Alta Terra di Lavoro

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Regine & Briganti, S.A.R. MARIA SOFIA DI BORBONE

Posted by on Ago 29, 2016

Regine & Briganti, S.A.R. MARIA SOFIA DI BORBONE

quando pensammo un titolo per il convegno di sabato pomeriggio ci venne in mente, per quanto riguarda la regina maria sofia, “la brigantessa con la corona” e nel divulgarlo “Michelina aspetta la regina”, se queste didascalie alla fine si sono rilevate azzeccatissime questo lo dobbiamo ad Erminio De Biase che da napoletano verace ha tenuto una relazione unica, emozionante e appassionata. prima di invitarvi a leggere di seguito la relazione, che al contrario di altre volte pubblico subito, una parola va a norma mazzoccoli che ha recitato in maniera encomiabile la poesia di Ferdinando Russo che nell’articolo compare. L’Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro ringrazia il Museo Historicus nella persona di Angelo e della sua gentile Sig.ra Maria Cristina, Norma Mazzoccoli, Nicola D’Agostino e i relatori Prof. D’Agostino, Prof. De Biase e lo storico Laborino Riccardi per l’impegno profuso affinché l’evento potesse riuscire nel miglior modo possibile.

Fra i tanti, troppi, eroi che infarciscono il cosiddetto Risorgimento, la storiografia ufficiale si guarda bene dal menzionare colei che, senza dubbio alcuno, è forse l’unica a meritare quel titolo: Maria Sofia von Wittelsbach, ultima Regina di Napoli, moglie di Francesco II di Borbone che, dagli spalti della fortezza di Gaeta, oppose l’ultima eroica, sfortunata resistenza contro l’invasore piemontese che, senza aver mai dichiarato ufficialmente guerra, con una ignominiosa aggressione, fagocitò il più antico, il più prospero, il più esteso territorio della penisola italiana: il Regno delle Due Sicilie. Noi qui, stasera celebreremo l’eroismo dei vinti, di quei vinti che i libri di scuola non riportano, di quei vinti che ebbero come loro Regina l’eroica Maria Sofia, una sovrana nelle cui vene scorreva un sangue tra i più nobili della storia, come ebbe a scrivere Marcel Proust e che, benché tedesca, possedeva una certa passionalità mediterranea. In Lei si fondevano passione e riserbo, sorriso e malinconia, giovinezza ed insoddisfazione; anticonformista, ribelle, indomita, tenace, orgogliosa, mai rassegnata sfidò il destino ed il suo coraggioso impeto d’azione a Gaeta la spinse sempre in prima linea, insieme con i suoi soldati.

Terzultima figlia dei Duchi Max e Ludovica di Baviera, sorella minore della più famosa Elisabetta (Sissi), futura imperatrice d’Austria, Maria Sofia von Wittelsbach, nacque a Possenhofen, località dell’Alta Baviera sul Lago di Starnberg, il 4 ottobre 1841. Tra tutti i fratelli e sorelle Wittelsbach le più belle in assoluto erano Elisabetta e Maria Sofia. Entrambe eccezionalmente brune in un mondo popolato di biondi, avevano corpi slanciati, altezza superiore alla media e occhi profondamente turchini. Non appena diciassettenne, Maria Sofia fu chiesta in moglie da Francesco di Borbone, erede al trono del Regno delle Due Sicilie, che sposò per procura, non ancora diciottenne, nei primi giorni del 1859. Lo sposalizio ufficiale sarebbe stato celebrato il mese successivo a Bari, dove tutta la Corte napoletana era andata ad accoglierla.

