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QUADRO STORICO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE PER MICHELE DE SANGRO

Posted by on Nov 30, 2018

QUADRO STORICO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE  PER MICHELE DE SANGRO

IL PASSATO ED IL PRESENTE

QUADRO STORICO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE PER MICHELE DE SANGROTRIESTE

Tipografia dal Lloyd adriatico

1866 

Pio. IX, Francesco II. Ecco gli uomini più grandi del nostro secolo, i nobili rappresentanti del più legittimo, del più inconcusso diritto, i quali, incubo eterno delle sette e delle società segrete, sono fatti segno all’odio, alle calunnie, alle trame, e per fino alle violenze de’ Capi di esse.

La rivoluzione del 60, incoata a Magenta ed a Solferino, trovava libero il campo nel regno delle Due Sicilie, ove la giovane onestà del suo Monarca messa al fianco de’ più noti cospiratori non potè chiamarsi d’intorno l’aristocrazia del Regno; questa potente forza de’ Troni, la quale inesperta in quel florido e pacifico reame a movimenti politici, non seppe stringersi al suo Re, e con esso lui combattere quelle trame, che ordite nel silenzio delle tenebre minacciavano e la sua Corona, e le proprietà di quelle Provincie.

Non pertanto, l’aristocrazia del Napoletano protestava col suo allontanamento agli atti iniqui, che nel Regno si operavano, ed ora son cinque anni, che angariata e minacciata dall’oppressore Governo resiste alle pene dell’esilio, cui pur troppo le presenti condizioni amministrative del Regno rendono a molti quasi impossibile prolungare.

In nome adunque di questa aristocrazia io faccio appello a quanti havvi di uomini onesti in Europa. In nome di questa, io mi propongo paragonare le glorie del passato all’abbominio del presente. È in suo nome che domando alla Francia se è giusta, se è leale la condotta del suo Governo verso il rappresentante di Dio sulla terra, e verso l’Augusto discendente di S. Luigi.

A Voi adunque, che nella vostra semplicità credeste alle calunnie che fin nelle Aule Parlamentari di Grandi Potenze si scagliavano al Governo di questi venerati ed Augusti Sovrani: a Voi, che non aveste la sciagura di cadere nel fondo della degradazione dando il vostro nome alle società segrete nemiche della luce e della verità, dell’uomo, e di Dio: a Voi, amanti di libera civiltà e verace progresso, che attoniti guardaste e l’uomo del 2 Dicembre, e le rivolture preparate da lui: a voi io diriggo questo scritto per interessarvi sulla presente situazione, nella quale milioni di uomini nel centro di Europa, nel più bello della Italia, giacciono immersi nel lutto e nella miseria.

Farvi esatta esposizione del miserando stato in cui sono ridotti 10 milioni di genti nel Napoletano, analizzare lo stato di confusione in cui la licenza, il dispotismo, il delitto, la stoltezza, l’orgoglio, l’umiliazione, l’arroganza, la codardia, l’atrocità, il ridicolo si urtano, si uniscono, si combattono, e si confondono tra loro; farmi l’eco delle grida confuse di un Popolo fremente, dipingervi lo stupore, lo abbattimento e la indignazione, il sarcasmo e la minaccia, l’odio e la rassegnazione in cui quei miseri da cinque anni giacciono, nel veder distrutto quanto avevano di ricco e di bello, è opera superiore alle forze mie; dirò solo che la libertà di stampa gli si dava, e le violenze di fatto, i processi e le condanne sono imposte al pubblico pensiero; la libertà de’ culti si decantava e le Croci si abbattono, le immagini si proscrivono, le chiese si profanano, gli altari e il Santo Tabernacolo si spogliano, i Vescovi ed i Preti s’incarcerano e si bandiscono; la libertà di coscienza si magnificava, e si maltrattano gli agricoltori perché pendeva dallo aratro un rosario, e monache, e frati si scacciano da’ loro asili di devozione, e i loro beni si rubano; la libertà individuale si proclamava, e le carceri, e le segrete rigurgitano, e sono mancate per lo immenso numero de’ detenuti; l’antico Governo s’insultava, il di lui voluto dispotismo si odiava, e gli arresti, le vessazioni, la deportazione, la fucilazione in massa, l’incendio dei Paesi, la legge Pica, i Lamarmora, i Cialdini ed i Fumel, si regalano a quelle Contrade; e mentre ogni specie di malfatto si rimproverava a’ Governi di Roma e di Napoli, e mentre emissarii s’inviavano in ogni parte di Europa per calunniare i loro atti, e renderli odiosi, mentre a tante infamie si contrapponevano le parole di libertà e di indipendenza, ci si permetta che di volo esaminiamo ciò che si è fatto in Europa dopo il famoso 2 Dicembre, epoca in cui è risorto questo spettro napoleonico, che ogni ragione di pubblico ed internazionale diritto calpestando, ha con ogni specie di detrazione formato all ombra del suo trono un secolo di maldicenza e di cattiva fede, un secolo di cattolica persecuzione, un secolo di servilità per la Francia, in fine un secolo che è tutto un tessuto di cospirazioni e di viltà.

Questo secolo, che per opera di pochi uomini è testimone di tante catastrofi reali, e che assiste a tutte le instabilità dinastiche, non vede (fin ora) che il Papato immutabile nei suoi principii, nelle sue azioni, e nel compimento dei suoi doveri. I Sovrani per la grazia di Dio, come quelli per la volontà delle rivoluzioni, cadono gli uni dopo gli altri dai vacillanti loro Troni. Raminghi ed erranti, proscrivendo, e proscritti per turno, accorrono inevitabilmente alla Sede di Pietro, domandando un asilo, che a tutti è aperto dal Padre universale. I Monarchi di fatto e di diritto han tutto perduto, sino la dignità ed il rispetto dell’infortunio, per fino i sentimenti di convenienza. È Roma sola che conserva il prezioso tesoro delle grandi tradizioni Monarchiche e Cristiane, è il Papa solo che oltraggiato e minacciato conserva sempre il rispetto verso l’infortunio, ed accoglie senza distinzione gli esiliati dai Troni.

In un secolo ove l’autorità è subordinata alla fortuna, ove gl’interessi di un momento superano gli stessi principii, questo spettacolo di ospitalità permanente offerta a tutti, è di un prezzo inestimabile.

I Bonaparte che nel 1803 esigevano che un Principe della Casa di Savoja non godesse a Roma di una ospitalità degna del Capo della Chiesa, vennero nel 1814 ad implorare dal Pontefice Sovrano un rifugio che fu loro offerto, e mantenuto, malgrado le minaccienti proteste dell’Europa tutta.

E di fatti il 19 maggio 1814, Sua Santità Papa Pio VII sapendo in Foligno, che la vecchia madre, lo zio, i fratelli, e le sorelle di Napoleone Bonaparte erravano in Europa senza trovare un luogo ove riposare le loro teste, questo Santo e Reale prigioniero del giorno innanzi non consentiva a lasciare senza asilo gli Imperiali proscritti, e per un magnanimo movimento di cristiana carità faceva sapere a tutti i membri della famiglia Bonaparte che Roma e gli Stati della Chiesa erano loro aperti come porto nelle dolorose circostanze in cui si trovavano. Le passate ingiustizie di Savona e di Fontainebleau si estinguevano innanzi alle tribolazioni dei Bonaparte precipitati dai loro troni, non incontrando altro cuore misericordioso sulla terra che quello di Pio VII.

Ed a maggiormente dare appoggio a questi conosciuti fatti, riproduco le lettere seguenti che i componenti la famiglia Bonaparte scrivevano al Cardinal Consalvi, ministro segretario di Stato del Governo di Roma.

Luciano Bonaparte da Londra scriveva al Papa Pio VII lunga lettera in data degli 11 aprile 1814? nella quale si legge il seguente paragrafo:

“Permettete che io feliciti dal fondo del mio cuore Vostra Santità sulla sua felice, ma tardiva libertà, per la quale noi non abbiamo cessato di fare dei voti ardenti dopo che la persecuzione ci ha obbligati allontanarci dall’asilo che godevamo sotto la Vostra paterna protezione. Quantunque ingiustamente perseguitati dallo Imperatore Napoleone, il fulmine col quale il Cielo lo colpisce, non può essermi indifferente. Ecco dopo dieci anni il solo momento nel quale sento di essere suo fratello. Io gli perdono e lo compiango, fo voti ardenti acciò egli entri sotto il manto della Chiesa, e che acquisti finalmente dei diritti alla indulgenza del Padre di Misericordia, ed alle preghiere del suo Vicario.

La madre del primo Bonaparte scriveva al Cardinal Consalvi:

“Eminenza, — Io devo, e voglio ringraziare Vostra Eminenza per tutto quello che ha fatto in nostro favore dopo che l’esilio pesa sui miei figli e su di me.

“Mio Fratello il Cardinal Fesch non mi ha lasciato ignorare di quale generosa maniera Voi avete accolto la domanda del mio grande e sventurato proscritto di S. Elena. Il Cardinale mi ha detto che alla preghiera sì giusta e sì Cristiana dello Imperatore, Voi vi siete premurato presso il Governo Inglese, e che cercate inviargli dei Preti degni e capaci.

“Io sono veramente la madre di tutt’ i dolori, e la sola consolazione che mi resta è di sapere che il Santo Padre obblia il passato per non ricordarsi che dell’affezione con la quale protegge tutti i miei.

“I miei figli Luciano e Luigi, che si onorano della Vostra inalterabile amicizia, sono stati molto sensibili a tutto quello che il Papa e V. E. a loro insaputa han fatto per preservare la nostra tranquillità minacciata da tutte le Potenze di Europa.

“Noi non troviamo appoggio ed asilo, che nel Governo della Santa Sede, e la nostra riconoscenza è tanto grande, per quanto i beneficii che riceviamo. Prego V. E. di depositare l’omaggio ai piedi del Santo Pontefice Pio VII.

