministri: – Io vi conosco d’antico! – Le quali parole andavano principalmente all’indirizzo di Urbano Rattazzi, che nel 1848 e 49 era venduto anima e corpo al Mazzini, lo lodava imperante in Roma e lo serviva in Genova mediante la battaglia di Novara, come scrisse Vincenzo Gioberti nel suo Rinnovamento. Intanto l’Italia e Popolo (N. 242) minacciava e scriveva: «11 valore politico del sequestro, le conseguenze che gli uomini di buona fede ne possono dedurre non vogliono essere qui neppure accennati».

Invasioni nel napoletano

Infrattanto il siciliano Bentivegna, siccome abbiamo accennato in un precedente capitolo, presa l’imbeccata a Torino, sbarca in Sicilia, mette a rumore alcuni comuni presso Palermo, ma, vinto e fatto prigioniero dai regi, viene condannato nel capo.

L’emigrato napolitano Pisacane muove da Genova sul Cagliari, accresce in passando i suoi seguaci, liberando i delinquenti rilegati nell’isola di Ponza, sbarca a Sapri sul cadere di Giugno 1857, e prima che vi accorrano le regie milizie è sconfitto ed ucciso dalle fedeli popolazioni; e nel medesimo tempo è edificante il vedere il Conte di Cavour fare al rappresentante del Re di Napoli quelle espansive dichiarazioni di ammirazione verso il Re Ferdinando e il suo Governo, da noi già accennate. Quest’ultimo attentato era dal Mazzini particolarmente prestabilito; lo confessa il famoso Crispi in una sua lettera (1).

(1) Importanti documenti storici circa le cospirazioni contro il Reame delle Due Sicilie, fomentate dall’estero, pubblicavansi in Napoli, poi che la rivoluzione ebbe trionfato, in un opuscolo col titolo: La spedizione di Carlo Pisacane ecc. per Giacomo Racioppi (Napoli 1863).

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Scoppi e incendi.

-Al finire del 1856, scrive il Belviglieri, ed al principiare del seguente anno, altri incidenti vennero a mantenere e ad alimentare l’agitazione ed i sospetti. Scaricandosi della polvere da un vascello di guerra, la polveriera prese fuoco è scoppiò con distruzione d’edifici, morte di persone e minaccia della reggia non molto discosta dall’arsenale. Fu caso od artificio? gli appassionati di ambe le parti pensarono e dissero artificio; il Governo confermò quella opinione con indagini e con inchieste, senza riuscire a nulla, se non fu forse metter voglia di rinnovare il truce spettacolo. Ai 4 Gennaio la fregata a vapore Carlo III carica di fucili stava per salpare alla volta di Palermo. A un tratto scoppia la Santa Barbara, con orribile schianto, moltissimi feriti, quaranta morti, e sarebbero stati anche più, se l’equipaggio di un legno inglese ancorato nel porto non avesse dato pronta ed efficace opera a salvare i caduti nelle onde. Questa volta fu persuasione generale che il caso non v’entrasse per nulla (1).

Il Giornalismo settario e la Gazzette de Frutice.

Ma ben altri fatti contemporanei rivelavano quanto mai fosse estesa e complicata la rete delle insidie prepotenti, a ruina della monarchia delle Due Sicilie che, ormai abbandonata a sé stessa lottava da sola contro tanti esterni implacabili nemici. – Il giornalismo piemontese, diretto dallo stesso Cavour, non era il solo che con sistematica bile scaricasse giornalmente contumelie contro il Governo napolitano; il Morning-post a Londra, il Siede a Parigi e le cento altre infernali trombe della frammassoneria, riproducevano a gara nelle loro pagine tutte le menzogne e calunnie, nelle quali l’odioso era vinto dall’assurdo. Circa le condanne capitali inflitte dopo regolari giudizi (per non dire d’altri) ai suddetti Bentivegna e Milano, convinti rei di così gravi misfatti, le menzogne del Siécle superavano in cinismo ogni altro organo della rivoluzione. Il perché uno dei più seri giornali di Francia, di fronte a tali esorbitanze, mestamente esclamava: «Où allons nous? Telle est la question que s’adressent tous les hommes sérieux; car ce vaste système des mensonges contra un Monarque, qui donne l’exemple des plus éminentes qualités royales et de toutes les vertus privées, est bien propre à inspirer une immense tristesse à tous les amis de l’ordre, en leur révélant une perversité profonde et la résolution bien arrêtée de miner sourdement la puissance d’un Souverain, qui est considéra avec raison, comme le principal obstacle à la réalisation

(1) Belviglieri, loc. cit. pag. 62.