Poco più di tre mesi dopo, il 22 maggio 1859, moriva Re Ferdinando e Maria Sofia diventava anzitempo Regina delle Due Sicilie. L’anno successivo, Garibaldi, sbarcato a Marsala grazie alla spudorata e subdola protezione della Gran Bretagna, avrebbe poi, impunemente, risalito la penisola. In quell’estate del 1860, mentre vedeva sgretolarsi il Regno sotto gli occhi, Francesco II, appellandosi al principio del legittimismo, da un lato, cercava di coinvolgere i sovrani d’Europa richiamando la loro attenzione sull’aggressione che stava patendo e sperando in un loro decisivo intervento, dall’altro, s’intestardiva ad affidare il comando delle sue truppe a generali decrepiti che, a loro volta, facevano a gara a sottrarsi alle proprie responsabilità. L’unica a veder chiaro in quella situazione ed a non perdere mai di vista la realtà, era Maria Sofia la quale incitava continuamente, il marito di mettersi lui, in prima persona, al comando delle truppe: i soldati l’avrebbero seguito ad occhi chiusi e chissà se il loro entusiasmo, unito all’eroismo di cui, in più di un’occasione, avevano dato prova, non avrebbe costretto Peppe Garibaldi a scappare, con le braghe in mano, su qualche nave inglese che, per l’appunto, seguiva passo passo tutti i suoi spostamenti. Purtroppo, però, le esortazioni della Regina rimasero inascoltate e, così, il 6 settembre, furono costretti ad abbandonare Napoli… Qualcuno parlò di fuga; in realtà, però, così facendo, Francesco II evitò che la sua amata capitale fosse bombardata dalle navi inglesi che già erano nel porto, proprio a ridosso del Palazzo Reale, di fronte a Santa Lucia che, all’epoca, affacciava direttamente sul mare e, quindi, proprio in direzione della gittata delle cannoniere britanniche già opportunamente posizionate nella rada. In tal caso, avrebbe risposto l’artiglieria borbonica da Castel sant’Elmo e si può immaginare quanto spargimento di sangue ci sarebbe stato per le strade di Napoli: cosa che Francesco II non volle e che intenzionalmente evitò.

Dopo la gloriosa, ma sfortunata, battaglia del Volturno, del 1° ottobre 1860, il baricentro dell’estrema difesa del Regno Borbonico si sposterà a Gaeta, dove sugli spalti della sua antica fortezza, con il suo spregiudicato comportamento, con il suo sprezzo del pericolo in tutti gli oltre cento giorni dell’assedio, Maria Sofia, scriverà la sua pagina di storia più gloriosa, per cui, da allora in poi, sarà ricordata come die Heldin von Gaeta, l’eroina di Gaeta.

Di questo assedio, che durerà dal 5 novembre 1860 al 14 febbraio 1861 la nostra storia, scritta come al solito dai vincitori, ignora quasi del tutto il comportamento eroico di Maria Sofia che, fin dal primo giorno del suo arrivo a Gaeta, diventa il simbolo di quell’assedio. La sua immagine di eroina romantica si impone all’attenzione dell’intera Europa. Gli ardimentosi rampolli delle più illustri casate aristocratiche accorrono a Gaeta per offrire alla giovane Regina la loro spada e, spesso, anche il loro cuore. Mentre le dame della nobiltà europea fanno a gara per far giungere i segni tangibili della loro ammirazione per quella che stava diventando la più famosa delle cosiddette Wittelsbacher Schwestern: una romantica diciannovenne che in quell’ambiente eccezionale, dove sono state bandite le ipocrite consuetudini di corte ed è imposta la semplice vita di caserma, trova finalmente il luogo ideale per sfogare pienamente la sua esuberanza e vivere quell’avventura che ha sempre sognato. Maria Sofia vivrà a Gaeta i giorni più esaltanti della sua vita e mai li scorderà.