“lo parlo in nome di tutta la famiglia di proscritti, ed in ispecie in nome di colui che a piccolo fuoco si strugge sopra una rocca deserta.

“Sua Santità, e V. E. sono i soli in Europa che si sforzano d’addolcire i suoi mali, e che vorrebbero abbreviarne il termine. Io ringrazio tutti e due col mio cuore di madre, e resto sempre di Vostra Eminenza.

La devota e riconoscente,

Madame

“27 Maggio 1818„.

Il Conte di Saint-Leu Luigi Bonaparte, 

ex Re di Olanda al Cardinal Consalvi.

“Eminenza, — Seguendo i consigli del Santo Padre e di V. E. ho visto Monsignor Bernetti, specialmente incaricato dello affare in quistione, il quale colla conosciuta sua franchezza mi ha spiegato ciò che le Potenze di Europa rimproverano alla famiglia dell’Imperatore Napoleone.

“Le grandi Potenze, e l’Inghilterra specialmente, credono che noi cospiriamo tutto giorno. Ci accusano di essere mischiati implicitamente od esplicitamente a tutti i complotti che si tramano, e pretendono che noi abusiamo dell’ospitalità che il Papa ci accorda per fomentare nello interno degli Stati Pontificii, la divisione e l’odio contro la persona del Sovrano.

“Sono stato molto fortunato di fornire a Monsignore Bernetti tutte le prove in contrario, ed egli stesso vi dirà l’effetto che le mie parole han prodotto sullo spirito suo.

“Se la famiglia dell’Imperatore, che tanto deve al Papa ed a V. E., avesse concepito il detestabile progetto di turbare l’Europa, e se ne avessero i mezzi, la riconoscenza che noi tutti dobbiamo alla Santa Sede, ci arresterebbe evidentemente in questa via. Mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle e mio Zio devono una troppo rispettosa gratitudine al Sommo Pontefice e a V. E. per potere giammai attirare dei novelli disastri su questa città, ove proscritti dall’Europa intiera, noi siamo stati accolti con una bontà veramente di Padre, che le passate ingiustizie ci hanno resi anche più toccanti. Noi non cospiriamo contro persona, ancora meno contro il rappresentante di Dio sulla terra. Noi godiamo in Roma tutt’ i diritti cittadini, e quando mia Madre ha appreso di quale maniera veramente cristiana il Papa e V. E. si vendicavano della prigionia di Fontainebleau e dell’esilio di Reims, Ella non ha potuto che benedirvi in nome del suo grande sventurato figlio morto, e versare dolci lacrime di contento per la prima volta dopo il disastro del 1814.

“Cospirare contro il nostro Augusto e solo benefattore, sarebbe un’infamia senza nome.

“La famiglia dei Bonaparte non avrà né oggi, né mai questo rimprovero a farsi.

“Io ne ho convinto Monsignor Bernetti, ed egli stesso ha voluto servirmi di cauzione presso di V. E. Che Ella voglia adunque intendere la sua voce, ed a noi continuare le buone grazie e la protezione del Santo Padre. È in questa speranza che io sono

Di Vostra Eminenza

Il rispettoso e devoto Servitore ed Amico )

Luigi di Saint-Leu.

“Roma 30 Settembre 1821”.

Con quale gratitudine al successore di Pio VII si ricambiano quei beneficii? Oggi nel 1860, per un curioso cangiamento di scena, che è tutto una lezione, il terzo Bonaparte appoggia Vittorio Emmanuele di Savoja, e perseguita sino nella Città Eterna un Borbone, dopo averlo spogliato dei suoi Regni di Sicilia.

Oggi dal discendente di quella stessa famiglia si fanno continue proteste di devozione ipocrita, di fedeltà bugiarda e di falso amore al Pontefice, lasciando nello stesso tempo invadere i suoi Stati, massacrare le sue armate a Castelfidardo, bombardare le sue città ad Ancona.

Oggi il reggitore di Francia, che con amara ironia fa chiamarsi il figlio Primogenito di Santa Madre Chiesa, usurpando cosi perfino questo titolo all’illustre proscritto, che, sventuratamente per la Francia, attende sulla terra dell’esilio il giorno della giustizia, permette che un membro della sua famiglia oltraggi con virulenti discorsi fin nel Cattolico Senato di Francia il Capo della Chiesa.

Oggi il terzo Bonaparte, che deve la vita, la libertà (e forse la sua stessa possanza) al Pontefice Pio IX, covre col manto di devozione le continue domande alla Santa Sede acciò abbandoni quello, che Ei medesimo gli ha fatto rubare, e non potendo questo sedicente tipo di lealtà, ottenere dal Sovrano Pontefice la ratificazione del furto, permette che i bravi difensori della Santa Sede sieno schiacciati da forze dieci volte maggiori, firma la Convenzione del 15 Settembre, e finalmente si accinge ad abbandonare il Santo Padre alle mire della rivoluzione. Ma il Governo della Santa Sede non curando né le sue ipocrite proteste, né le minacciane sue mene, forte nel suo diritto, incrollabile per la storia di diciotto secoli, aspetta con calma, che la giustizia di Dio faccia da altri implorare un asilo alla Sede di Pietro; e siamo certi che tutti saranno accolti dalla Romana Chiesa, fossero quelli ancora che colla più alta tracotanza si sono dichiarati nemici di nostra Santa Religione, e del Papa-Re.

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II.

Francesco IL è lo erede del Giovane sedicenne che nel 1734 moveva dalle Spagne, e che per cessione del Padre e per le riportate vittorie fondò nel Regno, delle due Sicilie (stato per secoli. zimbello di fortuna, e pascolo a proconsoli stranieri) la sua Dinastia.

Rifecenlo indipendente, ed incominciò nuovo stato dotandolo di securtà, industria, e ricchezza.

Carlo III. cancellando le interne discordie fu primo a dare un Codice di Commercio.

Amante della nuova sua Patria l’arricchì con privati tesori: attestalo la Regia e i Giardini di Caserta; i Ponti di Maddalone e i Palagi di Portici e Capo di Monte, i diseppelliti Pompei ed Ercolano, ed in Napoli le strade del Molo e Mergellina, lo Albergo dei Poveri, i Granili, il gran Teatro San Carlo, e le fondate Accademie.

Pose fine al medio Evo, e consacrò con nuove leggi principii di nuovo diritto. Onorò da sommo politico i Baroni, li chiamò accanto, e coll’esca dello sfarzo li fe’ spendere a Corte, ove minorandoli di possanza, fe’ al Popolo gioire delle guadagnate idee di Civiltà.

Chiamato al Trono di Spagna lasciava Napoli e i suoi diritti al terzo suo figliuolo Ferdinando, e qui servendoci del detto di Colletta partigiano dei nemici di questa illustre stirpe, narriamo gli ultimi atti di quel non mai dimenticato Sovrano.

“Carlo III. dopo regolato la successione del Trono, pregato da Dio prosperità a questi Popoli, e sperato durabili le provvidenze di quell’atto, si volse al figlio Ferdinando, lo benedisse gli insinuò l’amore dei soggetti, la fede alla Religione, la giustizia, la mansuetudine, e snudando quella spada che Luigi XIV. diede a Filippo V., e questi a Carlo, ponendola in mano del nuovo Re, e dandogli per la prima volta nome di Maestà: tienla, disse, per difesa della tua Religione, e dei tuoi soggetti,.

Nulla portò seco della Corona di Napoli, volendo descritte e consegnate al Ministro del nuovo Re le gemme, le ricchezze, i fregi della Sovranità, e per fino l’anello portato in dito da lui trovato negli Scavi di Pompei, di nessun pregio artistico, che pur diceva proprietà dello Stato; e così mostravasi cinque anni or sono nel Museo non per meraviglia di antichità, ma in documento della modestia di Carlo. Ecco come il primo dei Borboni venne nelle nostre Contrade ad impiantare la sua dinastia.

E che cosa ha fatto il Re di Sardegna, e il suo Governo, quando con mendace, ed ipocrita alleanza sorprendevano il Regno delle due Sicilie, e le Potenze conservatrici?

Quando fattosi precedere da quarantamila uomini dicevasi chiamato da quelle Popolazioni?

“Annunziate che farò fucilare tutti coloro che prenderò colle armi alla mano. Oggi ho già incominciato.

“Ecco il primo atto del Governo di quel Re, che dicendosi chiamato da un plebiscito, i di cui votanti si componevano d’individui stipendiati dall’oro Piemontese, di volontari Garibaldini, e di sciagurati che cercavano l’impunità nella vendita del loro Paese; mentre in pari tempi sicarii usciti dai Bagni percorrevano le vie armati fino ai denti, minacciando del pugnale, e gettando a piene mani le schede nelle urne.

Ecco, come il Governo di Piemonte cominciò a rigenerare quelle Provincie.

Si diede a togliere a Napoli fin l’ombra della sua autonomia, le tolse i ministeri, gli Archivii, il Banco dei denari privati, i licei militari. Suscitò il municipalismo delle Provincie, contro a quello della antica metropoli, distrusse le sue istituzioni, sostituendo un Codice Piemontese. Perseguitò spudoratamente i più degni Pastori di nostra Religione; peggiorò lo insegnamento secondario; disciolse i Licei, la famosa Accademia delle scienze, e di Archeologia, lo Istituto di belle Arti abolì. — Inviò alle Prigioni di Napoli nuovi regolamenti (e propriamente quelli che Re Carlo Felice donò alla sua Torino), regolamenti che pongono la vita degl’infelici prigionieri, nelle mani di un Carnefice di Piemonte. Ammiserì le finanze sperperando la pubblica pecunia, ed arricchì forse con questa i suoi soggetti? A quale classe sociale di Napoli recava vantaggio il mutamento di Governo? Lo scarso numero di aristocratici Napoletani che aderiva al nuovo dominio era forse apprezzato? Calcolato?

