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Pompei : i misteri di una città sepolta

Posted by on Ago 16, 2019

Pompei : i misteri di una città sepolta

Per duecentocinquant’anni, tutti hanno ripetuto stupidamente che gli abitanti di Pompei stessero riparando i guasti del terremoto del 62, quando è capitata l’eruzione del Vesuvio. Li si è veramente presi per buoi ! Per undici anni, senza tregua, con ostinazione, l’archeologo Antonio Varone, facendo giravolte da una passarella in asse di legno, ha scavato nel cuore di un vasto edificio molto sciupato della via dell’Abbondanza, dove, lungo la viuzza adiacente, sono visibili tre fosse settiche. Avrebbero essi lasciato per diciassette anni queste fosse aperte ? Orbene, è così che il Varone le trovò, oltre vent’anni fa, piene di deiezioni ricoperte dalle pietre pomici dell’eruzione.
Perché ? Perché Pompei aveva subìto, alcuni giorni prima dell’eruzione, un nuovo terremoto e sono le tracce di quest’ultimo che i pompeiani si sforzavano di cancellare. Un’altra prova ? Vecchie fenditure colmate dalla calcina e già annerite lungo un camino.

Erotismo torrido
Questo sisma spiega forse perché non si sono ritrovati che duemila corpi in una città il cui anfiteatro contava quindicimila posti ed il teatro cinquemila : i più assennati erano già fuggiti all’alba del 24 agosto.
Dall’atrio alla stalla giacevano al suolo gli scheletri di cinque asini e di un cavallo, dinenticati dal loro padrone. Al momento del dramma, si era in corso di refezione nella sala da pranzo, il cosiddetto “triclinium”.
I pittori cominciavano ad affrescare dall’alto. La prova ? La parte inferiore del muro non è ancora imbiancata di vernice. Orbene, per gli affreschi non si pone la spalmata che al momento di dipingere.
Come era organizzato il lavoro ? In squadre, molto gerarchizzate apparentemente. Su una delle pareti divisorie, una grande superficie di vernice fresca è stata appena posta. Un apprendista si apprestava verosimilmente a passarvi il fondo nero. In compenso, il rettangolo vuoto nel mezzo del muro del fondo è ben più piccolo. E’ lì lo spazio riservato al maestro affinché dipinga il suo quadro.
Su questo muro quasi terminato vi sono dei piccoli motivi in rilievo. Vi erano dunque due altri impiegati, subalterni senza dubbio, incaricati di realizzare, al metro e a secco sugli affreschi, i motivi architettonici decorativi…
Il suolo del piano è ricoperto da tre metri di pietra pomice, brutalmente sbarrato da uno strato duro, di dieci centimetri di spessore. Le pietre pomici sono cadute dal mezzogiorno alle 8 della sera. Fin lì, erano morti solo gli schiavi ai ferri, il cane al guinzaglio, i cavalli dimenticati dal padrone. Però, alle 20, brutalmente, sono apparsi dei gas e delle ceneri incandescenti, della velocità di 80 chilometri orari. La maggior parte delle vittime sono state trovate in questo sottile strato. E’ lo strato della morte della città.
Seguono un nuovo strato di pietre pomici, più fine, poi una nuova nube di gas incandescenti e di fango proiettato lateralmente a grandissima velocità” : lo strato duro ch esso ha lasciato è pieno di mattoni, di tegole, di ferràglia. Resta un interrogativo: perché questo nome di “casa dei Casti Amanti” ? Abbiamo trovato scene di un erotismo così torrido nel guardaroba delle terme suburbane pompeiane che il quadro scoperto qui, che rappresenta un tenero bacio, ci è parso degno di essere salutato per la sua castità… anche se la signora in questione ha tutte le probabilità di essere una prostituta!
Villa dei Misteri : editi due libri su uno degli insiemi pittorici più importanti del mondo romano