All’interno della roccaforte di Gaeta la situazione apparve subito molto critica: scarse le provviste e gli armamenti della guarnigione, che diveniva ogni giorno più numerosa, causa il continuo sopraggiungere di volontari: dalle circa tremila persone che, abitualmente, ne conteneva si arrivò presto ad oltre quindicimila presenze. Ai difensori mancavano coperte e pagliericci ed erano costretti a dormire sulla nuda terra. Mentre l’assedio si faceva sempre più duro, Maria Sofia visitava i reparti nelle caserme, controllava i rafforzamenti, predisponeva l’assistenza ai feriti che ci sarebbero stati ed intensificò i rapporti diretti con la popolazione civile tra la quale la giovane regina diventò ben presto popolarissima. Il suo ardimento naturale, unito a una buona dose di giovanile esuberanza, la spingeva nei luoghi dove il pericolo era maggiore. Visitava le più esposte postazioni dell’artiglieria portando il suo splendido sorriso e una parola d’incoraggiamento ai suoi soldati che, naturalmente, la idolatravano. La Regina sfruttava anche il suo fascino muliebre per alimentare lo spirito di resistenza. L’ambasciatore di Spagna, Bermùdez de Castro, era sempre al suo fianco, anche nei momenti in cui il pericolo era più grave, per prestarle protezione. L’ammiraglio Le Barbier de Tinan, comandante della squadra francese ancorata davanti a Gaeta era perdutamente innamorato di lei. Altrettanto lo erano numerosi volontari legittimisti stranieri e persino dei semplici soldati che le inviavano poemi amorosi rozzi quanto sinceri. Per tutti, infine, la visione della regina che appariva in mezzo a loro a cavallo, tranquilla e allegra nella sua freschezza di fanciulla non ancora ventenne, rappresentava un motivo di conforto e di entusiasmo.

Di giorno e di notte, si recava a visitare i feriti che animava, confortava e consolava ad uno ad uno con parole, non di Regina, ma di sorella e di madre. Era una meraviglia vedere quella bellissima e maestosa giovanetta diciassettenne, sotto il più micidiale bombardamento, sopra un focoso cavallo, visitare tutti gli ospedali provvisori delle batterie, ove si combatteva, ad arrecare consolazioni e soccorsi. Essa appariva in mezzo al fumo dei cannoni ed allo scoppio delle bombe nemiche, come l’Angelo consolatore. Oh! Donna veramente ammirabile – scrive Giuseppe Buttà – quante volte io Ti vidi avvolta in un turbine di micidiali proiettili, e mentre tremavo per Te, Tu uscivi dalle ruine balda e sorridente! Tu eri la maraviglia del tuo sesso; Tu l’onore e l’orgoglio della medesima nostra sventura. Se la tristizia di pochi malvagi giunse a strapparti la corona, Gaeta ne pose un’altra sul tuo nobile capo smagliante di luce imperitura, cha abbagliò i tuoi nemici e fece sorridere di compiacenza e di orgoglio i tuoi fedelissimi sudditi. E così fu: quella corona strappata dalla testa lasciò il posto all’immortale aureola dell’Eroina di Gaeta.

Tantissimi componimenti poetici sono stati composti per descrivere tutti questi stati d’animo nei confronti di Maria Sofia ma, su tutti, giganteggia quello del grandissimo poeta napoletano Ferdinando Russo che, nel 1919, mise in versi la testimonianza di un reduce di Gaeta, un ex artigliere da lui intervistato, Michele Migliaccio, ‘O suldato ‘e Gaeta, un vecchio popolano che la sventura aveva scaraventato nel precipizio della miseria, costringendolo in un ospizio di poveri, ove egli passò gli ultimi anni amari, cieco di un occhio e mancante di un braccio ed il cui unico, preziosissimo tesoro era rappresentato dalla medaglia che il suo Re aveva distribuito a tutti i suoi soldati prima di imbarcarsi per l’esilio:

E ‘a Reggina! Signò!… Quant’era bella!

E che core teneva! E che maniera!

Mo na bona parola ‘a sentinella,

mo na strignuta ‘e mana a l’artigliere…

Steva sempe cu nui!… Muntava nsella

Currenno e ncuraggianno, juorne e sere,

mo ccà, mo llà,… V’’o giuro nnanz’’e sante!

Nn’èramo nnammurate tuttuquante!