Quale ricompenso si dava a quel Principe Napoletano che stato per dodici anni in esilio, macchiava colà il suo nome, e consumava sua fortuna fra quella abjetta classe di cospiratori?

Quale guiderdone riceveva l’altro principe Napoletano per le lacrime ed i sospiri che l’interessante sua moglie spargeva sulla infelice sorella Venezia?!

Quale distinzione davasi infine a quei pochi gentiluomini che ingannati da lusinghevoli speranze pel bene migliore del loro Paese, o perché dispiaciuti coll’antica Corte di Napoli, accordavano il Loro appoggio al nuovo Governo?

I due primi erano scacciati da un posto che occupavano in Corte, e con un processo di malversazione si dava loro la taccia di ladri.

Coi secondi si profittava dell’ospitalità, del rispetto, della loro confidente buona fede si cercava insultare il loro onore, si cercava sedurre le loro mogli.

Ha forse migliorato le condizioni del Popolo la cangiata dinastia?

Si dà a questo Popolo pane, o lavoro? No! Le intere famiglie veggonsi accattare la elemosina, si vede diminuito, annullato il commercio, serrati gli Opificii privati, ven duti quelli che erano le glorie del passato Governo.

Tutto si fa venire da Piemonte, persino le Cassette delle Posta, la Carta per le pubbliche amministrazioni.

Ai mercanti di Piemonte si danno le forniture delle milizie. Ignoranti di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizii.

Operai Piemontesi si mandano alle ferrovie, e si pagano il doppio dei Napoletani. Ai facchini della Dogana, ai carcerieri, ai birri si sostituiscono Piemontesi, e fino donne di Piemonte si prendono a nutrici nell’Ospizio dei Trovatelli.

Questi sono i vantaggi che Re Vittorio Emmanuele apportava nel Regno.

Aprite una volta gli occhi, o illusi; scuotetevi dal sonno dell’inerzia e dell’apatia in cui siete immersi; comprendete una volta con l’immensa maggioranza del Regno, che voi avete perduto il vostro lustro e le vostre ricchezze, che siete divenuti lo zimbello dell’inetto Piemonte, il quale vi chiama incorreggibili briganti, il quale con la desolazione e con la strage, ha portato nelle vostre famiglie il disonore, contaminando i vostri talami nuziali, violentando le vostre vergini, spargendo il sangue dei vostri fratelli, insultando per fino la vostra fede, la vostra religione, la vostra virtù. Esecratelo con un minaccioso contegno, lasciatelo in balia di sé stesso, e voi vedrete che la caduta o la morte di un solo uomo farà accasciare quanto con i mezzi più infami si è operato nell’infelice Patria nostra.

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III.

Francesco II è l’Erede di Ferdinando IV, che ascendeva al Trono nella non compiuta età di otto anni, di Ferdinando ch’ebbe a superare nel suo Regno e una lunga reggenza, e i primi effetti della rivoluzione di Francia; che ebbe a far fronte alle cospirazioni da colà apportate, e provvedere con mutamenti di legge a seconda dei bisogni di quelle rivolture. Di Ferdinando che sostenne aperta guerra colla Repubblica francese, e che costretta da questa ad abbandonare il Continente ritirossi nella Sicilia, dove provvedendo ad utili riforme, ricevendo le continue proteste di affetto dalle sollevate sue Provincie, assistendo alle barbare e crudeli repressioni che nelle Calabrie i Manes dell’epoca aggravavano su quei Borbonici difensori, che pur chiamavano briganti, seppe, con la fermezza e la giustizia della sua causa, colla scelta di devoti e intelligenti consiglieri conservarsi Potènti alleati, e concorrere con tutte le forze sue alla repressione della Napoleonica ambizione.

Dalla Sicilia, dove con pochi ausiliarii seppe formare esercito cittadino potente, vincere, e scacciate Murat coi suoi, riprendere con dignità, e con clemente perdono quello scettro che gli apparteneva; e finalmente superati i varii casi di regno e di fortuna seppe integro, se non fiorente, consegnare la sua Corona al legittimo successore.

Ma che cosa ha fatto il Re di Piemonte, quando, dopo aver sanzionato a Napoli e l’omaggio al Regicida, ed il furto alla privata fortuna della famiglia dell’antico Re, proclamavasi Signore di quelle contrade? Rispondiamo colle parole che lo illustre Duca di Maddaloni scriveva nella memorabile Mozione d’inchiesta al Parlamento di Torino; e con la quale snidandosi da quel nido di affamati avvoltoi, dispo-nevasi per lo costante amore di vera e libera civiltà ad un volontario, ma secondo esilio, offrendo e il chiarissimo suo nome, e la conosciuta sua dottrina all’Esule Re, i di cui inetti o venduti ministri lo avevano per ben più volte bandito dalla Patria sua.

“I governanti di Torino hanno corrotto quanto vi rimaneva di morale, hanno infrante e sperperate le forze, e le ricchezze da tanto secolo ammassate, hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore, e sin dallo stesso Dio vorrebberlo dividere, dove con Iddio potesse combattere umana potenza. „Hanno insanguinato ogni angolo del Regno combattendo, e facendo crudelissima una insurrezione, che un Governo nato dal suffragio popolare dovrebbe avere meno in orrore.

“Il Governo di Piemonte toglie dal Banco il denaro dei privati, e del denaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti, scioglie le accademie, annulla la pubblica istruzione, per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia, al reggimento delle Provincie mette uomini di parte spesso, sanguinosi ladroni, caccia nelle prigioni, nell’esiglio, nella miseria nonché gli amici e i servitori del passato reggimento (onesti essi siano o no, che anzi più facilmente se onesti) ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato.

“Ogni giorno fa novello oltraggio al nome Napoletano, facendo però di umiliare così nobilissima parte d’Italia, pone la menzogna in luogo di ogni verità, travolge il senso pubblico e la verace idea di virtù e di onoratezza, arma contro ai cittadini i cittadini, e tutti in una vergogna conculca e servi e avversarli e fautori.

“Il Governo Piemontese trucida questa Metropoli che la terza è di Europa per frequenza di popolo, e la prima d’Italia per bellezza di doni celesti e la più gloriosa dopo Roma. Questa Metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo, questa stata sede di tanti Re potentissimi che regnavano e proteggevano quasi tutti gli altri Stati d’Italia, è sotto ai Principi di soave Capitale dell’Impero, dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera e alla meno nobile città d’Italia, a Torino, la cui storia nelle istorie della Penisola occupa non più lunghe pagine che quella dei feudi di Andria o di Catanzaro, o di Atri, o di Cotrone, ora le viene a togliere anche il misero decoro di una Luogotenenza, a strapparle anche quel frusto di pane che un Contino o un Generaletto di Piemonte potrebbero gittare dall’alto dei sontuosi palagi dei suoi Re„.

Ecco come Vittorio Emmanuele giustificava la speranza di quegli illusi che lo ricevettero.

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IV.

Francesco II è lo erede di Re Francesco I.

In cinque anni di Regno, non potè questo Monarca lasciar lunga pagina nella storia delle nostre contrade; pur tuttavia viaggiò molto per ottenere lo allontanamento di truppe estere dalla Patria sua.

Combatté le congiure dei Carbonari in Napoli ed in Sicilia, che scoperti nell’anno 1826, vennero dai Tribunali giudicati a morte o alle galere, e dalla sua clemenza graziati, come lo furono da lui medesimo i colpevoli del 1821.

Nel 1828 si tentò anche dalla Francia fare insorgere il Regno, ma Francesco con alternata severità e indulgenza spense anche questa volta le settarie mene.

Fece questo Sovrano buone leggi amministrative e cercò ravvivare le civili istituzioni.

Ed a memoria del suo Regno innalzò in Napoli il palazzo detto delle Finanze, il di cui suolo è di duecentoquindicimila palmi quadrati, avendo questo edifizio ottocento quarantasei stanze, e quaranta corridori.

Ma che cosa han fatto in Napoli il Re di Piemonte e il suo Governo?

Che cosa ha fatto Re Vittorio Emmanuele, quando venuto a Gaeta per gioire delle bombe che i suoi cannoni Cavalli dirigevano sul figlio di suo congiunto, e sull’eroica ed interessante Regina, tornava a Napoli Sovrano di quel Regno?

Faceva dal Pinelli proclamare ai soldati:

“Siate inesorabili come il destino, purificate col ferro e col fuoco queste regioni infette dalla immonda bava dei Preti”.

Faceva dal Galeteri annunziare:

“Vengo per esterminare i briganti, tutti si armino di falci, di forche, di tridenti e gl’inseguano da per tutto. Chiunque darà ricovero ad un brigante, sarà senza distinzione di età, di sesso o di condizione fucilato,,.

Faceva incendiare Casalduni e Pontelandolfo, città la prima di settemila abitanti, di cinquemila la seconda, e nuovo Nerone faceva sul Diario ufficiale del Regno, annunziare lo avvenimento così:

“Ieri mattina all’alba del giorno è stata fatta giustizia di Pontelandolfo e di Casalduni„.

È la stessa giustizia, gli eroi di S. Martino e di Castelfidardo, i liberatori d’Italia facevano sopra trenta infelici donne che si erano rifuggiate ai piedi di una croce, e che senza pietà furono trucidate.

La stessa giustizia faceva pesare sopra altri undici villaggi, fra i quali Castellammare di Sicilia.

Faceva dai Nigra e consorti commettere tali atti di barbarie, che strappavano un grido di orrore allo stesso John Russel.

Il Governo di Vittorio Emmanuele metteva quelle Provincie nella condizione da obbligare il signor Ferraris, deputato di esse, ad esclamare al Parlamento di Torino:

“Ora, Signori, sappiamo che si fucilano, che si arrestano intiere famiglie, e che vi hanno detenuti in massa. È una guerra di barbari. Se il vostro senso morale non vi dice che voi camminate nel sangue, più non vi comprendo. E ciò che dico del Regno di Napoli, lo dirò ancora della Sicilia. Anche là prigioni, esecuzioni, fucilazioni senza processi.

