Alta Terra di Lavoro

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Ricordo di Rodolfo Valentino di Alfredo Saccoccio

Posted by on Dic 10, 2018

Ricordo di Rodolfo Valentino di Alfredo Saccoccio

      Sul Santa Monica Boulevard, a due passi dalla Paramount, nel modesto e borghese cimitero di Hollywood, ormai disertato dai grandi morti del cinema, che preferiscono farsi seppellire nel lontano, solitario, arcisontuoso Forest Lawn Memorial Park,  a Glendale, Rodolfo Valentino giace sotto un semplice marmo di Carrara, sul quale hanno inciso soltanto il suo nome; ma, ancora oggi, la sua tomba è sempre ornata di misteriosi fiori freschi, sempre rinnovati, e il suo nome è tutt’altro che dimenticato.

   I fiori misteriosi, si intuisce, sono il tributo delle tante ammiratrici e delle innumerevoli donne che lo amarono e su questo fatto non ci sarebbe niente da raccontare, perché si sa che certe donne romantiche e scompensate si attaccano più durevolmente alla memoria di un morto che ai vivi, specialmente se sono in una età in cui questi non le guardano più. Straordinaria, invece, appare la persistenza del ricordo del bel Rudy in tutto il popolo americano, il quale è senza dubbio il più smemorato del mondo. Ma il fatto è che di Valentino ancora si parla, e si parlerà finché le generazioni della grande guerra non saranno scomparse, non tanto perché  egli sia stato il protagonista  de “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, il film che, oltre a rivelarlo, è stato quello che ha colpito di più  l’immaginazione degli americani, ma perché Valentino, in una certa maniera, ha impersonato il tipo ideale dell’uomo del dopoguerra, del periodo della “prosperity”, dell’epoca ormai mitica, nella quale non c’era stenografa o ragazza di bar che non avesse il suo agente di cambio e un pacchetto di fissati di borsa fra il rosso per le labbra e la scatola di cipria dentro la borsetta.

   Di fronte a Babbit sempre più prosperoso, sempre più impegolato negli affari, sempre più ottuso e asessuato, la donna statunitense aveva eletto idolo del suo cuore il bel Rudy, tenebroso, ardente, crudele, prodigo e farfallone dello “Sceicco”. Le donne americane non scrivevano più al loro “flirt” o all’uomo del loro “romance” incominciando  con un “mio caro” o “mio amore”, ma con “my sheik”. E con tale senso la parola araba è entrata e rimane nel vocabolario americano.

   Rodolfo Valentino, al secolo Rodolfo Guglielmi, è nato, il 6 maggio, 1895, a Castellaneta, nelle Puglie. Suoi padre faceva il veterinario e, oltre al reddito della professione, godeva quello di una piccola fortuna, che, alla sua morte, lasciò ai tre figlioli che aveva avuto: due maschi e una femmina.

   Le notizie che si hanno sulla giovinezza di Rodolfo sono molto incerte. Si sa che egli studiò all’Istituto Nautico di Venezia, per passare poi ad una scuola di agronomia a Genova, che fu disertata presto anche questa. Né la vocazione del mare, né quella della terra dovevano essere profonde nello spirito del bel giovanotto, mentre egli doveva sentire, invece, fortissima quella per i sottanini delle divette dei varietà. Fatto sta che, piantati gli studi sugli innesti e sulle concimazioni, egli si trasferì a Parigi, senza giustificare l’espatrio altro che con la voglia che aveva di divertirsi.

   Nelle memorie che ha lasciato,che sono chiaramente uno zibaldone di avventure erotico-romanzesche, fatto scrivere da qualche agente di pubblòicità nell’epoca dei suoi maggiori trionfi, egli ammette di essersi recato a Parigi soltanto per divertirsi, come se fosse stato un giovane boiardo russo o il figlio di un re degli stuzzicadenti sterilizzati, ma la verità è che forse egli contava sui suoi successi femminili, come fanno tanti bei giovani, per trovare una via che gli consentisse, magari tramite il matrimonio , una ricca sistemazione.

   A Parigi , però, non trovò nulla di tutto ciò. L’epoca dei “danseurs mondains” argentini e dei principi georgiani non era ancora spuntata, sebbene il tango fosse già uscito dal nativo Barrio de las Ranas di Buenos Aires approdando sulle pedane dei “cabarets” parigini, ma era ancora una danza da professionisti, da virtuosi, che le signore non sapevano ballare.