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des projets révolutionnaires en Italie, et qui, pendant que l’on pactise, ou que l’on n’oppose partout que d’impuissants palliatifs à la marche de la révolution, lutte seul avec la plus grande dignité et un noble courage, pour la cause de tous les trônes. (Gazzette de France, 22 février 1857).

Eccitamenti stranieri

Però, vedi strana combinazione! dall’estero vengono gli agenti misteriosi ad eccitare le popolazioni e a subornare l’esercito; nell’estero sono inventate e dall’estero principalmente sparse le più mostruose calunnie; e nell’interesse di estere ambizioni, in nome del popolo napolitano e siciliano, si preparano all’estero quei famosi Memorandum da diffondersi per tutta Europa che avrebbero bastato a fare insorgere ogn’altro paese, che non fosse stato quello delle Due Sicilie, contento e prospero sotto il governo del suo legittimo Sovrano. – Egli è vero pur troppo che, amici supposti insieme con nemici palesi, si univano in questo periodo di tempo a gridare riforme; ma essi stessi non avrebbero saputo indicare in che avessero esse a consistere; che in quest’epoca d’indipendenza sfrenata della ragione, ogni testa, sia pure la più bislacca, ogni interesse, sia pure il più nocivo al vero benessere di una nazione, immagina, vuole e propugna le sue riforme. Sotto questo nome pur troppo l’esperienza del passato ha fatto vedere, (e l’avvenire dolorosamente confermò) che si mascheravano le più turpi passioni di anarchia, l’ambizione e l’avidità d’insaziabili irrequieti demagoghi. Le riforme erano sinonimi, e il fatto lo provò abbastanza, di rivoluzione antidinastica, di rovesciamento d’ogni ordine, d’universale spogliazione, di saccheggio dello Stato e della Chiesa, di avvilimento del pubblico credito, di leggi di terrore e dispotismo.

Ma di alcuni dei fatti accennati fa d’uopo dire più minutamente: e incominciamo dalla scorreria su Massa e Carrara.

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CAPO III.

SCORRERIA DI MASSA E CARRARA, INCURSIONE DI BENTIVEGNA, SCOPPIO DELLA POLVERIERA E DEL CARLO III A NAPOLI.

Scorreria di Massa e Carrara

Nella notte dai 25 ai 26 di Luglio una banda dai 70 agli 80 individui partivasi da Sarzana (Piemonte) per mettere in rivoluzione il Ducato di Modena. Alcuni di essi vestivano l’assisa della guardia nazionale di Sarzana ed annunziavano ai paesi la rigenerazione italiana. Confidavano costoro che le popolazioni avrebbero corrisposto al loro invito insorgendo e ribellandosi contro il proprio governo. Ma s’ingannarono a partito, giacché le popolazioni medesime armaronsi per combattere i ribelli, e le milizie estensi giunte poco dopo non poterono più vederli che dietro le spalle. I rivoluzionari avevano sparso in Carrara un proclama, che finiva così: «Al grido di guerra e di vita che noi mandiamo dalle vette del nostro Appennino, grido di vita nazionale italiana, grido di guerra all’Austria e a quante tirannidi straniere e domestiche ci contendono l’avvenire, risponda concorde, rapido, audace, il grido di quanti hanno in cuore l’Italia, e l’Italia sarà.»

Il giornalismo rivoluzionario

Essendo i rivoltosi partiti dal Piemonte, il governo sardo mandò milizie ai confini, che ne arrestarono una buona parte. Ma i giornali democratici acremente lo rimbrottarono di cosiffatto procedere, perché dicevano che senza gl’impulsi uffiziali del Ministero piemontese non si sarebbero mossi gli insorti. La Maga del 29 di Luglio N. 91 osservò con un po’ di ragione: «Cavour diceva alle Camere, che la nostra politica era lontana più che mai dalla politica austriaca; dicea nel Memorandum, e nelle note verbali che, se continuasse lo stato attuale di cose, il governo sardo sarebbe stato costretto a gettarsi in braccio alla rivoluzione per salvare l’Italia. Il mantenimento di queste promesse sta tutto nelle precauzioni prese in questi giorni per aiutare a comprimere i moti di Carrara, ed impedire che la gioventù di Lerici, Sarzana e S. Terenzio andasse in soccorso degli insorti.» E l’Italia e Popolo del 30 di Luglio N. 210: «Tutti, scrive, rammentano come, all’epoca della memoranda discussione parlamentare, il Governo sardo, a far divampare il fuoco latente nelle altre provincie d’Italia, facesse