“È un sistema di sangue; ma non è già con rivi di sangue che si può rimediare al male. Nel Sud dell’Italia non si esce da questo sistema, e tutti coloro che indossano un cappotto, si credono in diritto di uccidere quelli che non lo portano”.

Vittorio Emmanuele ha ridotto a tale le condizioni del Regno, da suscitare lo sdegno anche degli italianissimi Piemontizzatori. Il deputato Averrano gridava al Parlamento:

“Le atrocità che durano da più anni, ed in cui il Governo sembra riporre ogni sua speranza, ci disonorano innanzi all’Europa,,.

E di fatti fin nella Camera dei Comuni il signor Bentik ed altri onorevoli membri protestarono a nome dell’onore inglese, contro un’atroce politica che il Governo della Regina aveva troppo glorificata.

Ecco i fasti che la storia registrerà alla Casa di Savoja, quando parlando di questa epoca ignominiosa, dovrà togliere lo epiteto di Galantuomo, e dare alle persone l’aggettivo che le loro azioni avranno meritate.

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V.

Francesco II è lo erede ed il figlio di Re Ferdinando II.

Eccoci al lungo Regno di questa illustre branca della stirpe dei Borboni.

Stirpe odiata dalle sètte, perché congiunta a quanto di più grande si fece in Europa dalla prima Crociata fino all’ultima impresa di Algeri.

I Borboni, spada del mondo Cristiano, egida della proprietà, diga alle ambizioni, propugnatori naturali della fede son tenuti nemici e con ogni arte calunniati da chi agogna vietate altezze, o rovesciamenti di Culto e di Troni. Pria di parlare del Regno di Re Ferdinando mi si permettano brevi parole.

Nella solitudine che mi son prescelto, nello Esilio e nello abbandono di tutti mi accingo a questo debole lavoro, quando lo epidemico morbo Asiatico comincia in questa Trieste (che tanto ricordami la bella mia Napoli) a mietere non poche vite.

Epperò alla presenza di Dio dichiaro, che solo spirito di affetto alla verità e all’infelice Patria mia mi spinge alla difesa di una causa tanto calunniata.

Bandito da Napoli sol perché feci e come soldato, e come gentiluomo il mio dovere, sento la coscienza scevra di accusa dettarmi franco le parole.

Affezionato per tradizione di famiglia all’illustre Casa dei Borboni, sento obbligo speciale di gratitudine verso Re Ferdinando, non per onori né per ricchezze ricevute (giacché di queste, e di quelli mancante) disprezzo, ciò che fin dai più remoti tempi sacrificavano i miei a difesa, ed a sostegno dei loro Sovrani.

Non a classe di spudorati appartengo, come la non pianta memoria di Lord Palmerston piacevasi appellare i seguaci del Re Francesco nel suo discorso degli 8 Maggio 1863 ed al quale in altro tenue lavoro io risposi.

Sono grato alla memoria di Re Ferdinando, sol perché in una difficile posizione della mia vita egli seppe esortarmi come Padre ad esser forte nelle sventure ed ajutavami colle sue sole parole di affetto a tollerare il peso dell’esistenza resami odiosa in quell’epoca. Che anzi coll’animo lacero da dolore non posso nascondere essere in questo momento e per lo grande amore di schietta verità, e per la tristizia di altri, nel malconcetto dell’animo generoso del giovane Re Francesco.

Conoscendo però e le belle qualità che lo adornano, e la difficile posizione in cui Egli trovasi, sento in me viemaggiormente l’obbligo di offrirgli con la mia vita le profferte della inalterabile devozione.

Dichiaro inoltre che tutte le notizie storiche sono da me rilevate dall’opera del Signor Giacinto De Sivo, uomo sommo fra i letterati, una delle glorie del nostro Paese, e fra i tanti il più valido forse sostenitore della giustizia, e del diritto. E se ho avuto per lo passato il dispiacere di non trovarmi del tutto conforme alle sue vedute politiche, vorrà egli, ne son certo, attribuirlo, non a contradizione od a spirito di parte, ma alla franchezza in me innata nello esprimere senza grandi riguardi il mio pensiero.

Re Ferdinando II. adunque nella età ventenne ascese al Trono degli avi suoi nel 1830 in quei difficili momenti, quando nel Regno si agitavano gli spiriti sempre ad esempio ed istigazione degli ambiziosi che sorprendono e fan profitto della lealtà e vivacità del Cavalleresco naturai francese.

Re Ferdinando benché giovane, e nuovo a regnare, sia consiglio, sia generosità, andò incontro al pericolo con politica nuova.

Lo stesso di che salì al Trono fe’ splendidissima proclamazione, promettendo che studierebbe i bisogni dei sudditi e dello stato e guarirebbe le piaghe del Reame.

Coll’atto Sovrano di Dicembre concesse in favore di coloro, che per colpe politiche erano condannati o sottoposti a giudizio, ampio perdono. Rimise nei gradi i militari, e die’ cariche pubbliche agli esclusi, perché compromessi nei moti unitarii di Bologna e di Ancona; allora quando Luigi Napoleone col suo maggior fratello fuggiasco, perché vinto, trovò asilo, fu ricoverato e con tutti i mezzi protetto in Casa stessa del Mastai, Vescovo d’Imola, presente perseguitato Papa Pio IX.

Re Ferdinando organizzò ed aumentò la flotta del Regno di diciotto Legni da Guerra facendoli in più parte costruire nei nostri Cantieri, che con la Darsena furono ampliati e migliorati da Lui.

Fondò un ampio Opificio a Pietrarsa da far Macchine a Vapore, che per ogni arte meccanica e pirotecnica fu primo in Italia.

Costrusse nella Città il Bacino da raddobbo. Provvide molto alla Marina Mercantile, e fondò scuole nautiche in tutt’ i punti del Regno. Prosperò tanto il Commercio da fondare in meno di trentanni venticinque Compagnie per Piroscafi (nel solo Napoli) con circolazione di venti a trenta milioni di ducati, e rese indipendente questo Commercio dallo straniero al punto da attirarsi l’odio dell’Inghilterra.

Egli che trovò nel 1830 un debito galleggiante di quattro milioni trecento quarantacinquemila duecento cinquantun ducato con un milione di un annuo disavanzo, equilibrò subito le spese alle entrate, ed incominciò per lo scemare di ducati trecentosettantamila l’annua sua lista Civile. E non dovendo la sua Corona né ai tradimenti né alla Rivoluzione, non aveva bisogno di pagarne i prezzi, né spendere per una spudorata stampa i tesori dello stato. Ridusse dunque alla metà i grossi stipendii ai suoi Ministri, riformò gli abusi, abolì le doppie cariche, risparmiò sulle spese dell’amministrazione pubblica ed in breve facendo il debito sparire, diminuì le imposte che il vantato decennio, e i guai delle Rivoluzioni avevano sui popoli gravate.

Abolì le cacce reali e ne ridiè le terre all’agricoltura aumentando così il benessere delle popolazioni.

Abolì i dazii sulla macinatura dei grani, sulla carne, sulla rivela dei vini; sminuì la tariffa Doganale, soppresse la sopratassa di consumazione, moderò i dazii su centodieci Categorie di stranieri prodotti e sui diritti di bollo.

E col diminuire le Entrate accresceva le spese per ragguardevoli opere pubbliche.

Con denari dello stato fe’ la strada di ferro tra Capua e Nola; bonificò molte terre, rifece la Regia di Napoli guasta da incendio, menò a fine e decorò i Palagi di Palermo, di Capo di Monte, di Quisisano, ed i belli quartieri di Caserta. Dava del suo ottantamila annui ducati per largizioni ed elemosine. Aggiravasi pel Regno, ed a tutto provvedendo visitava quasi ogni anno le Provincie di Sicilia soccorrendo dovunque gl’infelici. Costruiva strade, Edifizii Comunali, lazzaretti, Case di Bagni Minerali; rifece Prigioni, creò scuole per sordi-muti, Ospizii ed Asili per indigenti ed orfanelli, Case per i folli. Fece porti a Catania, a Marsala, a Mazzara, e Moli, a Terranova ed a Girgenti. Istituì Consigli edilizii, monti pecuniarii e frumentarii, Compagnie di Pompieri, nuove Accademie, nuove Cattedre all’Università, nuovi Collegi, nuovi Licei. Fece Ponti di ferro e di fabbrica sui fiumi, fanali a gas, fari allaFresnell ed ogni novella invenzione era primo in Italia ad attuare. Stipulò trattati di Commercio, creò guardie Civiche per Napoli e per le Provincie. E mentre scemava balzelli ed accresceva spese, aveva nelle Casse dello stato fin dal 1843 un avanzo disponibile di tre milioni di ducati.

E quantunque Re Ferdinando dovesse superare le congiure Italiche degli anni 1831 e 1832, l’attentato alla di lui persona del Rosseroll, e del Romano, condannati al palco e da lui graziati, mostrando in quella congiuntura quanto amante di giustizia dispregiasse gli assassini, che seguitò a tenere nel suo Esercito giovani uffiziali implicati in quella congiura, e solamente per mancanza di prove sufficienti assolti dai Tribunali, e quegli istessi promossi a gradi maggiori cercavano nel 1848 subornare lo Esercito e renderlo indisciplinato agli ordini del monarca, quelli sono i medesimi che figurano nei tanti nemici di Re Francesco al 1860 ed in fine qualcuno di esso, o perché ravveduto e tocco da tanta Reale clemenza, o perché degli altri più astuto e più birbo, occupa ora eminente posto presso il giovane monarca.

La storia imparziale e conoscitrice dei fatti che si succederanno, pronunzierà su questi il severo suo giudizio.