Cu chillo cappellino ‘a cacciatora,

vui qua’ Reggina! Chella era na Fata!

E t’era buonaùrio e t’era sora,

quanno cchiù scassiava ‘a cannunata!…

Era capace ‘e se fermà pe n’ora,

e dispenzava buglie ‘e ciucculata…

Ire ferito? E t’asciuttava ‘a faccia…

Cadive morto? Te teneva mbraccia…

‘E palle le fiscavano pe nnanza,

ma che ssa’… le parevano cunfiette!

Teneva nu curaggio e na baldanza,

ca uno le zumpava ‘o core ‘a piette!

Te purtava ‘e ferite all’ambulanza,

steva sempe presente a capo ‘e liette…

E tutte, chi ‘a chiammava e chi mureva,

‘a stevano ‘a guardà cu l’uocchie ‘e freva…

Murì p’Essa! Era ‘o suonno ‘e tuttuquante!

Desiderà nu vaso nfronte ‘a chella,

segnifecava: “Mettimmece nnante

pe fa na morte ca se chiama bella!”

Npietto, p’avè n’aucchiata ‘a sta Rignante,

te facive arapì na furnacella!…

Proprio accussì, signore mio!… Vedite?…

V’ ‘o sto cuntanno e chiagno… e vui redite…!

Quando non cavalcava fra i soldati, la Regina passava gran parte del suo tempo fra i feriti. I soldati l’adoravano e tutti volevano baciarle la mano. Uno di essi, gravemente ferito, osò chiedere la sua assistenza durante la notte e Maria Sofia esaudì il desiderio del moribondo restandogli vicino fino al sopraggiungere della morte.

Dopo un violento intensificarsi dei bombardamenti, all’inizio di febbraio 1861, la situazione diventò drammatica e si cominciò a trattare la resa e, ciò nonostante, i… fratelli d’Italia aumentarono con estrema, gratuita meschinità, la potenza del loro fuoco. Alle sette della mattina del 14 febbraio, Francesco II e Maria Sofia uscirono dalla loro casamatta per imbarcarsi sulla nave francese Muette: per la prima volta, gli occhi della Regina erano inumiditi dalle lacrime. Le stesse lacrime che rigavano il volto di tutti, uomini e donne, militari e civili.

Il successivo decennio, la coppia reale lo visse nell’esilio di Roma, ospiti di Pio IX, prima al Quirinale e, successivamente, a Palazzo Farnese. Qui, Maria Sofia non perse tempo a riprendere la lotta mirata a riconquistare il trono perduto: gli echi delle fucilazioni dei piemontesi e dei vari focolai di rivolta che si attizzavano contro di loro non potevano lasciarla indifferente: fremeva e voleva dare inizio alla riscossa il più presto possibile. Voleva riunire attorno alla bandiera gigliata tutti i malcontenti della nuova situazione politica: non importava se si trattasse di veri legittimisti o di avventurieri di mestiere che affluivano a Roma da ogni parte d’Europa: Henri de Cathélineau ed Emile de Christen dalla Francia, il Generale carlista Josè Borges dalla Spagna, il Marchese Alfred de Trazégnies dal Belgio, il Conte Edwin von Kalkreuth dalla Prussia, Ludwig Richard Zimmermann dall’Assia, per citarne i più famosi. Quest’ultimo, nelle sue Memorie, così ne descrive l’incontro nel Palazzo del Quirinale: “Mentre, percorrevo il gran cortile, il Re e la Sua Consorte uscivano in una semplice carrozza dal tiro a due. Vedevo la coppia per la prima volta e, osservandoli, non sminuì quella grande simpatia che avevo fino ad allora provato per quei così giovani e sfortunati regnanti. Povero Francesco, pensai, i tuoi errori furono: la tua giovinezza, la tua fiducia e …la tua educazione. E Tu, “Maria Sofia, bella ed eroica Regina,” meravigliosa ed affascinante giovane donna che infami calunnie tante ferite ti hanno provocato, Tu dominerai nel cuore di tutti coloro che, vedendoTi, furono capaci di non rinnegarTi!