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Eccitamenti stranieri

Confessioni del Risorgimento

stampare i discorsi di Cavour e di Buffa, e li diffondesse a migliaia di esemplari ne’ Ducati, nelle Romagne, nel Lombardo-Veneto, a Napoli e nella Sicilia. Ma ciò non bastava: egli incoraggiò per mezzo de’ suoi emissari quegli abitanti, e si sa che le parole: «Viva Vittorio Emanuele», si scrivevano dai partigiani piemontesi sui muri e sulle porte delle case a Carrara. Lusinghe ancora più esplicite vennero date ai regnicoli andati espressamente a Torino. Ora con tali eccitamenti quale è stato il contegno del nostro Governo?» E qui l’Italia e Popolo imprende a sfolgorare i Piemontesi che repressero presso a Sarzana quel moto medesimo che eglino stessi avevano provocato, «e, volendo aggiungere la codardia all’insulto, dichiararono il movimento provocato da agenti austriaci.» Difatti l’Espero, giornale che stampavasi a Torino sotto gli auspici e la protezione del Ministro degli Interni, Urbano Rattazzi, e che perciò godeva l’autorità di foglio semiufficiale, detto quanto basta per far capire che la gloriosa impresa contro il Ducato estense allestivasi in Piemonte, e che da Torino partiva gente ‘ con tale intento, e recitati a modo suo i gloriosi fatti di quegli italianissimi, osò stampare queste parole: «Questo è certo, che l’Austria conta tra le file degli insorti alcuni suoi emissari, i quali per calunniare il governo piemontese vanno spacciando essere sicuri dell’appoggio di questo; spediente ormai troppo conosciuto, perché gli uomini di senno e di cuore vi si lascino cogliere.» Che non solo alcuni, ma molti tra cotesti paladini dell’indipendenza dicessero a piena gola a chi voleva e a chi non voleva udirli, aver essi avuto pegno e promessa d’aiuto dai padroni del Piemonte, questo era verissimo.

Ma che costoro fossero emissari dell’Austria, questo era da provare; e i padroni dell’aspiro avrebbero fatto bene d’ingegnarsi a provarlo, sotto pena d’incorrere altrimenti la taccia di calunniatori. Se l’insurrezione sul Modenese avesse preso vita e forze, si sarebbe fatto plauso ai magnanimi figli d’Italia; riuscì ad un fiasco, e per iscuoterne da se l’onta si spacciava che era opera dell’Austria! Ora è agevole conchiudere chi fosse il calunniatore. Tanta perfidia fece stomaco al Risorgimento, che la trovò per giunta cosa sciocca ed impolitica, esclamando (N. 1659): «Ma che assegno potrebbero più fare sul Piemonte (i liberali) se dovesse esser vera la insigne corbelleria che ristampava l’Espero: essere uno spediente d’emissario austriaco il fare sperare ai popoli d’Italia l’aiuto del Governo piemontese?…. Noi arrossiamo per l’Espero che gli siano cadute dalla penna scempiaggini di questa fatta, le quali compromettono altamente la stessa Dinastia.»

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Come si vede, la cosa era lampante. Il Risorgimento si sfiatava a persuadere, che il governo Piemontese facesse sperare il suo aiuto ai popoli che avessero l’animo d’insorgere; e nel diffondere l’opinione contraria egli, da buon italiano vedeva un pericolo per la Dinastia!

Ma non solo il Risorgimento voleva ad ogni patto farne convinti che la tentata sommossa di Carrara era opera degli Italiani di Piemonte; che anzi egli manteneva che avrebbe dovuto essere opera del Governo, al quale muoveva acerbi rimbrotti per avere co’ fatti suoi dato a pensare, che egli non sapesse o non volesse essere protettore ufficiale della rivoluzione, come pur avrebbe dovuto per non contraddire a sé stesso «Se la rivoluzione, scriveva, ò il solo rimedio ai mali d’Italia, è pur ovvio che non la possono osteggiare coloro che hanno essi stessi constatato il male, e stimolato popoli e governi a recarvi rimedio. Come adunque il nostro governo ha potuto reprimere invece egli stesso il primo tentativo di cotesta rivoluzione?… Il Piemonte non deve far nulla che sia una provocazione all’Austria;… ma può qualche volta ignorare... Cotesto zelo di perquisizioni a Genova, a Novara, di sequestri, di arresti, di cordone militare etc… potrà nelle altre provincie italiane parer eccessivo, e sembrerà che sieno alquanto in contraddizione col linguaggio che si tiene e dai giornali, e dai membri del Governo… In conclusione: la rivoluzione non si farà mai in Italia, finché non possano le popolazioni italiane far certo assegno sul concorso del Piemonte. Importa quindi mantenere viva in esse la persuasione, che dietro i popoli insorti, sta l’esercito piemontese» Così l’onesto Risorgimento N. 1658.