E quantunque dovesse Re Ferdinando superare le difficoltà fatte sorgere dalle sètte nel suo Regno pel Cholera degli anni 1836 e 1837, vincere le fazioni rivoltose che nel 1841 scoppiarono ad Aquila, e che nel 1844 il Mazzini rinnovellava con lo sbarco dei fratelli Bandiera nelle Calabrie, rigettar le proposte di ambizioni che i Rivoluzionarii d’Italia a lui volgevano, e che accettate da Carlo Alberto misero fin d’allora la Corona di Sicilia alle prese coll’Idra settaria e colla politica ingiusta, fallace, rapinatrice del Piemonte; pur tuttavia formò del suo Reame una delizia di pace profonda, di quiete e sicurezza, di civile libertà, e di pubblica prosperità.

Re Ferdinando fu sino al 1847 la fenice dei Sovrani, rialzò il Regno rovinato dalle precedenti rivoluzioni, rese in pochi anni florido, ricco indipendente, invidiato un Reame che anni prima era squallido, povero, dispregiato, e schiavo dello straniero.

Ma, ahimè! eravamo troppo felici!!!

Col 1848 la rivoluzione che non aveva potuto da lui ottenere che capitanasse l’unità Italiana, gravò la sua mano sopra questo Sovrano, e quando vinta nel giorno 15 di Maggio nella Città di Napoli e susseguentemente nella Sicilia, dové cercare altrove lo scampo e la vita, incominciò nel Regno una sequela di congiure.

La rivoluzione rifuggiatasi in Piemonte, cospirando nel foro, nelle Caserme, nelle Carceri, nelle aule ministeriali, e sin nella stessa Regia di Torino, arrivò a circondare Re Ferdinando di uomini che cercarono separarlo dal Paese, e fargli vedere congiure e pugnali dovunque: lo seppe circondare di perfidi che manomettendo i principii di sana giustizia professati dal Sovrano, preparavano pel 1860 il compimento dei loro progetti, preparavano quell’era di persecuzione e di morte, che da cinque anni pesa sulle nostre Contrade.

Ma se tanto si è lavorato per calunniare questo Re, se a forza di dir male del suo Governo si era divenuto al punto che i più affezionati vi credessero, consideriamo un poco questo Reame negli ultimi 12 anni di sua vita.

Se ne togli la confidenza cieca che il Re poneva su gente dello stampo del Duca di Mignano, se ne togli le noiose angarie, che questi stessi esigevano dai loro creati direttori di Polizia, che, settari prima, dicevansi ricreduti; ma ciò non pertanto perseguitavano i cappelli e fino i peli della onesta gente, per servir meglio i loro antichi padroni; se ne togli tutto quello che uomini venduti han fatto per oscurare la fama di quel Monarca e renderlo odioso; che cosa ci resta se non le accuse anglo-francesi?

I capi di quei Governi lo accusavano nemico di civiltà, perché alquanti del popolo erano scalzi e mal vestiti, ma non vedevano come quei popolani amassero la famiglia, vivessero con poco, fossero brevi nelle ire, ubbidienti, pazienti e generosi?

Quando dicevano i marinari e i contadini ignoranti, non si accorgevano che in quelle contrade erano tipi di lealtà e di bontà?

Finalmente lo nominavano nemico del progresso, gli davano del retrogrado, perché il suo popolo contentavasi di poco, perché caste erano le donne ed i matrimoni frequenti, perché la piccola industria era molta e comune.

E chi a queste accuse aggiungeva gli epiteti di sanguinario e di tiranno?

I Governi di Palmerston e di Napoleone III.

Quei Governi che non volendo ricordare la donata vita a Longo e Delli Franci, rimproveravano il Re della costoro prigionia, mentre obbliavano le grazie fatte al Faucitano, all’Agresti, al Settembrini e al Poerio, dai Tribunali riconosciuti capi dello attentato del 16 Settembre.

Dimenticavano lo avere Re Ferdinando liberato da morte e lo Spaventa, e lo Scialoja e gli altri capi della rivoltura di Maggio dai Tribunali condannati, i quali tutti pagarono la regia clemenza con più fiere congiurazioni; ed atteggiatisi a martiri nel 1860, sono ora implacabili flagelli alla misera Patria nostra.

Dimenticavano i successivi attentati di rivoluzione, da essi stessi spinti negli Stati della più parte di Europa e pei quali Re Ferdinando ebbe animo, esponendo sé stesso a più dure prove, di vincerli e con clemenza perdonare?

Dimenticava lord Palmerston, accusando il Re di compressione, le morti, gli ergastoli e le battiture che in pubblica piazza di Cefalonia faceva infliggere ai rei per le rivolture del 1848?

Dimenticavasi che nelle Isole Ionie, mettendo taglia di mille scudi sopra ogni capo di ribelle, frustava prima di esiliare i sospetti?

Egli che per temperamento di Polizia faceva abbattere o bruciare case accusate di riunioni clandestine? Non ricordava che nel 1851, fece dal Parlamento Inglese sancire la pena della flagellazione ai malfattori minorenni?

Dimenticava in fine lord Palmerston i roghi e le carneficine nelle Indie, quando osava il Re Ferdinando chiamare brutale e salvaggio?

Ma concesso essersi nel regno degli ultimi dodici anni commessi degli abusi, da chi essi si facevano?

Qual è stato il contegno di Vittorio Emmanuele verso questi uomini, quando con l’oro del suo popolo riusciva, se non a procurare la morte di Re Ferdinando, a profittarne certo per accalappiare nelle vendute braccia dei Romani o dei Pianelli il giovine suo figlio?

Che ha fatto il suo Governo, quando dicendosi rigeneratore, riparatore di mali, annunziava l’annessione di quel Regno al suo piccolo Piemonte?

Si sono messi gli operai alla strada e alla miseria per la Darsena distrutta, e l’armeria abolita, per le grandi industrie, e gli opificii di manifatture scaduti di due terzi da quelli che erano nel passato.

Si è perseguitato per sistema, per odio la stampa che rivelava al Paese i soprusi ed i misfatti della consorteria, si è dato del retrivo, si è fatto bersaglio costante il libero scrittore, e per lo contrario si spendono milioni, nel pagare la stampa bugiarda destinata ad ingannare il Paese ad elogiare i suoi oppressori, e dando libero campo a quella libertina, e irreligiosa, si proclama libero il ragionare.

E quando inventando la legge che il Deputato Giuseppe Pica ha scritto a lettere di sangue nel cuore e nella mente di dieci milioni di anime, ed all’ombra della quale si è dato mezzo legale ai piccoli agenti del Governo per soddisfare le vendette private più infami, per interessi, per gli avversati loro amori, per l’odio dei principii politici.

E quando a Petralia Soprana si bruciava viva una famiglia in un casino, perché non volle aprire alla forza di notte, temendo che fossero Briganti; quando si sottoponeva alla tortura del fuoco, e a revalsivi volanti il Siculo Cappello, che requisito di leva si credette infingesse il mutolo; mentre i Tribunali Militari funzionavano in modo da far fremere i più indurati alla ferocia, fucilando senza processo gente inerme, accusata solo di complicità al Brigantaggio; o il campagnuolo, come a Caserta, per isbaglio. E quando alle porte di Napoli, alla bella Somma un vecchio ottagenario, e un fanciullo dodicenne si portavano al supplizio; mentre sotto la rubrica del Brigantaggio si fucilano le donne e alle persecuzioni domiciliari vediamo arrestare e condannare la gente in massa, vediamo poveri coi bambini lattanti al petto, estenuati dal cammino, e dalla fame trascinati da paese in paese, da prigione in prigione per inviarsi al domicilio coatto; quando fra queste vediamo giovanette nel fiore della vita perdere in tanta sventura la bellezza e l’onore; allora il Governo di Re Vittorio Emmanuele spudoratamente ci proclama e la sicurezza pubblica e l’inviolabilità delle persone e quella del domicilio.

E mentre con tali atti di barbarie si osa ancora rimproverare a Re Ferdinando il suo passato Governo ed accusarlo di spergiuro per la Costituzione del 1848, non mai da lui abolita (ma solo sospesa) dopo i dolorosi fatti di Napoli, ed il cangiato sistema di quasi tutta Europa, il Governo di Piemonte liberamente viola la Costituzione stessa per la istituzione delle Luogotenenze e poi per le abolizioni di esse senza consultare le Camere, per la istituzione delle Prefetture, pel cangiamento di nome ai Ministeri; la violava quando l’avvocato Mancini bandiva in Napoli leggi Piemontesi, e lo Scialoja quelle rovinose leggi finanziarie, colle quali capovolse il sistema delle entrate napoletane, non aspettando il consentimento delle Camere; la viola il Suo Re quando nel Discorso della Corona, si fa a proporre leggi intorno la segregazione della Chiesa dallo Stato e la soppressione delle Corporazioni Religiose; si rendeva più che spergiuro, quando manometteva e violava la capitolazione di Gaeta e di Messina, ed allora quando fucilava un contadino di Livordi a nome Russo che presentavasi ferito dopo pubblicatasi una Reale amnistia; quando promettendo salva la vita a chi si presentasse, fucilava il contadino Luigi Settembre, che a preghiera dei vecchi genitori si presentava, credendo impossibile che un Generale di Piemonte rompesse la data fede; quando in fine sul Gargano ventisette carbonieri furono fucilati per Briganti. E mentre a questo spaventevole quadro, a questa storia di dolore, a tal terribile disinganno sentiamo da Re Vittorio Emmanuele, che di lagrime e di tormenti ha irrigato quelle contrade, cinicamente dichiarare alle Camere ed all’Europa, che nell’interno del Regno la giustizia e la libertà già produsse frutti mirabili; e quando il terzo Bonaparte annunzia la completa rigenerazione d’Italia, ci sia permesso domandare al generoso Popolo di Francia, se è per questo che il sangue dei suoi figli bagnava le pianure di Lombardia?

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VI.

Francesco II, figlio di Re Ferdinando, e Maria Cristina di Savoja, cui per santità di vita il Vaticano decreta gli onori dello altare, educato e cresciuto alla simpatia ed allo affetto dei suoi popoli, ascendeva il Trono degli avi suoi nel momento che l’Apostolo della libertà e delle idee collegatosi al Governo di Torino sapeva col pugnale dello assassino ricordare i patti di Plombières, e ridare alla rivoluzione il potente appoggio del Governo di Francia.

