Alta Terra di Lavoro

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Quando si fece l’Italia e si disfece il Sud

Posted by on Mag 19, 2018

Quando si fece l’Italia e si disfece il Sud

C’est assez pour aujourd’hui. Gardez-moi cela pour domain.

Non v’è dubbio che anche noi meridionali, quando si parla della unificazione, abbiamo le idee così distorte da oltre un secolo di falsità e di omissioni che non riusciamo a mettere a fuoco le origini del dualismo sociale ed economico di questo paese.

 

Finiamo per cadere in delle semplificazioni – ovviamente parliamo per noi, magari gli altri hanno capito tutto ed hanno le idee chiarissime – che non aiutano a spiegare il passato e non aiutano a progettare il futuro.

La storia che si dipana dallo sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio del 1860, procedette attraverso una serie di aggiustamenti in itinere, di eventi fortuiti e di aiutini interessati da parte di potenti forze straniere (1), ma soprattutto si giocò sul fronte interno. Fronte che vide uno scontro epocale fra Nord e Sud – usiamo questi termini solamente per esemplificare il discorso.

Da questo scontro nacquero le basi fondanti della Italia futura, alla quale sarebbe stato consegnato un apparato statuale in cui i meridionali avrebbero avuto un ruolo determinante sul piano politico, ma non su quello delle scelte strategiche di tipo economico-militare, perlomeno non sul fronte interno.

Il livello militare in genere nella storiografia viene tenuto in ombra ed in ossequio alle storiografie di stampo marxiano si pone l’accento sul piano economico che tutto condizionerebbe. Se guardiamo anche all’oggi dovremmo invece dare il giusto peso al piano militare ed all’uso che si fa della forza per mantenere i privilegi da parte di alcune nazioni. Nazioni che, grazie all’uso della forza, non solo mantengono i privilegi ma li moltiplicano in quanto il controllo delle risorse diventa poi un volano per un ulteriore sviluppo economico.

Torniamo però al nostro tema principale, la storia del tracollo del Regno delle Due Sicilie. Un tracollo dovuto alla contraddizione fra un dinamismo economico notevole ed un apparato politico-statuale vecchio, in decomposizione, da rinnovare. Non si spiega altrimenti la “passeggiata” (2) dell’eroe dei due mondi, pur riconoscendone le capacità rivoluzionarie di sollevazione popolare che dimostrò sul campo. Soprattutto in Sicilia, dove col decreto del 2 giugno 1860, sulla spartizione delle terre fra chi avrebbe combattuto per la patria, riuscì a portare una buona fetta della popolazione dalla sua parte e ne fece massa di manovra contro l’esercito napoletano. Da ricordare un importante elemento che in Sicilia giocò a favore del Garibaldi (3): sotto i borboni i siciliani erano esentati dalla leva obbligatoria e l’esercito napoletano era considerato da molti isolani come esercito occupante.

Pensare che un esercito di centomila uomini si sia disciolto come neve al sole per i numerosi tradimenti degli alti gradi vuol dire non capire perché gli eventi presero una certa piega e perché Garibaldi giunse a Napoli in treno!

Il Sud era in profonda trasformazione economica e mentre una buona parte dell’apparato industriale poteva avere interesse a puntellare una monarchia illuminata che l’aveva aiutato a nascere, vi erano altri settori economici – nel commercio e in agricoltura – che vedevano di buon occhio un cambiamento della struttura politica e una maggiore liberalizzazione dell’economia (4).

In tanti paesi del Sud – prima che giungessero i garibaldini – comitati più o meno spontanei avevano già fatto il ribaltone ed avevano sostituito o si apprestavano a farlo le vecchie amministrazioni borboniche.

Non si è mai visto un condottiero che preceda le sue truppe nell’impossessarsi di una grande città! Nel Sud si vide anche questo: a Napoli Garibaldi fece il suo trionfale ingresso – fra ali di popolo osannanti, con tanti esponenti della Bella Società Riformata (5) chiamati a far da poliziotti e muniti per l’occasione di paroccole (6) e coccarde tricolori – il 7 settembre 1860, mentre il grosso dei garibaldini giunse in città il 9 settembre (7).

L’11 ottobre 1860, mentre a Torino Cavour chiedeva l’annessione incondizionata delle provincie meridionale, Garibaldi indice il plebiscito:

ITALIA E VITTORIO EMANUELE.

“Il Dittatore dell’Italia Meridionale”

In compimento del decreto dell’8 corrente ottobre, che convoca il popolo per votare il plebiscito all’intento di riconoscere la regolarità di tutti gli atti relativi, e di determinare quindi la successiva incorporazione dell’Italia Meridionale nell’Italia una e indivisibile, decreta:

Art. 1. E’ convocata per il primo novembre prossimo nella città di Napoli un’Assemblea di Deputati per le province continentali dell’Italia Meridionale.

