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Profili biografici di illuministi meridionali (Napolitani)

Posted by on Mag 2, 2018

Profili biografici di illuministi meridionali (Napolitani)

Profili biografici degli illuministi meridionali Giuseppe Palmieri e Giuseppe Maria Galanti.

Giuseppe Palmieri fu una figura un po’ atipica nel panorama degli illuministi meridionali, nacque a Martignano nel 1721, da una delle più illustri famiglie di Otranto. La sua formazione avvenne nel collegio dei Gesuiti di Lecce, durante l’adolescenza il regno passò in mano a Carlo di Borbone. A 13 anni intraprese la carriera militare venendo eletto alfiere di reggimento, nel 1734 era sottotenente della compagnia di fanteria di Don Francesco Basta. Al re mancava la conquista della Sicilia, e qui fu la prima campagna del Palmieri.

Nel 1740 si trovava in licenza a Napoli dove stette per quattro anni, in questo lasso di tempo entrò in contatto e divenne discepolo del Genovesi, il quale ancora non insegnava all’università e le sue lezioni si svolgevano in forma privata. La sua carriera d’arme proseguì scalando il cursus honorum delle gerarchie militari. All’età di quarant’anni si ritirò dalla carriera militare e decise di dedicarsi ai suoi possedimenti. Nel 1761 pubblicò due volumi dal titolo “Riflessioni critiche sull’arte della guerra”, in quest’opera non si rinviene nessuna influenza illuminista da ciò desumiamo che i lumi non si erano diffusi nell’esercito, il revisore fu Antonio Genovesi il quale affermò: «Lampeggia dappertutto ne’ pensieri dello scrittore un chiaro, sottile e sodo spirito filosofico, congiunto a non ordinaria erudizione». Il merito di queste pagine stava nella loro logica e nella nascita di un nuovo sentimento politico e civile. Il 1762 fu l’anno del congedo definitivo, così da potersi dedicare a tempo pieno all’amministrazione delle sue proprietà. Dalle opere di Genovesi trasse spunti critici contro l’inerzia della nobiltà, tracciò un programma di trasformazione economica che prevedeva la riforma del settore creditizio e finanziario. Auspicava la creazione di un sistema di casse locali e l’abbattimento delle barriere che impedivano ai capitali di giungere dove sono necessari, tali barriere erano l’usura praticata dai grandi proprietari terrieri, la trasformazione del credito nelle campagne poiché l’agricoltura aveva bisogno di molto denaro e sarebbe prosperata in relazione alla mole d’investimenti. Palmieri parlava di liberismo per quanto riguarda il commercio del grano, consigliando che l’esportazioni fossero fatte ai prezzi più alti al fine di ottenere i capitali per la vita del paese e in ultimo era necessario far decollare la manifattura. Egli aveva compreso la grave condizione in cui versava il paese rendendo necessaria la riforma economica così come la riforma dei codici. La mentalità riformatrice del Palmieri era intrisa di moderatismo figlio della conoscenza reale dei mali e delle effettive debolezze della società e dello stato. Credeva nella capacità e nella ricchezza dei proprietari terrieri ritenuti lo scheletro del regno, i quali avevano la capacità di determinare la povertà o la ricchezza d’una nazione. Le critiche che muove alla ricchezza dei proprietari terrieri avevano il fine di smuoverli dalla loro inerzia trasformandoli in proprietari attivi, colti e industriosi. In Inghilterra e Francia, così come in Toscana e a Genova, i nobili si dedicavano all’agricoltura e al commercio, soprattuto dimoravano in campagna, al contrario nel Regno di Napoli essi avevano abbandonato le campagne e si erano trasferiti nelle città. Per Palmieri era necessario che la nobiltà assurgesse a classe produttiva, i baroni dovevano dedicarsi alle imprese commerciali. Egli era contrario alla divisione delle terre in piccole porzioni, era convinto che solo la grande coltura potesse dare risultati soddisfacenti, quindi era contro la fisiocrazia che proclamava l’assegnazione di terreni ad ogni contadino e la tassazione delle grandi proprietà, su questo punto contrariamente egli proponeva l’abolizione delle tasse per i proprietari terrieri cosicché avrebbero avuto più denaro da investire nella terra. Tra Genovesi e Palmieri ad un certo punto si può cogliere, come dice Ajello, una differenza di tono ideologico ed eticopolitico. Per il primo le necessità produttive non devono mai andare a discapito della moralità e dell’onestà, criticando coloro che agivano in danno ai deboli, il secondo invece adotta un criterio ormai già in via di codificazione: il punto di vista capitalistico. Il Palmieri era sempre convinto delle necessità di distruggere i privilegi, i pregiudizi e i monopoli, sul piano economico puntava alla liberalizzazione affermando che per migliorare la vita dei contadini bisognava migliorare quella dei possidenti.