Così va la vita scientifica che, ad alcuni mesi di intervallo, due grandi libri propongono due interpretazioni opposte di un monumento fra i più celebri della pittura antica e che ha già suscitato pubblicazioni in gran numero. Nella primavera del 1998, Paul Veyne prendendo largamente il contropiede delle interpretazioni anteriori, non voleva vedere in questo sontuoso afftresco, riservato agli appartamenti privati di una ricca donna di Pompei, che l’evocazione di un matrimonio, in cui i simboli del sacro non figuravano che per quanto essi impregnano tutta la vita degli uomini dell’Antichità. Dimostrazione stupenda e che strappava largamente la convinzione.
Gilles Sauron in “Il grande affresco della Villa dei Misteri a Pompei”, dopo la stupefacente interpretazione di Paul Veyne, procedendo ad una lettura più “classica” della suddetta villa, contesta questa interpretazione e sostiene, con non meno fulgore e talento, una lettura più tradizionale, ma anche più complessa, di questo affresco “concepito come un enigma”. Si sarebbero rappresentate “in parallelo tre storie, da una parte quella di Semele (a destra) e quella di Dioniso (a sinistra), e d’altra parte quella della sacerdotessa che rivive queste due storie in certi avvenimenti apparentemente, puramente umani della sua vita ma anche per la sua partecipazione alle iniziazioni femminili (come iniziata, poi come iniziante) e maschili (solo come iniziante), ai misteri dionisiaci, e la fusione in una sola narrazione pittorica di queste tre storie parallele forma tutta la materia di questa sontuosa illustrazione della storia di una donna che ha preteso di identificarsi con gli dei”. Interpretazione che si inscrive, dunque, nel drittofilo della maggior parte degli autori che l’hanno preceduta. Ciò non significa che Sauron non apporti niente di nuovo.Lo si misura tanto meglio in quanto si prende la pena di stendere un bilancio storiografico appassionante, che mostra la varietà infinita delle identificazioni del particolare quanto delle interpretazioni di insieme.
Gilles Sauron, grazie ad una serie di raffronti iconografici spesso decisivi, ne ricusa molti e rischiara molti dei simboli oscuri o mal compresi. E il suo apporto, su certi punti, pare difficilmente contestabile, come l’identificazione di Semele (non di Ariana) al fianco di Dioniso (idea ripresa da Boyancé), o la distinzione tra i sileni si Apollo e quelli di Dioniso. In linea di massima, la concatenazione della dimostrazione seduce e, con una felicità d’espressione mai colta in fallo, Gilles Sauron conduce il lettore ad aderire alle sue conclusioni. In altri termini, egli dà dell’interpretazione classica la spiegazione meglio argomentata, entrando nei particolari , senza mai perdervici, non lasciando niente nell’ombra, non trascurando né la forma di una acconciatura né il colore di un mantello. Un’erudizione senza incrinatura, la sua, ma costantemente dominata ed esposta con una limpidezza che rende la lettura scorrevole per tutti.

ESITAZIONI

E tuttavia, impeccabile che sia la dimostrazione, si esita ad abbandonare Veyne per Sauron. Perché ? Seducente senza alcun dubbio, la tesi di Sauron poggia però su un postulato espresso presto : l’affresco si situa nel contesto “delle pratiche iniziatiche dionisiache che ne formano l’essenziale dell’ispirazione”. Certo, nessuno pensa a negare la presenza di Dioniso e di elementi che si rapportano al suo culto o ai suoi miti (Semele, il ventilabro mistico), ma a formulare, per ipotesi, che ci si trovi di fronte ad una scena di misteri, il rischio era grande di finire per dimostrare che si tratta ben di misteri ! Ciò conduce Sauron, per esempio, a ritrovare la “Domina” in parecchi personaggi dell’affresco, a momenti diversi della sua vita di donna e di iniziata, e a supporre una composizione di una grande complessità, di cui l’accomandante avrebbe ordinato ogni particolare. Malgrado l’intelligenza della dimostrazione. si esita a sottoscrivere senza riserva tante sottigliezze.
Si accorderà volentieri a Sauron che questa decorazione “esprime sotto forme velate una verità ed una sola” ed occorre dunque rinunciare all’idea che ogni lettura sia legittima.
Certo, “se gli esegeti contemporanei si sono contraddetti, è perché essi sono vittime dell’ “offuscamento” concertato, che ha presieduto alla messa in forma del messaggio plastico che esso esprime”, ma, più ancora, l’esegesi ci fa misurare qui quale abisso ci separa da una civiltà che rivendichiamo come nostra, ma i cui aspetti essenziali ci restano tanto oscuri quanto i miti dei Papuasi o quelli degli Aruachi, dell’America Centromeridionale, poiché, piuttosto che di offuscamento concertato, è di perdita di senso che occorrerebbe parlare : questa cultura ci è divenuta largamente estranea poichè, benché ci abbia lungamente nutriti della sua lingua e dei suoi miti, essa obbedisce ad altri comportamenti di fronte al sacro, ad altri codici sociali e morali, che non possiamo provare a capire dall’esterno, come quelli dei Papuasi o degli Arauchi ! La comprensione delle opere non ci è più possibile senza un formidabile apparato didattico e dotto, senza una dimostrazione scientifica necessariamente sottomessa alla valutazione, poiché non possediamo più i referenti intellettuali e spirituali che ne permetterebbero il deciframento simultaneo. Resta il potere di seduzione di una plastica di una rara perfezione, che affascina ed emoziona, a dispetto delle nostre ignoranze.