E tutto questo parendogli poco, egli si rifa da capo nel giorno appresso, e ribadisce bene il chiodo del non doversi attribuire ad artifizi di agenti austriaci la scorreria contro lo Stato estense; poi viene minutamente sponeno un suo programma per la rivoluzione, e pel modo con cui doveva promuoverla ed aiutarla il Piemonte. Importa il registrarne le precise parole: «Lo stato dei popoli d’oltre Ticino è troppo infelice, perché possa durare a lungo tal quale. Le discussioni di Parigi, di Torino e di Londra, gli eccitamenti continui dei giornali (piemontesi) che, malgrado tutta la vigilanza della polizia, riescono tuttavia più o meno a passare le frontiere, agitandogli spiriti,affrettano gli eventi. L’effetto di queste varie cause non può essere dubbio. Verrà momento in cui in una o in altra parte d’Italia scoppierà un insurrezione: quella sarà la prima favilla dell’incendio universale. L’Austria vorrà intervenire, e il Piemonte avrà diritto d’intervenire anch’esso per impedire l’eccessivo estendersi della influenza austriaca, e non interverrà egli solo.

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Questa crediamo sia la sola possibile soluzione della questione italiana. Ma affinché essa si avveri, conviene che il primo moto si manifestini paese, altro da quelli dominati dagli Austriaci. Una rivoluzione che scoppiasse nel Lombardo-Veneto non giustificherebbe il nostro intervento; ma se i Ducati siano, o la Toscana, che si levino in armi, allora il Piemonte e i suoi alleati avranno ragione d’ingerirsi. Dato questo primo segnale, si moveranno anche i popoli soggetti all’Austria, e l’Italia sarà. Ma se dee la rivoluzione cominciare negli Stati non ancora posseduti dall’Austria, che sono i più piccoli e i più deboli, importa che possano fare assegno sicuro sull’aiuto nostro, se no, certo non si muoveranno mai.

Scorreria di Bentivegna

«Prognosticate le rivoluzioni, scrive il De Sivo, detto a regnicoli in cento tuoni: ribellatevi, sta per voi il Piemonte e la civiltà, stanno i vascelli di due grandi Stati, scacciate il re bomba: nessuno si moveva. Fu necessità mandarli a muovere, da fuori. Era si lontana dalle menti nostre la rivoluzione, che udivamo con meraviglia talora [certe affisse proclamazioni stampate a Torino, e faceva le crasse risa di cotali sforzi inani d’un partito impotente. Le cose d’Italia parevano accennare a quiete; il Papa si faceva l’esercito, avea ottenuto i Tedeschi lasciassero le città romagnole, e solo guardassero Ancona e Bologna; il che avveniva sul finir d’ottobre. Eppure si mulinavano colpi mortali ed iniqui in Sicilia e in terraferma.

«A 20 Novembre appariva sulle coste sicule la Wanderer, goletta inglese venuta da Malta; e andava spargendo starsi soldati brittanni a Malta pronti ad accorrere in aita de’ ribellanti; lo stesso stampavano certi giornali esteri, aggiungendo, i Francesi invaderebbero Napoli; ed ecco s’alza un vessillo a tre colori, di tal maniera. Era un barone Francesco Bentivegna di Corleone, giovine dissennato, senza istruzione, mazziniano, stato Deputato nel 48, che nel 49, presa Palermo, aveva protetto i banditi in campagna. Questi in Febbraio 53, unita gente in casa, imprese, con la coincidenza de’ tumulti di Milano, a sollevarsi e tentare un colpo di mano sul presidio di Palermo; ma scoperto e sostenuto, ai 25 di quel mese, fu con altri sottoposto a giudizio lungo, dov’ei protestava innocenza. Trovò anzi protettori; e il Cassisi stesso, per discreditare il Filangeri, potendo su’ giudici di Trapani, riusci a farlo assolvere; onde ebbe co’ complici libertà. La Polizia per sicurezza il mandò a confine; ma v’era sì mal sorvegliato, che ei poteva starsene spesso in Palermo a rannodarvi la congiura, e anche più volte navigare a Torino, senza essere scorto.