Il 15 luglio 1783, all’età di 62 anni, gli viene data la possibilità di mettersi alla prova e mettere in pratica i suoi propositi. Fu messo a capo dell’amministrazione delle dogane della provincia d’Otranto, ma molto poco poté fare dato la grave situazione in cui era il paese. Tentò comunque tramite vari provvedimenti di migliorare le condizioni, tanto che Acton lo invitò a Napoli il 24 febbraio 1787, Palmieri accettò l’invito e si ritrovò per un anno come collega Gaetano Filangieri, prima che la morte lo chiamasse, Carlo De Marco e Ferdinando Corradini. Il 6 settembre 1791 divenne direttore delle finanze succedendo a Corradini, i provvedimenti che mise in atto nella sua nuova carica furono: l’abolizione di alcuni pedaggi, la programmazione di una nuova tariffa doganale che però rimase solo sulla carta, l’abolizione del monopolio della manna e dello zafferano anche se ormai i mercati di esportazione di queste derrate si stavano chiudendo. Tra le parole del Palmieri e le sue azioni, quando ne ebbe l’opportunità, si ravvisa uno scollamento tant’è che altri intellettuali gli mossero delle critiche accusandolo di fare tutto il contrario di ciò che aveva scritto.

Giuseppe Maria Galanti nacque a Santacroce di Morcone il 24 novembre 1743, era discendente di un’agiata famiglia molisana. A nove anni venne inviato a studiare a Napoli da uno zio che poco e nulla si curò di lui. La sua strada la trovò da sé, oltre l’obbligo imposto dalla famiglia di frequentare giurisprudenza, entrò in contatto con un uomo che gli cambiò la vita e gli indicò il sentiero da percorrere, l’abate Genovesi, iniziando così a dedicarsi agli studi politici ed economici. Nonostante le sue resistenze nel dedicarsi alla pratica forense, sempre