Pompei licenziosa

La capra ha uno sguardo languoroso per il dio Pan, mezzo uomo, mezzo capro. Questa scultura, in marmo bianco, “lasciva, ma bella”, secondo uno storico d’arte di questo secolo, costituisce una delle opere di maggior rilievo della collezione “erotica” di Pompei presentata dal Museo archeologico di Napoli. Realizzata nel II secolo a. C., la statua proviene dalla città gemella di Herculanum, seppellita nella stessa eruzione del Vesuvio nell’anno 79 della nostra era.
Circa 250 pitture, sculture ed oggetti erotici furono assemblati dall’archeologa Marinella Lista con il sovrintendente Stefano De Caro nelle tre salette precedute da un vestibolo che i Borbone avevano pudicamente chiuso al pubblico, valente alla collezione il nome di “gabinetto segreto”.
Bisogna innanzitutto attraversare la casa del Fauno, che contiene i più bei mosaici colorati di Pompei, con i suoi affreschi nilotici popolati da innumerevoli animali africani (coccodrilli, ippopotami, ibis) e con l’immensa epopea della battaglia di Alessandro Magno contro Dario. Questi mosaici datanti al 120 a. C. furono resi al pubblico, dopo un restauro durato due anni.
Nell’anticamera, un mosaico in bianconero, di grande dimensione : rappresenta tre barche nelle quali si amano delle coppie di pigmei, mentre un asino tradisce il compagno. Un poco più lontano, Pan tenta di sedurre un giovane efebo. In una vetrina, una profusione di ex voto molto espliciti, a carattere divinatorio.
La prima sala presenta pitture che mostrano il mondo degli dei, quello di Venere e, standole di fronte, quello di Apollo. Le pitture sono graziose e delicate. Ciò non esclude le licenziosità, come quel fauno che stuzzica un ermafrodito sotto lo sguardo sconcertato di una bella Menade. La seconda sala è consacrata al giardino, o più esattamente ad una natura, in cui Ermes, il protettore dei campi, mette ordine ed organizzazione. Ecco i termini (delimitanti i terreni) dalle forme molto mascoline, dei fauni scatenati contro delle baccanti.
Ancora più esplicite, ed anche francamente salaci, le scene della terza sala, che rappresentano la vita domestica, il banchetto, la vita dei lupanari che abbondano a Pompei (trentacinque. di cui due grandi, per una popolazione di 12000 abitanti). Scene di piacere, scene educative. Scene di sbicchierata ancora accompagnate dagli strumenti del rito, lampade ad olio scolpite di giochi acrobatici erotici…Questi oggetti, graziosamente lavorati, sono destinati ad allontanare gli spiriti maligni.
In linea di massima, questi quadri e questi oggetti non erano destinati al pubblico, neanche ordinariamente mostrati alle spose. Essi erano conservati nei “cunicoli”, camere dei padroni di casa, dove erano rappresentati gli amori di Giove per Danae o per Ganimede. O ancora riservati ai lupanari. Ciò non vuol dire che le strade di Pompei erano pudibonde. Tutta la città rendeva omaggio alla virilità, simbolo di ricchezza e di fertilità. “Ic habitat felicitas”, proclama un’iscrizione, che era il solo mezzo di informazione e di pubblicità che si possedeva incisa su un sesso in tufo appeso al di sopra del forno di un panettiere. L’epigrafe vuol dire : “Qui abita la prosperità.”

Alfredo Saccoccio

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