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E si declamava contro la durezza de’ Tribunali e le sevizie della Polizia!… Questo innocente, corsi appena quattro mesi che era fuori di carcere, giunta la nave inglese, dopo due di, a 22 Novembre 56, levò con gli antichi complici a rumore le terre di Mezzoiuso, Villafrate, Ciminna e Ventimiglia nel Terminese; tolse il denaro dalle casse pubbliche, scarcerò i detenuti, fugò il giudice e i sindaci, arse l’archivio circondariale; e a sommuover la gente gridacchiava già, gl’Inglesi stare a Palermo, e in altre città dell’Isola. Raggiunselo un La Porta, pur con esso giudicato innocente, pel fatto del 53. Dall’altra un Francesco Guarnieri, pur di quel processo, investiva la sera del 26 le prigioni di Cefalù e traevano uno Spinuzza, anche complico del 53, ricarcerato per nuove imputazioni. Costoro saccheggiarono certe case d’impiegati, disarmarono la Guardia Urbana, presero arme di privati a forza, e con sediziose grida cercavano popolo. Questo in nessuna parte IL segui, benché vedesse qua e là costeggiar navi francesi o brittanne; per contrario i villani, prese rusticane armi, come arrivò da Palermo una regia fregata con soldati, corsero alla spiaggia, gridando viva il re illuminarono Cefalù e cantarono il Te Deum nella Cattedrale. Soldati e Guardie Urbane dettero addosso a’ rivoltosi, e li dispersero. Anche Urbani per la via di Lercàra col Sottintendente Parise assalirono il Bentivegna. Il quale, cinto da tutte parti, disciolta la banda, fu da soldati trovato in una fratta di fichi d’India, e menato a Palermo. Colà giudicato da un Consiglio di guerra, ritornò a Mezzoiuso ove aveva alzata la bandiera; e il mattino del 23 Dicembre, fatto testamento, passò per le armi. Andando al supplizio disse più volte: «Se il Re sapesse questo, mi farebbe grazia!» Tanto a’ rei stessi era notissima la regia clemenza; e certo il Re seppelo dopo. I suoi complici ebbero pene minori» – Così il De Sivo (1).

Il Belviglieri racconta anch’egli questo fatto, e aggiunge: «Non avendo Bentivegna trovato appoggio nelle popolazioni tra Messina e Palermo, parte rifuggitisi in un bosco caddero in mano alle milizie, altri si ritirarono a Cefalù, e furono arrestati più tardi. A Messina nulla accadde, tranne l’affissione di scritte: «Viva il principe ereditario, Viva la libertà, Viva la costituzione del 1812!» che furono ben presto strappate dagli agenti della polizia.

(1) Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, libro XIV. pag. 339. – Questo illustre Storico, schietto cattolico e legittimista, fu detto in questi giorni, con evidente errore, da uno dei nostri principali giornali cattolici «storico liberale» Attendavamo una rettifica; vedendola tardare, e nessuno dei suoi amici muovere lagnanza, crediamo dovere nostro di avvertire i lettori di tale errore.

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Bentivegna e parecchi dei capi, giudicati sommariamente, furono passati per le armi; altri condannati a morte dai Tribunali ordinar!, ebbero, tranne un solo, commutazione di pena da Ferdinando. In questa circostanza il governo gareggiò di sconsigliatezza cogli insorti, giacché quelli con poveri mezzi e relazioni scarsissime s’avventarono ad un’impresa superiore di troppo ed il Governo, che teneva guardata l’isola dalle migliori sue truppe nazionali e svizzere, poteva far pompa di sicurezza e di generosità, risparmiare al tutto i supplizi, e soddisfare i desideri delle Potenze occidentali.» – Cosi il Belviglieri, il quale, secondo la sua bella teoria (per nulla seguita dal fortissimo Piemonte quando fu padrone delle due Sicilie) manderebbe impuniti tutti i corsari e filibustieri che si presentassero, ed anche tutti i ladri e gli assassini, sol che questi avessero per le loro imprese poveri mezzi e relazioni scarsissime (eccellente confessione!), e il governo forze bastanti e buone.