   Tuttavia Rodolfo, che era portato molto per la danza, l’imparò e, quamndo fu agli sgoccioli dell’eredità paterna, invece di tornarsene a fare il figliol prodigo, a Castellanera, pensò bene di salpare per l’America, altro Paese di fortunati incontri, produttore di figlie di miliardari facilmente innamorabili. Ma né il biglietto di prima classe sul “Clevewland”, né la stanza all’Astor, in piena Broasway elegante, procurarono l’avventura desiderata all’efebo diciannovenne, dal torso simile a quello dell’Eros vaticano, per citare il paragone di una sua anmmiratrice.

   Esaurite le ultime risorse, Rodolfo abbandonò il lussuoso albergo e si cercò un pane più duro, ma meno problematico. Ricordandosi di aver appreso,  a Genova,  qualche nozione di agronomia, si improvvisò giardiniere ( in America i disegnatori di giardini formano una branca specializzata dell’architettura), ma non vi riuscì. Poi tentò qualche altro mestiere senza miglior successoi. Rodolfo finì con il fare il “barman” in un locale della Ventesima Strada, dove, naturalmente, sedusse la guardarobiera, una graziosa polacca, che i biografi dell’attore segnalano come colei che scoprì, per prima, le meravigliose attitudini di ballerino del suo “friendship”.

   Sembra che seguendo i consigli di questa esperta fanciulla, Rodolfo si sia deciso a ricacciare, fuori dal baule,  il frac parigino, il nero mantello, dai risvolti di raso bianco, la tuba ad otto riflessi, il bastone d’ebano con il pomolo d’avorio, e a presentarsi al padrone di un nuovo locale notturno appena aperto sulla Broadway, il “Moonlight Club”. La moglie del padrone, che si chiamava Arabella, fu la prima “partner” del nuovo ballerino di tango, la nuovissima danza che nel frattempo, da Parigi, era stata importata a New York e che pochissimi allora sapevano ballare.

   Ma Arabella si innamora del suo compagno di passi strisciati e di frenetiche piroette, diventa  gelosa ed invadente e allora Rodolfo acchiappa una scrittura in una compagnia di riviste che sta per partire in “tournée” per l’Ovest e che, giunta a San Francisco, si scioglie, lasciando a spasso i suoi componenti. Però Rodolfo riesce a sbrigarsela, trovando un posto un posto come ballerino in un locale della costa e arrotondando  le entrate impartendo lezioni di danza.

   Hollywood non è che a seicento miglia, ma egli mon ci pensa, fino al momento in cui un’altra donna gli sussuirrerà questo nome, che, in quel tempo, non era ancora diventato magico. La donna era Inne Mathis, scrittrice di scenari cinematografici, assai apprezzata in quel tempo. Ella incontrò Rodolfo all’ “Alcazar” di San Francisco, dove egli danzava, e gli suggerì di tentare la fortuna ad Hollywood, non solo, ma gli offrì il suo appoggio. Era la primavera del 1915. Fatto inabile al servizio militare per deficienza toracica (colei che lo ha paragonato all’Eros vaticano non doveva aver l’occhio di uno scultore), il giovanotto fa le valige per Los Angeles, dove, per qualche altro anno, non trova nulla di buono da fare, eccettuato quello che ha fatto finora: il ballerino e la comparsa.

   Però Inne Mathis era una donnina tenace e il giorno in cui Rex Ingram decise di ricavare un film da “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, torrenziale melodramma di Vicente Blasco Ibanez, affidandone a lei la sceneggiatura, ella pensò al suo protetto ed inserì nello scenario un episodio di danza, che piacque all’Ingram.

   Quando questi si metterà in cerca degli interpreti, la Mathis glielo presenterà. Bruno, con gli occhi liquidi e brucianti, il giovane ballerino, dall’uso disinibito del suo corpo nella danza, è il tipo adatto ad impersonare la figura di Julio Desnoyer e viene scritturato. Ma Ingram gli fa mutare il cognome di Guglielmi, difficilmente pronunciabilòe dagli anglosassoni, e così  nasce Rodolfo Valentino, anzi Rudy Valentino, il bel tenebroso dalle basette a punta, dalle labbra tumide e dallo sguardo turbativo, come diceva il poeta Ragazzoni,. che attaccherà alle donne di tutto il mondo la prima psicosi cinematografica, ed anche la più diffusa, poichè nessun attore, tra quanti sono comparsi poi, né Ramon Novarro, Gilbert, Gable, Taylor, riusciranno ad essere pandemici come lui.