Art. 2. I Deputati dell’Assemblea saranno nominati per suffragio universale.

Art. 3. Il Prodittatore di Napoli fisserà il numero dei Deputati, la circoscrizione elettorale e tutto ciò che sarà necessarlo per la riunione dell’Assemblea.

Art. 4. Il Prodittatore e i Ministri in Napoli sono incaricati dell’esecuzione della presente legge. “

Il plebiscito del 21 ottobre 1860 sancirà – sotto l’aspetto formale – la scelta per le provincie napolitane dell’abbraccio mortale col Piemonte liberatore.

Sperperi e ruberie

La conta degli sperperi che vi furono in quei mesi non ci risulta sia stata fatta analiticamente e non sappiamo se mai verrà fatta e se interessa a qualcuno farla (8). Ne diamo una sommaria esemplificazione.

La cronaca del tempo riferisce dello scandalo di “un milione e quattrocentomila ducati prelevati dal Garibaldi dalle casse siciliane senza darne conto”

Secondo la relazione del segretariato generale delle finanze napoletane con i conti del Banco di Napoli nel periodo della dittatura garibaldina: “al 27 agosto 1860 risultavano 19.316.295 ducati; al 27 settembre 7.900.115 ducati”, diventati addirittura circa 6 milioni al 2 aprile”

In una lettera del vice-console piemontese Astengo si parla riferisce degli sperperi “indescrivibili”: “furono distribuiti all’armata di Garibaldi che non arriva a 20.000 uomini 60.000 cappotti eppure la gran parte dei garibaldini non ha cappotti…”

Il generale ungherese Cupa in una lettera parla del saccheggio dei banchi napoletani: “Dai computi fatti nel tempo che tenne la dittatura Garibaldi si è speso per l’amministrazione dello stato più di 150 milioni di franchi e le casse sono vuote: Garibaldi ordinò che si intimasse ai banchieri che si somministrasse denaro sotto minaccia di fucilazione”

La cronaca del tempo testimonia l’anarchia nella capitale: soldati e impiegati disoccupati, scioperi, rivolte e proteste conseguenti, fallimenti di negozi e fabbriche “e da Torino s’incominciava a provvedere Napoli di tutto, dalle vesti alle calzature dei soldati… sin la carta…sin le panche di legno per le pubbliche scuole…sin le pietre a costruire le orinaie della città… e anche gli impiegati erano spediti da Torino…”

La cronaca del tempo testimonia anche dei saccheggi, furti e devastazioni delle regge borboniche: “le argenterie delle reali mense furono pubblicamente vendute, sin gli utensili da cucina furon trasportati in Torino…”

Nel carteggio conservato presso l’Archivio del Banco di Napoli si documenta di un prestito di 200.000 lire – circa due miliardi attuali – al figlio di Garibaldi Menotti, giustificato da Garibaldi stesso e mai restituito.

In una lettera dell’epoca si descrive la situazione di Napoli qualche anno dopo Garibaldi:

“Il popolo manca di lavoro, di pane, di speranza. Anche a Napoli si è avuto uno spettacolo pietoso: arrivava una carovana ininterrotta di contadini delle Calabrie, della Basilicata e del Cilento che venivano per emigrare. Li hanno descritti pallidi, disfatti, con l’aspetto della più crudele miseria. Già una quantità di operai cacciati dagli arsenali e dai cantieri sono partiti per l’Egitto e dalla Sicilia a Tunisi, a Tripoli, ad Algeri. Molti cercano nel porto di Genova di imbarcarsi per l’America meridionale… Ma come è accaduto che gli abitanti delle Due Sicilie, il popolo meno fatto prima per lasciare la sua patria, se non per viaggiare, siano spinti ora da questa furia di emigrazione?”

Le notizie sugli sperperi sono tratte da “Processo a Garibald“ di Gennaro De Crescenzo – https://www.neoborbonici.it/

Noi sappiamo solo che le scialate di Nigra nella ex-capitale e il guanto di ferro di Cialdini sono due facce della stessa medaglia: l’assoggettamento graduale e sistematico delle risorse umane ed economiche di un territorio abitato da ben nove milioni di persone!

Lamentatori di professione

Qualcuno obietterà che si tratta di eventi normali durante il cambiamento di un regime. Il problema del Sud fu che questo periodo a causa della opposizione armata – passata alla storia come brigantaggio per sminuire il fatto che non tutti aderirono entusiasticamente alla novella patria – si protrasse per un decennio e oltre.