Scoppi di una polveriera e del Carlo III

Ma due attentati più orrendi erano riservati per la stessa scoppi di Napoli. Seguitiamo ad ascoltare il De Sivo: «Sul mezzodì del 17 dicembre scoppiava la polveriera sul molo militare avanti la reggia; gittato all’aria gran parte dell’edilìzio (a gran distanza; sicché un macigno di molte cantaia sfondò la casa del caffè Pappagalli presso il Mandracchio. Spezzaronsi i vetri non della regia sola, ma di gran parte della città molto addentro. Perironvi 17 persone.

«Più spaventoso scoppio seguiva a 4 Gennaio 57 sulla bocca dello stesso porto militare. Il Carlo III, fregata a vapore con sei grossi cannoni, costruita a Castellamare, doveva alla dimane recare arredi soldateschi a Palermo. Aveva la dotazione di 27 cantaia di polvere. Tutto in pronto, già v’eran saliti alquanti pàsseggieri, mancavano gli uffiziali e il comandante Faowls. V’arrivava il Masseo capitano in secondo, a cinque minuti prima dell’ore II della sera, e ito dalla lancia sulla nave, questa poco stante per istantaneo colpo andò in pezzi, legno, ferro, uomini e cannoni, in un turbine orrendo di fuoco. Mezza nave sparve, l’altra con la prua si chinò nell’onda e affondò. Morirono 38 persone, col Masseo stesso; e i loro corpi mozzi e nudati dalle vampe, dall’acque uscir poi a galla spettacolo miserando. La città stupefatta, ignara, vide spegnersi a un botto i fanali delle strade propinque, frangersi ogni vetro, e piover pezzi di legno e arnesi a distanza che se ne trovarono in S. Marcellino. Dappoi lavorato più mesi si trasse dal fondo del mare ogni cosa, fuorché le argenterie e i denari, che mai non si poterono trovare.

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«A spiegare il caso fu supposto non forse il contestabile, tentando rubar la polvere, a udir la sentinella annunziare il capitano, sbalordito lasciasse la candela nella santa Barbara. Ma il sospetto di mena settaria serpeggiava; il rafforzavano gli argenti e i denari spariti, lo scoppiar pria che arrivassero gli uffiziali, Tessere il secondo scoppio di polvere avanti la reggia avvenuto in pochi di, che non avviene in cento anni, e Tesser seguiti al Bentivegna e al Milano, e tra quei marini che poi tradirono sì turpemente. Le indagini niente spiegarono; il capitano Faowls n’uscì con lieve punizione, ed ebbe campo da rendere altri mali servigi a suo tempo; tanto eran molli gli ordini di quel nostro governo dipinto tirannissimo! Per non tacere nulla, noto che s’eran fatti costruire a Palermo, ordinati dal Conte d’Aquila, certi fuochi artificiali, per segnali di legni a mare: e dissesi essersene posti per dolo o sciocchezza e nella polveriera, e nel Carlo III. Dopo il fatto misero il resto de’fuochi in una riservetta al Granatello, che dopo alquanti dì arsero da se. (1) –

Importante rivelazione

In un importante incarto troviamo qualche appunto, che da fedeli cronisti raccogliamo. Nel tempo di cui è parola, il partito Murattista faceva a gara col Mazziniano piemontese, per assalire il Governo di Napoli. – In codesti criminosi tentativi, vi è detto, si scuopre la mano occulta del partito Murattiano; correva anzi in quest’epoca riserbata voce che il Generale, presunto capo del partito stesso, (il nome è cancellato nell’incarto) per mezzo dei suoi agenti avesse fatto promettere vistosissimo compenso pecuniario all’Ufficiale di artiglieria, preposto alla custodia del parco di munizioni da guerra, cioè a dire di circa 16 cantaia di polvere da sparo, depositate nel reale palazzo di Napoli, affinché riponesse quivi tre piccole macchine in forma di uovo, che scoppiavano e incendiavano dopo 36 ore. L’agente istigatore spiegava di usare cautela nel collocarle, e notava, come funesta all’esecutore, la disaccortezza adoperata nel precedente attentato della esplosione nel porto. Con ciò confessa, che ancora per opera del suo partito ciò fosse accaduto. La lealtà del suddetto Uffiziale sventò l’iniquo attentato. Ma quale terribile rivelazione circa uomini, che tra poco alla testa del fedele esercito, dovranno difendere il Reame da invasori slanciati dalle sètte!….

(1) De Sìto, loo. cit, p. 348.

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 fonte

eleaml.org

 

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