Re Francesco II facendosi interprete della volontà del defunto Genitore, indirizzando a Dio le sue preci pel Paese e per l’armata, pigliava le redini dello stato.

Sua prima cura fu quella di chiamare al suo fianco uomini che il Paese e 1 Europa ammiravano per principii di sana politica e progressiva civiltà.

Scoppiando le ostilità tra la Francia, il Piemonte, e l’Austria, credette Re Francesco poter fidare nella già accettata dichiarazione del Congresso di Parigi del 1856, e mantenendosi conseguente ai principii in tutt’i tempi professati di stretta neutralità, credette francare il Reame da ogni possibile compromissione derivante dalle questioni politiche che sui campi della guerra si decidevano; e non potendo egli credere che i trattati si calpestassero da coloro stessi che li firmavano, dava tranquillamente alle cure di Stato interno i suoi pensieri.

Condonò le pene ai reati politici del 1848 e 1849, non contemplati fra i tanti Decreti di grazia del defunto suo Augusto Genitore.

Annullò la lista detta degli attendibili, e con troppa clemenza permise ripatriassero tutti quei che trovavansi all’esterno per politici passati rivolgimenti.

Inaugurò il suo Regno volendo che rilasciati fossero gratuitamente tutti i pegni fatti dalla classe bisognosa.

Con assiduo interesse cercò sovvenire le classi povere, largendo giornalmente copiosi soccorsi, e specialmente a quei che danneggiati erano da cause sopranaturali.

Ed a gloria perenne del suo nome ricordiamo la sapiente antiveggenza, con la quale paralizzò la carestia che minacciosa appressavasi al Regno. Fece venire da Odessa e da altri scali carichi abbondevoli di grano, granone, avena, orzo, riso, e grande quantità di farina di frumento; ma perdurando, ciò non ostante, la penuria non solo nel Regno ma nelle più ubertose contrade di Europa, aprì i suoi privati tesori, spedì navi proprie e straniere in cerca di frumento, inondando il Paese di tanti cereali che i prezzi di essi erano anche minori dei precedenti. E provvedendo così alla abbondanza pubblica del Reame, promoveva mezzi per sollievo delle classi bisognose, e primo fra questi ordinava la immediata continuazione delle opere pubbliche, sia nella Capitale, sia nelle Provincie. Eccitava l’emulazione dei funzionarli approvando continuamente e nuove costruzioni, e nuovi studii per grandiosi progetti.

Non isfuggiva alle cure del Re il ramo della Telegrafia elettrica. Epperò facendone un servizio separato, lo ampliò non solo nel Regno, ma congiungeva quello tra il Reame, e lo Impero Ottomano, e superate le difficoltà diplomatiche, stabiliva tre nuove linee una da Costantinopoli a Vallona sull’Adriatico, una seconda da Vallona a Scutari di Albania e Cattare, punto di riunione collo Impero di Austria, ed una terza da Costantinopoli alla frontiera di Russia presso d’Ismail.

Spediva persone di sua fiducia a Commissarii Civili in tutt’ i punti del Regno, perché ogni Comune visitando, ai bisogni di ciascuno potesse provvedere.

Ampliava le attribuzioni delle rappresentanze municipali, dando a queste il diritto di procedere alla nomina degli amministratori e Cassieri di beneficenza.

Re Francesco, nello scopo di conciliare i Regolamenti della Coscrizione militare col minimo nocumento all’agricoltura ed alla industria e per salvare e garantire del tutto gl’interessi delle private famiglie e i dritti individuali, molto si occupò a migliorare quelle leggi.

Prescrisse che celeremente fosse compiuto il sistema e lo stabilimento dei fari lungo le Coste e nei litorali dell’Adriatico, Jonio e Tirreno.

Egli volgeva le sue cure alla ricchezza e alla prosperità privata, sanzionando novella organizzazione dell’amministrazione delle acque e foreste, e dispensava dal bisogno di permesso quelli che volessero costruire Carbonaje nei loro boschi a conveniente distanza dai limitrofi.

E quantunque per le cure benefiche dello Augusto suo Genitore le Carceri e le Prigioni del Regno gareggiassero con quelle delle più incivilite Nazioni di Europa, non di meno non tralasciava raccomandare ai Capi di Provincia, perché il sistema peni-ten ziario nel Regno toccasse l’estremo possibile della perfezione.

Aumentò di soldi i Giudici Circondariali, e nello interesse della giustizia riformava alcuni articoli delle leggi Civili.

E veduto dal Re Francesco che a malgrado di essersi provveduto abbondantemente a tutte le esigenze di pubblici servizii e di esservisi allegati dei fondi per ogni maniera di opere pubbliche e in tanta copia da soverchiare i mezzi materiali della loro attuazione, vedendo che la situazione della Tesoreria offriva ciò non ostante dei superi, egli con Decreto Reale riduceva a metà la Sovraimposta per la Sicilia.

E volendo giovare il Commercio delle Calabrie e degli Abruzzi, il Re aumentava il Banco di due altre Casse di Corte stabilite l’una in Reggio e l’altra in Chieti, aggiungendo a queste una Cassa di sconto per la pegnorazione degli oggetti preziosi.

Dava alle Città di Reggio e di Chieti una Borsa di Commercio. Sanzionava due Reali Decreti, coi quali riduceva le tariffe daziarie sopra la massima parte degli articoli d’immissione.

A’ molti Comuni assegnava vendite onde creare monti frumentarii o Casse di prestanza.

Promoveva in ogni luogo Io stabilimento delle figlie della Carità dando loro dei fondi, acciò visitando gl’infermi poveri nel loro proprio domicilio, somministrassero loro medicine, brodi ed ogni altro soccorso; acciò migliorare potessero la educazione delle fanciulle, e sorvegliare le cure da rendersi ai projetti.

Re Francesco II mirava nel solo anno di Regno a far sorgere a nuova esistenza popolose contrade, e tutto quanto il Reame con lo sviluppo delle ricchezze che le sorgenti di prosperità, la fertilità delle terre, la fecondità del suolo, e la topografica posizione della Penisola dànno ai suoi stati. Epperò con indefessa cura dedicavasi ad una Rete di Strade di ferro nei suoi Domini, quando la rivoluzione del 1860, piombata come fulmine sul Regno, distruggendo i suoi progetti, ci dava in balia all’anarchia, ci dava a divorare agl’ingordi martiri che sull’infelice Patria nostra si disfamarono.

Ma quando la cospirazione de’ dodici anni fatta dal Governo di Torino trovò solidi appoggi nei Ministri di Francia e d’Inghilterra, quando i tradimenti e lo abbandono dei più creduti fidi e beneficati amici della monarchia, quando la codardia di molti Capi Militari lasciavano libero il passo a Garibaldi dall’estrema Calabria alle porte della Capitale, quando il Re decise la partenza da Napoli per risparmiare la sua Città Natale, la culla degli avi suoi, dagli orrori di una guerra o per dir meglio da una invasione di un’orda Garibaldesca, la di cui metà per le cure del Ministero era da qualche tempo in Napoli, allora Re Francesco con memorabile abnegazione, lasciando le private sue ricchezze ed i pubblici tesori in custodia del diritto delle genti, fatto appello per l’ordine della Capitale, partiva da quel Regno, traversava solo le contrade di quella popolosa Città, e segno di rispetto per tutti, moveva col resto dello Esercito alla resistenza del Volturno.

Dirò solo di quell’epoca che restando per due mesi Re Francesco coi suoi soldati in una completa difensiva, decimando in questa i suoi nemici, già nel Regno sotto nome di reazione sorgevano difensori in ogni luogo. Già la ragione dei fatti aveva dato campo al passaggiero entusiasmo, già l’anarchia si vedeva in quel florido Reame, già appressatasi in fine il momento che il Giovane Monarca pregato sarebbe dagli stessi suoi sudditi, e con entusiasmo e lagrime di gioja ricondotto a Napoli per porre fine a quel pascolo che abbondante trovavano nelle belle e ricche nostre Contrade gl’invasori.

Si fu allora che il Governo di Vittorio Emmanuele seguitando ad ingannare la inetta semplicità, se non comprando la buona fede dei nostri inviati a Torino, fingeva con essi amicizia, disapprovava la condotta del Garibaldi e voti facendo per la repressione di quei filibustieri, con inaudita mala fede invadeva alla testa di poderoso Esercito il Regno delle Sicilie calpestando ogni diritto internazionale, e quei principii di vantato non intervento, cominciò a sostegno e a difesa di quell’orda stessa a combattere il giovane Re che accerchiato ancora da pusillanimi dovette incominciare la memorabile difesa di Gaeta, che tanta gloria recar doveva nella storia del suo nome a tutta la giovane sua famiglia.

Ma che cosa ha fatto il Governo di Piemonte dopo quell’epoca nelle nostre Contrade? Trovando le rendite Napoletane al 115, il Governo di Vittorio Emmanuele incominciò per aumentare di otto milioni la lista civile del Re, dallo appropriarsi le residenze Reali, i Mobili, le Argenterie, gl’innumerevoli oggetti di arte, spogliando in nome della libertà il Re Francesco di quaranta milioni, dote della Madre sua, sequestrava il maggiorato dei Principi, i beni dell’ordine Costantiniano, le proprietà della Chiesa, sopprimeva i fondi dei ministeri, elevava gl’interessi della Cassa di Sconto, vendeva segretamente per più milioni di rendita, in fine riduceva a tale il discredito dello Stato da fare in breve discendere la rendita pubblica al sessanta-cinque; e quasi ciò nulla fosse, sentiamo oggi da Vittorio Emmanuele annunziare nuovi balzelli, e chiedere dal Popolo nuovi sagrifizi.