La storiografia ufficiale liquiderà tutte queste figure di romantici avventurieri con il termine spicciativo di Brigante. In molti casi, però, si trattò di veri e propri eroi, di insorgenti che, se avessero vinto la loro battaglia, sarebbero stati definiti partigiani. “Quella che gli storici italiani chiamano “guerra del brigantaggio” – confidò, in proposito, l’ormai anziana Regina a Giovanni Papini, a Parigi nel 1914 – fu la generosa rivolta degli umili contro il regime piemontese. Se il mio sposo, invece di rimanere a Roma, avesse varcato i confini del Regno e si fosse messo a capo degli insorti, raccogliendo le bande sparse in un solo esercito, saremmo rientrati vittoriosi nella Reggia di Napoli…

Nell’ambito della sfera privata, gli anni dell’esilio romano furono caratterizzati da eventi che segnarono fortemente il rapporto tra la Regina Maria Sofia ed il suo consorte. Benché i loro rapporti intimi non fossero mai stati particolarmente intensi, la notte di Natale del 1869 la Regina partorì una bambina a cui fu imposto il nome di Maria Cristina Pia. La primogenita reale, però, già gracile alla nascita, si spense il 28 marzo 1870, a tre mesi appena compiuti. Morì la sera fra le braccia della madre in lacrime. Quando dovette distaccarsene, Maria Sofia, pazza di dolore, prese la piccola cassa in cui era stata deposta la bambina e, sorreggendola tra le braccia, la portò al Re affinché potesse baciare per l’ultima volta la sua unica figlia. Poi cadde a terra priva di sensi.

In realtà, la Regina era già stata madre: anni prima, infatti, avrebbe partorito due gemelle, frutto del suo amore segreto con il tenente degli zuavi pontifici, l’aitante conte belga Armand de Lawayss, che Pio IX aveva nominato suo cavaliere d’onore. Si innamorarono perdutamente e questa fu l’unica, ardente passione di tutta la vita di Maria Sofia di Borbone. Non appena si rese conto di essere rimasta incinta, ella trovò un pretesto per tornare in Baviera, qui fu ospite del convento di Sant’Orsola, ad Augsburg, in compagnia dalla sua cameriera personale, la fedele Marietta. Il 24 novembre 1862 nacquero due gemelle. Maria Sofia non rivide più il suo Armand al quale fu impedito in tutti i modi di incontrarla ancora. In seguito, poi, prima di tornare dal marito a Roma, per un estremo gesto di una lealtà, degno solo di lei, volle preventivamente informarlo, per lettera, di tutto quanto era successo ed attendere le sue decisioni. La risposta di Francesco fu rapida ed immediata. “Maria Sofia, ti aspetto”, diceva il suo telegramma. Di quanto la moglie gli aveva rivelato, Francesco non fece parola con alcuno e si portò il segreto nella tomba. Tale nobiltà d’animo e di sentimenti solo a Lui erano possibili.

Nel 1870, pochi mesi prima che i piemontesi si impadronissero anche dello Stato della Chiesa, Francesco e Maria Sofia lasciarono definitivamente Roma. La morte della loro figlioletta era stato per loro un colpo tremendo: lui si abbandonò ad una vita sempre più mistica, lei sembrò aver definitivamente perduto quell’antico ardimento che le aveva fatto guadagnare il nome di “Eroina di Gaeta”.