Una vera e propria guerra civile, che vide i poteri concentrati nelle mani dei militari e la rappresentanza politica delle provincie napolitane costretta fra le legittime istanze del territorio di riferimento e l’accusa costante di andare contro i supremi interessi dell’Italia Una quando alzava troppo la voce.

A quel punto le scelte erano limitate: o passare a sostenere l’opposizione armata o continuare a lamentarsi che le cose non andavano bene per poi ritagliarsi la propria fetta personale, a livello di carriera politica o professionale. Quello che fecero tutti gli esponenti della potente consorteria napoletana e tanti membri del personale politico meridionale.

Come fecero, ad esempio, Antonio Ranieri e Pasquale Villari (9).

La politica annessionista non si è curata di studiar questi fatti, che pure appartengono alla storia. Essa ha negata la scienza nella terra della scienza: nella terra dove il Sommo Iddio, se ha permesso i Borboni, da un lato, ha voluto, dall’altro, che la face della sapienza fosse inestinguibile. E salvo ai pochissimi ch’essa s’immagina abbiano avuta l’opportunità di studiare altrove, ci ha concessa, a noi tutti, una patente d’ ignoranza!

Signori! Questa immaginaria patente ha partoriti frutti amarissimi a quelle nostre provincie. E solo la nostra ferma, inalterabile, invincibile, sempiterna e sacrosanta fede nell’unità della patria comune, sarà cagione che non ne partorisca degli egualmente amarissimi per tutta l’Italia.

E come spieghereste, o signori, senza questa chiave, l’assenza relativa di tutti gl’Italiani del mezzodì da tutti gli uffizi alti ed operosi dello Stato? Come spieghereste i giovanissimi, per non dire i fanciulli, delle antiche province preferiti agli uomini gravi delle nuove? Percorrete, o Signori, tutta la serie degli uomini che stanno per qualche cosa nella gestione dogli affari d’Italia. Vedete quanti o quali sono i Napoletani! Quanti e quali i Siciliani!… La Gazzetta Ufficiale è là; e l’aritmetica a una scienza!

Discorsi di Antonio Ranieri, deputato, circa le cose dell’Italia meridionale
Terzo discorso – XI Dicembre 1861

 

Inoltre qui v’è stata per un tempo una spaventosa furia di distruggere senza riedificare: e quel che è peggio non è ancora finito. Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.

[…] In verità, noi abbiamo mille volte letto, nei giornali esteri, che le condizioni presenti delle provincie meridionali sono una prova che esse erano poco mature all’unità nazionale, che esse non comprendono e non vogliono l’Italia. Ma se quegli scrittori avessero avuto la bontà di venire qui a studiare il paese, e se avessero visto quanti errori si sono commessi dai governanti; se avessero – visto in che modo queste popolazioni sono ignoranti, che non vedono oltre il presente, che non possono indovinare i futuri beneficii del governo italiano; se avessero visto in che modo sono state travagliate, sconquassate, lacere da una serie continua di mali inevitabili sì, ma pur gravissimi, venuti dalla rivoluzione in poi; se avessero visto che sperpero del pubblico erario, che miseria, che fame li ha travagliati; quanti luogotenenti, governatori, generali si sono mutati, quante, dirò ancora, forme di governo abbiamo avute in un anno solo senza che ancora abbiamo finito; se tutto questo avessero veduto, e fossero poi andati nei più umili tugurii, ove per la prima volta in vita sua, il lazzaro napoletano canta canzoni italiane in lode dell’unità d’Italia; e se avessero un bel giorno interrogato tutto questo popolo come s’è fatto il 7 settembre, e per tutta risposta avessero udito, come abbiamo udito noi, un grido unanime: Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma; forse che allora le conclusioni di codesti giornali sarebbero alquanto diverse.

Per ora pongo fine a questa lettera, già lunga. In altra mia cercherò d’esaminare più da vicino le cagioni dello scontento, che ancora non è cessato.

Napoli, 13 settembre 1861.

Le ragioni di un malcontento – LETTERE MERIDIONALI (1861) di Pasquale Villari

A fronte della denuncia di quanto stesse accadendo in quei mesi cruciali nell’ex-Regno delle Due Sicilie sia Ranieri che Villari faranno una brillante carriera professionale l’uno e una brillante carriera politica l’altro. La scelta di campo traspare già da una attenta lettura dei loro scritti del 1861, nei quali essi, più che preoccuparsi della sostanza di quanto stava accadendo, danno il via ad un nuovo animale politico quello del lamentatore di professione. Un po’ come il cane alla mensa del padrone, abbaia per farsi buttare ogni tanto qualche ossicino e magari a volte rimedia anche un cosciotto di pollo.

Elea di Zenone

fonte

eleaml.org

 

 

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