La Educazione, la letteratura, la morale, il Commercio, la Religione era tutto manomesso da quegli uomini che all’ombra della Unità Italiana sorgevano ricchi dalle loro miserie; all’ombra di questa unità gittavano la miseria e il terrore nella Capitale, lo stato di assedio, l’anarchia e l’atrocità nelle Provincie.

Ecco la situazione presente del nostro Paese.

Un giornalismo sfrenato o venduto perverte lo spirito pubblico; le Società Segrete stendono le loro radici dalla Città al villaggio, gli uomini del partito anarchico, detto di azione, predominano, trionfano nelle elezioni, sono preferiti e collocati negli Uffizii più lucrosi e responsabili, sono dal Governo sostenuti e accarezzati.

Nelle Provincie meridionali dal Palazzo del Signore alla Capanna del Contadino, dal bivacco dei Reazionarii alla bottega dell’operajo, non vedi che miseria, non odi che un grido solo di odio e di maledizione ai presenti dominatori.

Ed a reprimere e contenere la indignazione di tanti popoli traditi, vedi in un secolo che dicesi di libertà, e di progresso tollerare, se non approvare, quegli ordini e quei proclami che i Proconsoli di Vittorio Emmanuele bandiscono nella più bella parte di Europa.

Leggeteli con calma, e se frementi d’indignazione sentite in voi una voce di patriottismo, una voce di umanità, ricordatevi che la riunione fa la forza; ricordatevi, o Napoletani caduti nello avvilimento, le passate vostre grandezze.

Fate un pellegrinaggio alla Chiesa di Santa Maria del pianto, e rafforzatevi guardando che i Padri nostri seppero fra quelle mura sotterare i conculcati loro diritti.

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Bando del Tenente Colonnello Fantoni.

Comando del Distaccamento dell 8.° Reggimento

di Linea in Lucera.

In seguito ad ordine ricevuto dal Sig. Prefetto di questa Provincia, allo scopo di addivenire con ogni mezzo il più efficace alla pronta distruzione del Brigantaggio il sottoscritto

NOTIFICA:

1.° Nessuna persona da ora innanzi potrà porre piede nei boschi di Dragonara, di S Agata, di Sei-vanera, del Gargano, di Santa Maria di Pietro, di Motta, di Valturara, di Volturino, di S. Marco, di Colenza, di Corlentino, del Macchione di Biccari, nel bosco di Petruscelle e Caserotte.

2.° Ciascun proprietario dovrà tosto dopo la pubblicazione del presente avviso far ritrarre dai detti boschi tutti i lavoratori, pastori, caprari e tutto il bestiame esistentevi, abbattendo le pagliaje e le capanne da queste o dalle persone addette alla loro sorveglianza occupate.

3.° Nessuno da oggi innanzi potrà asportare dai Paesi generi di commestibili ad uso delle masserie, né queste potranno possederne più del quanto è strettamente necessario al sostentamento di una giornata pel numero delle persone addette alle masserie medesime.

4.° I contravventori del presente ordine, che avrà pieno effetto due giorni dopo la sua pubblicazione, verranno trattati senza eccezione di tempo, luogo, e persona come briganti, e come tali fucilati.

Il Tenente Colonnello

Firmato: Fantoni

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Bandi del Maggiore Fmnel.

  1. —. Avviso. Il sottoscritto incaricato della distruzione del brigantaggio diffida, che sarà immantinenti fucilato, chiunque dà ricovero, o mezzo qualunque di sussistenza, o difesa a’ briganti, o vedendoli, e sapendone il luogo, ove sono rifugiati, non dia tosto avviso alla forza, o alle autorità civili, e militari. Tutte le pagliaje debbono essere abbruciate; le torri, e le case di campagna, che non sono abitate o custodite dalla forza, debbono, fra lo spazio di tre giorni venire smantellate, e le aperture murate: scaduto tal termine, saranno bruciate, ed ucciso tutto il bestiame trovato senza la necessaria forza di custodia. — Resta pure proibito di recare pane, viveri fuori l’abitato de’ comuni, ed il contravventore sarà trattato come complice de’  briganti. L’esecuzione della caccia è provvisoriamente vietata, perciò non si può sparare, se non per dar avviso a’ posti armati della presenza, o fuga de’ briganti. — Alcuni proprietarii di Longobucco hanno posto un taglione di 60 mila ducati su la comitiva di Palma. Il sottoscritto non intende vedere in questa circostanza, che due partiti: briganti e controbriganti: perciò tra i primi è chi voglia: tenersi indifferente, e contro questi si prenderanno misure energiche, perché quando il bisogno lo richiede, è delitto il rifiutarvisi.

Cirò, 12 febbraro 1862.

Il Maggiore

Firmato: Fumel.

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  1. Avviso al pubblico. “Il sottoscritto incaricato della distruzione del brigantaggio, promette una mancia di franchi 100 per ogni brigante vivo, o morto, che si presenterà. Tale mancia sarà pure data a quel brigante, che ucciderà un compagno, oltre di avere salva la vita. — Diffida, che sarà immediatamente fucilato chi dia ricovero, o mezzo qualunque di sussistenza, di difesa a’ briganti, e vedendoli, o sapendone il luogo, dove sonosi rifugiati, non ne dia avviso sollecito alla forza, ed alle autorità civili, e militari. Tutte le pagliaio debbono essere abbruciate: le torri, e le case di campagna, che sono abitate, e custodite da forza, debbono essere fra 3 giorni scoperte, e le aperture venire murate. Scaduto tale termine, saranno bruciate, come saranno uccisi gli animali senza la necessaria custodia di forza pubblica — Resta proibito portare pane, e viveri qualunque fuori l’abitato del comune, e sarà tenuto come complice de’ briganti il contravventore, L’esercizio della caccia è vietato. La guardia nazionale è risponsabile nel territorio del proprio comune. Il sottoscritto non intende vedere in questa circostanza, che briganti, e controbriganti. Perciò tra i primi terrà chi voglia restare indifferente, e contro questi prenderà misure energiche. — I soldati sbandati, che non si presenteranno tra quattro giorni, saranno considerati come briganti.

Celico (Calabria) 1 Marzo 1862.

Il Maggiore

Firmato: S. Fumel.

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III. Bando del Prefetto di Capitanata

Avviso. — Per affrettare la estinzione del brigantaggio, questa Prefettura intende ricorrere all’opera de’ guardiani a cavallo delle proprietà private. Disuniti, essi non giovano né a sé stessi, né a cui servono; ed infatti costretti dal numero sempre crescente di questi predoni, essi han dovuto abbandonare il contado, e rinchiudersi nelle città. Io mi sono persuaso a raccoglierli in squadre; così potranno rendere importanti servigi alla pubblica sicurezza, esperti come sono d’ogni più remoto sentiere. I proprietarii, ne vivo sicuro, non mancheranno agl’inviti del governo: — ho interessato il comandante della provincia, colonnello Materazzo, a ricevere i nomi degli accorrenti, e ad ordinarli in squadre. I guardiani debbono aver seco armi, e cavallo. — I migliori cittadini hanno volontariamente aperta una soscrizione per le diarie di queste nuove milizie, la quale in due giorni, e nella sola città di Foggia è salita a 5 mila ducati. Le altre città imiteranno il patriottico esempio. Così le forze vive del paese aggruppate potranno renderci fra breve la perduta sicurezza interna,,.

Foggia 18 Aprile 1862.

Il Deputato funz. da Prefetto.

Firmato: Gaetano del Giudice.

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  1. Bando del Generale Bojele.

Comando generale delle truppe attive nella provinciadi Capitanata (Puglia).

Manifesto. — “In base al Proclama dello stato di assedio, io assumo i poteri politici e militari in questa provincia; e valendomi de’ poteri a me conferiti dal proclama anzidetto, ordino quanto appresso:

1.° È vietato a chiunque la vendita di armi e munizioni da guerra di qualunque specie. — 2.° Tanto la asportazione, quanto la detenzione non autorizzata di armi e munizioni d’ogni qualità, sono vietate sotto pena d’arresto. — 3.° Sarà considerato come connivente al brigantaggio, e come tale punito (con la fucilazione) chiunque sia trovato portatore di armi, munizioni, viveri, vestiario, e di qualunque altra cosa destinata come ricatto pe’ briganti. — 4.° In ciascun paese, o città ore 11 ½ pomeridiane, fino alle 4 del mattino è vietata la uscita per le strade, e dalle città, o paesi, senza un permesso speciale del comando militare, o senza gravi cagioni giustificative: — ne’ paesi, dove non vi è truppa questi permessi saranno rilasciati da’ sindaci. — 5.° Qualunque persona viaggi dovrà esser munita della già prescritta carta di passo, se n’è priva, sarà arrestata. Le panetterie disperse per le campagne verranno chiuse dal 1.° giorno di settembre, e d’allora in poi i generi che vi si troveranno, verranno sequestrati; e

tradotte in arresto le persone inservienti. — Confido, che le guardie nazionali uniranno i loro sforzi a quelli della Truppa per ottenere nel più breve tempo possibile lo scopo da tutti tanto desiderato.

Il Maggior-Generale Comandante

Firmato: Boyolo.

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  1. Bando del Maggiore Martini.

Avviso. — “Tutti i proprietarii, fìttaiuoli, coloni, pastori, abbandoneranno le loro proprietà, i loro bestiami, campi, industrie, tutto infine, e si ritireranno tra 24 ore ne’ paesi, dove hanno domicilio. Coloro, che non si uniformeranno al personale ordine, saranno arrestati e condotti in prigione.„

Il Maggiore Comandante

Firmato: Martini.

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  1. Bande del Prefetto della Provincia di Avellino, Nicola de Luca.