   La sequenza del tango ne “I quattro cavalieri dell’Apocalisse” riassume tutto Rodolfo Valentino, né egli riuscì  a superarsi come ballerino e tanto meno come attore.. Ma come amatore, come “lovelace”, come “tipo che fa impazzire tutte le donne”, egli si perfezionerà definitivamente in “The Sheik”.

   Quando comparve questo film, il successo di Valentino, alimentato da una sagace pubblicità, che aveva abilmente sfruttato le vicende dei suoi molteplici e burrascosi amori, da quello con Jeanne Acker, che egli sposò e che lo abbandonò dopo sei ore, al matrimonio con Natascia Rambova, che lo ridusse in prigione per bigamìa e che finì con un altro divorzio, aveva toccato i vertici. Nessun personaggio americamo, neanche Wilson, ebbe in Europa le accoglienze trionfali che ricevette Rodolfo Valentino quando, dopo una serie intensissima di film, rivalicò l’Oceano per cogliere gli allori europei.

   Al suo ritorno ad Hollywood, sciolto da ogni contratto con le case produttrici, egli si mise a lavorare in proprio, sotto l’egida degli Artisti Associati, come facevano già Fairbanks, la Pickford e Chaplin, iniziando la pellicola “L’Aquila Nera”. Nel frattempo Rodoldo aveva conosciuto Pola Negri e sembrò che il nuovo amore dovesse finire in un altro matrimonio. Ma il periodo di fidanzamento, come venne chiamato, si protrasse a lungo.  Intanto Valentino  aveva già compiuto un altro film, “Il figlio dello Sceicco”, che era  un tentativo  di far rivivere il fortunato predecessore, e partì per New York, onde assistere alla presentazione.

   Arrivò in tempo, ma il giorno dopo  l’ulcera gastrica di cui soffriva da qualche mese si perforava: Egli moriva, dopo l’operazione di peritonite, nella clinica in cui era stato trasportato. Era l’agosto del 1926. New York, l’America, il mondo avevano seguito il corso della brevissima malattia dell’attore con un orgasmo crescente.. All’annuncio della sua morte, una sua ammiratrice inglese, Margaret Murray Scott, si suicidava. Ai suoi funerali centinaia di donne caddero in deliquio. Le ambulanze non bastarono, la polizia dovette caricare la folla. Egli era stato chiuso in una bara di bronzo e di argento, che partì per Hollywood, scortata dalle sue ex mogli, dalla fidanzata Pola Negri e da una quantità di altre bellissime donne in lutto, che avevano qualche ragione più diretta di piangerlo  di quella sciagurata di Margaret Murray di Londra, che aveva parlato coin lui solo un minuto preciso. IL treno che recava la salma idrolatata e le sue lacrimatrici si profumò a tutte le stazioni, lungo tremila miglia di ferrovia con le valanghe di fiori disposti sulle banchine, al suo passaggio,  dalle “fans” discinte e convulse. Una banda di “cow-boys girls” in sella a nitrenti puledri fermò il convoglio a pistolettate in pieno deserto, per poter issare sul vagone una corona di selvagge corolle di “mesquitas”. Infine il dardeggiante sole di Hollywood fece stramazzare, colpite da insolazione, ventitrè persone durante le esequie.

   L’amministratore di Rodolfo non rese mai i conti di  quanto aveva guadagnato e speso il Valentino. Il fratello di lui, cav. Alberto Guglielmi, accorso con il primo treno da Castellaneta a Hollywood, per raccogliere l’eredità, ci rimise le spese del viaggio e   si mangiò, in una causa annosa contro l’amministratore, quasi tutto il suo. Del fratello famoso e glorioso non gli rimase che lo pseudonimo, che egli adottò in vani tentativi di sostituirlo sullo schermo. Non gli rimase nulla, neppure la casa che Rudy possedeva sulla collina tra Wilcox Avenue e Highland Avenue, perché essa era sotto sequestro, in attesa del giudizio e non se ne poteva ricavare alcun utile affittandola, perchè nessuno la voleva, essendo “frequentata dagli spiriti”. Non si sapeva se da quelli delle donne morte per lui, o da quello inquieto e ardente del grande amatore, simbolo del sesso, spentosi in bellezza, a solo trentun anni, prima che le tempie gli si sfoltissero e che la pancetta gli sporgesse di due dita, come al fratello, cav. Alberto, che  era la sua immagine perfetta, con due o tre anni di più.      

Alfredo Saccoccio n

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