Si sposteranno spesso attraverso l’Europa, avendo, però, come base fissa Parigi. In seguito, l’ex Sovrano, che ormai si faceva chiamare Conte di Castro o, addirittura, semplicemente, Signor Fabiani, si ritirò nel volontario esilio di Arco, nel Tirolo, dove morirà il 27 dicembre 1894, molto più incanutito dei suoi effettivi cinquantotto anni. Maria Sofia, invece, seguendo sempre la naturale irrequietezza “brigantesca” della sua indole, si spostava sempre più spesso tra Monaco di Baviera, Londra e, soprattutto, Parigi, dove, secondo una recente ipotesi, frequentò ambienti e figure di anarchici con i quali avrebbe condiviso le responsabilità dell’organizzazione dell’attentato che costò la vita ad Umberto I, il 29 luglio 1900, a Monza, consumando così la sua nemesi storica contro gli odiati Savoia.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in quanto tedesca, fu costretta a lasciare la Francia e fissò la sua residenza a Monaco, in un modesto appartamento di un antico palazzo di famiglia, nella Ludwigstraße; le facevano compagnia dei camerieri napoletani ed il segretario, Carlo Barcellona (la sua fedele Marietta era morta da tempo). Ogniqualvolta le sue limitate finanze glielo consentivano, si recava nei campi di concentramento dei prigionieri italiani: fra quei soldati laceri ed affamati, cercava i “suoi napolitani” per distribuire loro, come a Gaeta, dei sigari, forse delle coperte e, sicuramente, …quacche buglie ‘e ciucculata. Molti italiani visitò la Regina nei campi di prigionia: parlando loro disinvoltamente in italiano e a quelli che se ne meravigliavano, così spiegava: “Sono una signora, che conosce bene Napoli“. Oppure: “Sono una signora, che imparò da giovane a parlare italiano“. Poi diceva: “Povera gente! Si stupiscono di trovarmi cosi simile a loro, perché domando se hanno avuta tutta la loro razione di brodaglia!“. Regalò loro tutti i suoi libri italiani. Altrettanto buona che coraggiosa, com’era stata un tempo, quando regina-soldato, aveva combattuto sugli spalti di Gaeta e sempre pronta a schierarsi con animo cavalleresco dalla parte dei deboli… come scrisse Marcel Proust.

Ancora ottantenne, non rinunciava mai alla sua quotidiana passeggiata a cavallo, montando ancora egregiamente. Riceveva spesso nobili ospiti delle varie dinastie europee e strinse rapporti con il nunzio apostolico Eugenio Pacelli, il futuro Papa Pio XII. Una curiosità: ad una sua pronipote, Maria José del Belgio, raccomanderà di non sposare mai uno di quei barbari Savoia ma, come ben si sa, il consiglio cadde nel vuoto…

Tre mesi prima della sua morte, rilasciò una lunga intervista, un vero e proprio testamento morale, a Giovanni Ansaldo, allora giovane inviato del Corriere della Sera, intervista pubblicata censurata, per non offendere i “legittimi” sovrani del regno d’Italia…

Maria Sofia non ha che la porpora del suo viso, che la protegge dalle ingiurie del volgo, dalle curiosità e dalle compassioni, meglio del manto imperiale.

In piedi accanto al suo tavolo da lavoro, dritta come il fusto di un giovane pino, la Regina riceve. Sotto la frangia dei capelli bianchi e l’arco grande e perfetto delle sopracciglia, gli occhi guardano il nuovo venuto e, insieme, guardano lontano: si sente di essere in margine a quella vita superba. La bocca sottile si dà, sì, pena e per essere buona e benevola, ma non può sorridere col facile e banale incoraggiamento degli charmeurs.

Parla dei suoi servitori italiani, i tre ultimi che ebbe: sa con precisione i nomi, cosa fanno, dove sono. “Erano tre meridionali che mi restarono devoti all’infuori di ogni convenienza personale, finché non fui io che li mandai via, perché… erano giovani, dovevano farsi una famiglia, non era più possibile che perdessero il tempo attorno a una vecchia signora. Avevo Gaetano Restivo, siciliano: adesso è laggiù al suo paese, mi ha mandato tempo fa una cassettina di arance. Poi Luigi Tagliaferri, di Caserta, nipote di un altro Tagliaferri, che fu con me a Gaeta. Poi Gaetano Marsala, abruzzese di Pescocostanzo, che ora fa il calzolaio a Parigi. Un siciliano, uno di Terra di Lavoro, un abruzzese: avevo proprio attorno a me tutte le province del Regno…