sotto obbligo della famiglia, tra il 1762 e il 1765 si laureò e, sebbene contro voglia, cominciò ad esercitare la professione legale. Alla morte del Genovesi, nel 1769, ne scrisse l’Elogio storico a riprova di quanto lo avesse toccato e cambiato nel profondo; lo scritto venne revisionato con esito positivo dal professor Domenico Mangieri. Sulla scia del suo mentore le sue battaglie si rivolgono contro le leggi feudali a difesa de “la parte più utile del genere umano”, cioè i contadini; contro le mani morte, la superstizione, il diritto canonico e le Decretali, da questi punti si palesa l’influenza che il pensiero genovesiano ebbe nella vita e nella formazione intellettuale del Galanti. Curioso è l’atteggiamento dell’avvocato molisano nei confronti dell’istituto della devoluzione, in un primo momento in linea con il pensiero del Filangieri che tendeva alla sua abolizione, in un secondo momento vedendone i benefici scrisse: «le devoluzioni accadute in questi ultimi anni hanno fatto rientrare sotto l’immediata giustizia del sovrano moltissime città e paesi, che gemevano sotto il giogo dell’oppressione». Egli notò, dopo il dietro front nei confronti della devoluzione, che per la riforma del feudo erano necessarie due condizioni indefettibili, una di queste era la su citata devoluzione, l’altra era la formazione dei catasti. Mancando una di queste condizioni non si poteva pensare neanche lontanamente di contrastare gli abusi della feudalità. Le lodi del Galanti vennero decantate da personaggi di spicco quali, Voltaire, d’Alembert e Isidoro Bianchi, subì anche persecuzioni per via del tomo terzo delle sue “Dissertazioni”, definito dal Cardinal Sersale, Arcivescovo di Napoli, “pieno di sconcezze contro la religione e lo stato”. Una commissione, formata dall’Arcivescovo Testa di Reggio, dall’Arcivescovo De Alteriis di Acerra e dal canonico Simeoli, venne istituita per giudicarne il contenuto, prese le sue difese il Segretario di Stato De Marco, lo stesso che aveva appoggiato Genovesi nella sua lotta contro l’insegnamento del diritto canonico all’università, il Galanti riuscì a scamparla.
Nel 1781 scrisse “Descrizione dello stato antico ed attuale del contado di Molise, con un saggio storico sulla costituzione del regno” al cui interno affermava: «per conoscere lo stato di un regno, bisogna conoscere la sua costituzione ed aver contezza delle sue provincie. Si vogliono visitare i campi e le capanne del contadino; vedere come coltiva, esaminare quello che si coglie, quello che paga, quello che soffre, per iscoprire l’origine delle nostre miserie e per prestarci, quando si voglia, riparo», da quanto appena letto traspare l’onnipresenza dell’influenza fisiocratica del Genovesi e la convinzione, condivisa da tutti i colleghi illuministi, che solamente conoscendo lo stato delle province si sarebbe potuto intervenire per una ristrutturazione politica, economica e finanziaria del regno tutto. Galanti faceva parte del ramo pragmatico della scuola genovesiana, un dubbio lo assillava costantemente, chi avrebbe avuto la capacità di compiere queste riforme? Non vedeva nei filosofi quella capacità d’azione che gli avrebbe permesso di trasformare in realtà tutti i buoni propositi che erano stati messi nero su bianco con fiumi d’inchiostro. Il limite dei suoi colleghi e il suo, era che le lotte avevano dimensione locale, circoscritte in paesi e province, che sebbene costituissero delle battaglie le cui vittorie creavano avvisaglie di cambiamento, non potevano e non avevano la forza di rendere pandemica l’onda riformatrice.
Tra il 1782 e il 1785 scrisse “Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie”, la più famosa delle sue opere, per la cui stesura raccolse dati in giro per il regno ed in cui affermò: «In Napoli si conosce forse più lo stato dell’isola degli Otaiti che quello delle nostre provincie», un’affermazione molto significativa che indicava lo stato d’ignoranza della classe governante nei confronti delle sue stesse terre, come era concepibile governare, o meglio governare bene, un qualcosa di cui non si conoscono le esigenze? Il manoscritto passò l’esame della censura e piacque al re e alla regina. Il primo volume vide la luce nel 1787.
Nel 1791 venne nominato visitatore del regno, carica tanto lodata e necessaria secondo Grimaldi. Galanti stesso disse nell’accingersi a svolgere questo nuovo compito: «Non era più tempo per cose letterarie», così iniziò concretamente ad analizzare sistematicamente tutti gli aspetti politici, economici, ecclesiastici e persino il territorio di ogni provincia in cui si ritrovò. Visitò la Puglia, l’Abruzzo, la Calabria e la Sicilia, oltre a spingersi oltre il regno visitò anche lo Stato Pontificio. La sua ultima opera rilevante, il “Testamento forense” era intriso di tutte le conoscenze che aveva acquisito nell’espletare il suo compito di visitatore, fu una sorta di programma d’azione da cui si ricavano: la necessità di un legame tra la riforma giudiziaria e la trasformazione sociale; la lotta contro i potenti; la necessità di trasformare la struttura amministrativa rendendola adeguata alla realtà sociale; la politica fiscale si doveva fondare sui beni non sulle persone e per ultimo, come tutti gli illuministi credevano, l’importanza centrale dell’istruzione e dell’educazione. Galanti muore a Napoli il 6 ottobre del 1806 all’età di sessantatré anni.

 

Autore articolo: Davide Alessandra

fonte

historiaregni.it

 

 

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