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Pasolini, l’uomo ribelle, iconografo iconoclasta

Posted by on Apr 20, 2017

Pasolini, l’uomo ribelle, iconografo iconoclasta

Quando il mondo apprese la notizia del suo assassinio, all’alba del 2 novembre 1975, il nome di Pier Paolo Pasolini era legato ad un’opera cinematografica eccezionale per le sue scelte estetiche, ma anche per i suoi soggetti, in cui la violenza aveva finito per dominare. Pasolini (poeta, romanziere, cineasta, drammaturgo e pittore) moriva in una maniera che inorridiva, ma che non sorprendeva. Immediatamente nacque un mito, una leggenda, di proscritto e di martire, magnificata da un’opera cinematografica e letteraria provocante ed irrecuperabile. Da allora si sono letti i suoi romanzi, le sue poesie, si sono rivisti i suoi film, si è compresa la sua vita, ricca di avvenimenti drammatici, sotto una luce nuova, la luce abbacinante della sua morte.

Oltre trentasei anni sono passati da quella lugubre notte in cui fu scoperto il suo corpo, massacrato, battuto a morte con un palo di legno divelto da un recinto e schiacciato dalle ruote della sua Alfa Romeo.

Morto prematuramente, a 53 anni, Pier Paolo Pasolini lascia, a fianco dei suoi film, un’opera poetica, romanzesca e teorica considerevole. “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” ce lo ricordano. Personaggio pubblico, e tuttavia molto segreto, egli nutriva una singolare bulimìa creativa, che non aveva che uno scopo: azione per il pensiero. Agendo, Pasolini voleva salvare l’uomo dalla degradazione e dal peccato. I suoi due impegni, uno presso i comunisti, l’altro presso i cattolici, dipendevano da una concezione tutta personale dell’esistenza.

Così il suo comunismo non era quello degli apparati, con i quali era in lotta permanente, ma tutt’altro: chiedendo al mondo dei valori, differenti da quelli offerti dalla società in cui viveva. Così il suo cattolicesimo profondo, nato dalle sue lontane origini, alla ricerca di un bisogno d’assoluto che non lo lasciò mai. Pasolini aveva scelto il proprio campo: quello della contestazione permanente, difficile, arida, suscettibile di non offrirgli né acchetamento né consolazione.

A suo modo, egli lottava contro la “nuova barbarie”, quello che si chiama oggi la globalizzazione, e aveva fatto della sua solitudine un’arma. E’ essa che Pier Paolo voleva mettere al servizio degli altri. E’ in questo senso che fu un Sebastiano moderno, trafitto da frecce e consenziente, ma più ancora, senza dubbio, un nuovo San Paolo di Tarso. Un uomo immerso nella realtà del suo tempo, che, rinnegando un’educazione che gli è stata imposta, si sforza di combattere per un mondo “diverso”; un uomo, a questo punto, ghermito dalla sua felice acutezza d’ingegno che ne diviene quasi cieco: “Mostrami un modello per i credenti”, ci dice Pasolini, con la parola, la condotta, la carità, la fede, la purezza”.

Alberto Moravia pretendeva che Pasolini fosse un buon esempio nella maniera in cui un artista può, per la via indiretta dell’esperienza esistenziale, “giungere agli stessi risultati della sociologia più moderna e più sottile”. Egli pretendeva anche che con Giacomo Leopardi, con Gabriele D’Annunzio e con alcuni altri, esprimesse “con grande autenticità” il tema del lamento “sulla patria decaduta”. E’ esattamente quello delle “Lettere luterane”, libro premonitore ed ispirato, che riunisce articoli ed interventi scritti tra l’inizio del 1975 e i primi giorni di ottobre dello stesso anno. In queste pagine, che non hanno né il rigore freddo della dimostrazione né la rilassatezza possibile della semplice conversazione, ma rivelano la parte più intima di se stesso, si sprigiona una singolare nostalgia della filosofia dei Lumi, e della pedagogia, solo strumento suscettibile di salvare il mondo.

Appena a vent’anni, Pasolini scriveva ad un amico del Friuli che le righe buttate, alla rinfusa, su carta da lettere erano poesia, “e nella più commovente”. I testi sparsi o incompiuti, riuniti in “Poesie a Casarsa”, hanno la forza di chi traccia involontariamente un autoritratto di una sincerità assoluta. Volta a volta ironico e tenero, lirico e profetico, violento e sferzante, la prosa di Pasolini è il segno di un instancabile epistolografo di se stesso.

Ricordiamoci che, sin dalla sua uscita, nel maggio 1955, “Ragazzi di vita”, il suo primo romanzo, suscitò scandalo e controversia. Si rimproverò a questo giovane giornalista del quotidiano cattolico “Il Quotidiano” di frequentare un poco troppo il mondo sottoproletario delle periferie di Roma e di avvantaggiare troppo ostensibilmente il “realismo”. La vita breve e violenta di Tommasino, eroe sfortunato di “Una vita violenta”, romanzo pubblicato nel 1959, non è senza richiamare il percorso di Pasolini, che mescola misticismo cristiano esacerbato e marxismo. Questa “lunga strada sabbiosa”, per riprendere il titolo del suo diario di viaggio tra Ventimiglia e Trieste, è ben quella percorsa da Pasolini, questo grande poeta civile che ritorna sempre all’infanzia; “Adulto? Mai – mai come l’esistenza che non matura – resta sempre verde da giorno splendido in giorno splendido”

 

di Alfredo Saccoccio

 

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