Maria Sofia von Wittelsbach, poi di Borbone, ultima Regina di Napoli e delle Due Sicilie, l’Eroina di Gaeta, l’Aquilotta Bavara, si addormentò nel sonno della morte la notte tra il 18 e il 19 gennaio 1925. Inizialmente, fu sepolta nella tomba di famiglia sul Tegernsee; le spoglie di Francesco II, invece, erano state sepolte prima nella Chiesa della Collegiata ad Arco, nel Tirolo e poi a Trento dove, il 9 dicembre 1938, giunse da Monaco di Baviera la salma di Maria Sofia affinché fossero trasferite entrambe a Roma, nella Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani che già ospitava le spoglie della loro figlioletta e dove sarebbero rimaste fino al 10 aprile 1984, data della loro traslazione nella Chiesa di Santa Chiara, a Napoli, grazie all’encomiabile e disinteressato affetto del compianto don Achille di Lorenzo, Maggiordomo Maggiore della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie che si accollò le spese di tutta l’operazione.

Un mese dopo quella cerimonia, volutamente riservata, di cui si seppe solo a cose fatte, nella stessa basilica di Santa Chiara, questa volta stracolma di popolo, si tennero i funerali solenni dei due reali napoletani. Tra i tanti che vi accorsero c’ero anch’io che, con gli occhi velati di lacrime e con un nodo alla gola per la commozione, riabbracciavo idealmente il mio Re e la mia eroica Regina che, finalmente, dopo centoventiquattro anni di esilio, ritornavano nella loro antica capitale.

*

In questa breve nota biografica dell’ultima Regina di Napoli, ho volutamente sottolineato delle definizioni che si possono senza dubbio adattare anche alla fiera e bellissima Michelina Di Cesare, affascinante emblema dell’insorgenza popolare filoborbonica. Per esempio, anch’ella, come Maria Sofia, con esuberante spregiudicatezza e naturale ardimento, sopra un focoso cavallo, fu vicina al suo uomo (un ex soldato delle Due Sicilie che, fedele al suo giuramento a Francesco II, non volle passare nell’esercito sabaudo) incitando con sprezzo del pericolo, i suoi compagni alla riconquista dello Regno perduto.

Con la loro vita eroica e superba, Maria Sofia von Wittelsbach e Michelina Di Cesare furono due eroine romantiche, nel senso più ampio della definizione. Coetanee (nate tutte e due nello stesso mese dello stesso anno) erano dotate dello stesso splendido fascino muliebre: meravigliosamente brune, il corpo slanciato, un’altezza superiore alla media ed uno sguardo fiero che suggellava in loro una passionalità “mediterranea”. È probabile che esse si siano anche incontrate, a Roma, dove – durante una delle sue “fughe strategiche” – Michelina fu immortalata in tutta la sua bellezza, nei ritratti che, poi, l’avrebbero resa celebre. Come Maria Sofia, infine, anch’ella era decisamente anticonformista, ribelle, indomita, tenace, orgogliosa e mai doma. Un’ultima annotazione: i farisei della cultura ufficiale sono soliti stracciarsi le vesti nel condannare un (presunto) oltraggio fatto alla Pimentel Fonseca che, nel 1799, sarebbe stata impiccata senza mutande, ma non accennano mai, nemmeno lontanamente, all’affronto fatto al corpo di Michelina De Cesare, nel 1868, prima e dopo averla ammazzata.

Le figura di queste due donne, accomunate dalla Storia nella sfortunata resistenza all’aggressione piemontese, si fondono nell’Eroismo dei vinti, di quei Vinti che i libri di scuola non riportano o che, addirittura, dileggiano ma che, proprio per questo, sono nostri simboli indelebili.

Erminio de Biase

Regine & Briganti con note storiche

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