“Nel fine di porre un termine al brigantaggio, ed anche nello scopo d’impedire, che riceva ulteriori alimenti, di armi, di viveri, e di denaro, il sottoscritto invita i signori Sindaci ad osservare, e far osservare le seguenti disposizioni, dando ad esse la maggiore pubblicità: — 1. I sindaci, e i comandanti delle guardie nazionali sono chiamati sotto la loro più stretta risponsabilità, a designare fra 6 giorni al Prefetto della provincia tutt’ i conniventi, ed i corrispondenti de’ briganti del proprio comune. La facoltà di designarli è anche attribuita ad ogni onesto cittadino, quando però possa irrefragabilmente provare, che essi appartengono alla classe di coloro appunto, che avrebbero il dovere di denunziarli. — 2. È richiamata in vigore la circolare di questa prefettura, con la quale si prescriveva a’ sindaci di fare l’elenco di tutti gli assenti, indicandone i luoghi di dimora ed il motivo di assenza. Tale lista dovrà essere ora parimenti compilata fra 5 giorni, mandandosene copia al prefetto, a’ sottoprefetti, ed a’ comandi militari della provincia, e lasciando una categoria in bianco per segnarvi i nomi di que’ che si allontanassero dopo la compilazione della lista medesima; nel qual caso essi dovranno essere immediatamente denunziati alle autorità suddette. Nella ripetuta lista dovranno comprendersi i nomi de’ briganti conosciuti. — 3. Le autorità locali dovranno procedere prontamente allo arresto, e perquisizione de’ briganti, e di coloro, che dopo l’assenza non giustificata ritornassero nel proprio comune. — 4. Le stesse dovranno pure procedere indistintamente allo arresto de’ parenti dei briganti e ladri latitanti, fino al terzo grado civile; a meno che alcuno di essi non dia utili indicazioni per lo scovrimento ed arresto del congiunto latitante, e che 4 probi cittadini non ne garantissero personalmente la buona condotta. — 5. Le truppe in perlustrazione vorranno prestarsi a perquirere esattamente tutte le case di campagna od arrestare que’ che detenessero oggetti criminosi ed armi senza autorizzazione. — 6. Tutti i coloni, che andranno a lavorare in campagna dovranno munirsi di una carta firmata dal Sindaco, in cui sieno espressi in modo non dubbio i proprii connotati, la contrada dove sono posti i campi da coltivarsi, e la specie del lavoro che debbono eseguire; affinché i briganti colti dalla forza legittima non possano impunemente mentire dichiarandosi lavoratori. I contadini medesimi saranno tenuti risponsabili pe’ figliuoli minorenni, per le donne, e pe’ garzoni, che si facessero a portare viveri, e munizioni a’ malfattori. — 7. Saranno severamente puniti i lavoratori, che nel recarsi alle opere campestri, portassero secoloro viveri oltre la quantità necessaria per un solo pasto. Le stesse pene saranno applicate a’ contadini, che, prima di seminare i cereali di qualunque specie, non li unissero alla calce, onde impedire, che servissero di nutrimento a’ briganti. — 8. Tutte le case di campagna dovranno chiudersi, e murarsi nel termine improrogabile di giorni 15; ed i contadini, -che attualmente vi dimorassero, ridursi nel proprio comune, dove a cura e risponsabilità della giunta municipale dovranno essere provveduti di abitazione, qualora ne fossero privi. Anche in detto termine i contadini medesimi trasporteranno nello abitato tutti i loro effetti, i foraggi, i prodotti raccolti, non che il bestiame, che a seconda della specie e del numero dovrà essere menato nel paese, o in luogo così prossimo a questo, da tenerlo non solo al sicuro, ma da impedire, del tutto, che potesse divenire preda e cibo de briganti. Ogni proprietario di bestiame si uniformerà strettamente a tale prescrizione. — 9. I sindaci, gli ufficiali, e i militi della guardia nazionale saranno tenuti al ristoro de’ danni cagionati da un numero non maggiore di dieci briganti, o quando non accorressero a tempo per impedirli, o quando tali danni avvenissero in prossimità dello abitato, o quando, avvisati, non curassero di purgare il proprio tenimento da numero così breve di malfattori. Ogni esagerazione circa detto numero, intesa a scusare la inosservanza di questa disposizione, sarà severamente punita. — 10. Si procederà immantinenti allo arresto, disarmo, e cancellazione dalla matricola della guardia nazionale, ed alla destituzione da ogni pubblico ufficio civile ed ecclesiastico di tutti coloro, che si rifiutassero a prestare un servizio richiesto, sia dalle autorità militari, che dalle politiche e municipali. — 11. Saranno adottate misure rigorose, ed eccezionali contro le spie, i manutengoli, ed i corrispondenti de’ briganti colti in flagranza, o in possesso di oggetti furtivi. — 12. Coloro che senza pruova ineluttabile di essere corrispondenti, manutengoli, e spie de’ malviventi, fossero nondimeno reputati tali dalla concorde voce pubblica, dovranno essere attentamente invigilati. — La stessa vigilanza dovrà portarsi sul clero, spedendosi settimanalmente al Prefetto, sotto-prefetti, e comandi militari un rapporto su la di lui attitudine, e dirigendosi uffizi straordinarii in qualche grave caso che meriti pronte misure. Al tempo stesso saranno designali alla pubblica riconoscenza que’ sacerdoti, che nello esercizio del pio ministero persuaderanno con l’esempio, e con il consiglio la obbedienza al governo, e combatteranno con la parola gli eccessi di ogni sorta che possono turbare la pubblica e la privata tranquillità etc. etc. „

Il Prefetto

Firmato: Commendatore Nicola de Luca.

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VII. Bando del Prefetto della Provincia di Lecce Sig. G. Gemelli.

(Provincia di Terra d’ Otranto. ) 

Editto.

“ È urgente finirla co’ briganti. A tal fine dovranno essere osservate le seguenti disposizioni. — 1. Saranno formate in ogni comune nel termine di giorni 5 da’ Sindaci, e comandanti le guardie nazionali, due elenchi, uno di tutti coloro, che facessero parte delle bande brigantesche, o ne fossero fautori, conniventi, manutengoli, e corrispondenti in qualunque modo; l’altro di tutte le persone assenti dal rispettivo comune, senza uno scopo conosciuto. — Tali elenchi saranno immediatamente trasmessi al Prefetto, a’ sotto-prefetti, al comando militare della provincia, ed al maggiore comandante i Reali-Carabinieri in Lecce. — 3. Dopo tale trasmessione saranno tosto messe in movimento tutte le guardie nazionali. Forti drappelli di esse percorreranno, senza altra formalità, il territorio di ciascun comune, alternando il servizio a metà per giorno, dando la caccia a’ briganti e tenendosi in diretta comunicazione tra loro, e col colonnello Marcheti, comandante le colonne mobili di fanteria in Taranto, come è detto con la circolare de’ 21 corrente. — 4. Nelle perlustrazioni i comandanti le guardie nazionali potranno passare dal territorio d’ un comune all’altro senza preventiva autorizzazione del Prefetto, e le amministrazioni municipali de’ comuni più minacciati potranno, sia con mezzi proprii, sia facendo contribuire con soscrizioni volontarie i proprietarii, sia in altro miglior modo, venire in aiuto a’ militi stanchi, o meno agiati. — 5. Qualora, oltre codesto servizio di perlustrazione occorresse il servizio di distaccamento, questo sarà ordinato dal Prefetto, o sotto-prefetto, e rimunerato dallo stesso con le solite competenze. — 6. Accadendo il caso, che più drappelli, o distaccamenti abbiano ad agire uniti, ne assumerà il comando l’ufficiale superiore di grado, ed a parità di gradi il più anziano in età. — 7. Contemporaneamente sarà proceduto allo arresto, o perquisizione; — 1. de’ complici ricettatori, e vagabondi d’ogni genere, — 2. de’ refrattarii, e sbandati, — 3. de’ portatori, e detentori d’ armi senza licenza, — 4. de parenti de’  briganti sino al terzo grado civile, salvo che 4 probi cittadini non ne garantissero la buona condotta; — 5. de’ propagatori di falsi allarmi, e di false notizie; — 6. di coloro, che essendosi assentati da’ comuni vi ritornassero senza giustificare il motivo dell’assenza — 7. Potranno essere anche restati, e perquisiti tutti coloro, che senza essere fautori, e spie provate de’  briganti, fossero nondimeno reputati tali dalla concorde opinione pubblica. — o promuovessero, e consigliassero occultamente la disubbidienza agli ordini che l’Autorità abbia emanati pel brigantaggio. In tali casi però la misura dello arresto, e della perquisizione dovrà essere, o direttamente ordinata dal Prefetto, o deliberata d’accordo tra il sindaco, il comandante nazionale, ed il capo stazione de’ carabinieri. — 8. Potrà pure essere arrestato, e perquisito il clero regolare, o irregolare, che sarà diligentemente sorvegliato. — 9. Ne’ comuni più minacciati saranno adottati i seguenti provvedimenti: — 1. Vietarsi, che massari, coloni, lavoratori, domestici, e simili vadano, o si trattengano alla campagna senza essere muniti di una carta di sicurezza rilasciata dal Sindaco, e coi debiti connotati; — 2. Chiudersi, e murarsi, a spese de’  proprietarii, le masserie e case di campagna vuotandole di ogni prodotto, commestibile, e foraggio, e trasportando il bestiame in luoghi, ove sia meno esposto ad essere depredato; — 3. con mezzi amministrativi e spediti, astringere i proprietarii, che a ciò si rifiutassero. — È data ampia facoltà a’ comandanti le guardie nazionali infliggere, indipendentemente da’  consigli di disciplina, agli ufficiali e militi, che ricusassero di obbedire alla chiamata, le pene sancite dall’art. 118 legge 4 maggio 1848, oltre la privazione del grado, il disarmo, e la cancellazione dalla matricola etc. I quali provvedimenti forse ripugnano alla civiltà de’ tempi, ma a mali straordinarii, straordinarii rimedii.

Il Prefetto

Firmato: G. Gemelli.

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Editore: MICHELE DE SANGRO.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1866_de_sangro_passato_ed_presente_2018.html

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