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Santa Maria Maggiore della Pietrasanta a Napoli. I tesori nascosti di Sgarbi

Posted by on Dic 21, 2016

Santa Maria Maggiore della Pietrasanta a Napoli. I tesori nascosti di Sgarbi

La pietra santa, che se la baci ti monda da ogni peccato, non è mai stata trovata, sebbene dicano si trovi sotto la chiesa che ne prende il nome: Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. Questa chiesa fu fondata, nel VI° secolo, su un tempio dedicato alla dea Diana, abbattuto per cancellare il mito della dea, che attirava  fanatiche fedeli, le dianare, ovvero le janare, streghe che – si diceva –  chiamavano il diavolo, che di notte veniva a visitarle nelle sembianze di un enorme maiale.

Si racconta che, dopo l’abbattimento del tempio, il porco non venne più e che poi ogni anno il vescovo, affacciato dalla finestra della chiesa, ne sgozzava uno. Questa chiesa, all’incirca mille anni dopo la sua costruzione, venne rifatta. Fu al tempo di quel barocco napoletano che amava liberi spazi e qui, alla Pietrasanta, questi spazi ci sono. Ce ne è uno amplissimo sotto la cupola, che si apre intorno: bellissimo.

Ora, però, e fino al ventotto maggio, non lo si può pienamente godere, perché  è frazionato dai pannelli posti per la mostra “I tesori nascosti” (150 opere di collezioni private), a cura di Vittorio Sgarbi. Che è una mostra molto bella. Imperdibile, come si scrive nei supermercati indicando un’occasione eccezionale. Per vederla, bisogna sapere che la Pietrasanta è nel centro antico di Napoli, non lontano dalla chiesa gotica di San Pietro a Maiella, vicino a quella, tappezzata di magnifici intarsi di marmi colorati, della Croce di Lucca e attigua alla cappella voluta da Gioviano Pontano, il famoso umanista. In più, come accortamente dicono i cartelli che pubblicizzano la mostra, è a soli duecento metri dal famoso Cristo Velato.

Il criterio seguito dal professore Sgarbi nel preparare questo evento è stato quello di collocare le opere secondo una precisa successione temporale. Un metodo museografico che ne facilita la comprensione e suggerisce il senso dell’evoluzione dell’arte e della storia. La mostra ha inizio con due teste del tredicesimo secolo, l’epoca di Federico II, che, con il loro modellato armonioso e compatto, denunciano la loro ascendenza greca.

E appunto dalla scultura federiciana, passata in Toscana con Nicola de Apulia, detto Pisano, nasce quella scultura che ebbe un sommo interprete in Donatello, al quale è stata di recente definitivamente attribuita, in base a documenti, la paternità di quella testa di cavallo, che era nel palazzo napoletano dei Carafa, finora considerata di epoca greca. Il che ha fatto parlare di un gemellaggio tra Napoli e Firenze. Sebbene non si possa certo essere gemelli della propria madre.

In mostra, di seguito, due crocifissi, uno piccolo e  prezioso per la sua raffinata decorazione e un altro che suggerisce i sentimenti delicati di una fede profonda. Poi c’è un San Giovanni Evangelista di Tino di Camaino, lo scultore senese che, dice Sgarbi, deve essere considerato meridionale per aver lavorato nel Sud e per lo stile della sua arte. Belle ed eleganti sono due figure dipinte da Bartolomeo Vivarini, (e siamo nel Quattrocento): un sant’Antonio Da Padova e un San Ludovico, importante per la storia di Napoli, perché, figlio del re Carlo d’Angiò, rinunciò al trono, si dice, per la gloria celeste e fu fatto santo. Era vissuto solo ventidue anni.

Sgarbi ha posto in mostra opere di artisti famosi e anche di quelli ignoti ai più. Come, d’altronde, è suo costume: scoprire, nei suoi viaggi per l’Italia alla ricerca del bello, opere di autori ritenuti modesti o ignoti e dargli fama. Ecco così in mostra un angelo di Stefano da Putignano, di cui scrive diffusamente nel suo libro “Gli anni delle meraviglie”. E c’è una Vergine Annunciata del giustamente famoso Giovanni da Nola, insieme a due sculture della sua scuola.

Nella pittura del Seicento, che la fa da padrona, ci sono opere del famoso Guido Reni e una toccante Deposizione di Alessandro Tiarini, un pittore molto meno noto. E c’è una Maddalena in gloria di un pittore famoso, Giovanni Lanfranco, e un Giuda Taddeo di un pittore valente ma piuttosto ignoto, Marcantio Bassetti.  Se vi piace il Seicento, così caldo e avvolgente, potete gustarne tante di opere, una finanche di una star, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, famosissimo in tutto il mondo.

E, a proposito dei capricci della fama, possiamo aggiungere che anche lui, dopo avere avuto successo nei primi anni della sua attività, era stato pressoché dimenticato, fin quando, nel secolo scorso, un prestigioso critico d’arte  italiano lo riportò alla luce e lo osannò. Qui è in mostra con una Maddalena addolorata, che riprende quella da lui dipinta nella parte inferiore della “Morte della Vergine”, ora al Louvre.

Molte sono le opere presenti di grandi artisti del Seicento: Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera, Andrea De Leone, Mattia Preti, Luca Forte, Micco Spadaro … Ci sono anche due opere, e ci affacciamo con lui sul Settecento, di Luca Giordano: Olindo e Sofronia, con la tipica concitazione giordanesca dei movimenti delle figure e dello spazio e Sant’ Andrea apostolo, in cui appaiono giordanesche le pagine dei libri, le quali sembrano lasciare trasparire un luce posta all’interno.

Del Settecento Sgarbi ci offre un delizioso San Giuseppe col Bambino di Giambattista Piazzetta, tre opere dello strepitoso Corrado Gaquinto, due opere in cui Paolo De Matteis appare più tranquillo che altrove, un tondo delizioso di Filippo Falciatore con Il sogno di Erminia” e ancora e ancora….

Ricca è anche la rassegna dell’arte ottocentesca. Nella quale si nota, tra gli artisti che si affacciano sul Novecento, Vincenzo Migliaro, un po’ anomalo nella sua La Parigina, Vincenzo Gemito, con tre opere, e Antonio Mancini con il Ritratto del Padre. La mostra si conclude con un’ampia  panoramica sul Novecento, che comprende anche i primi anni del secondo millennio.

Questa non è una mostra, è un museo” ha detto Sgarbi. Ed è vero. Ma, mentre un museo è fatto, generalmente, da diversi direttori, questa mostra-museo è opera di uno solo. È il museo “Sgarbi”. Perciò conviene soffermarsi sulla scelta, da lui operata, di tre opere di Giorgio De Chirico, che illustrano varie inflessioni del pensiero di questo artista. C’è l’opera Bagni misteriosi, che interpreta il ricordo della classicità tanto a lui cara, mettendo insieme vari elementi classici, alla presenza di un uomo contemporaneo.

E c’è un’opera della serie Muse inquietanti, che esprime chiaramente, con i caratteri tipici della sua pittura, la profonda visione di De Chirico del mondo contemporaneo. Vi è la rappresentazione di una strada solitaria realizzata prospetticamente, con l’accentuazione della profondità, mentre due immobili figure pseudo-umane, una sorta di manichini, con una testa semplificata in una piccola oblunga forma senza lineamenti, sono lì, volte verso l’osservatore.

L’uomo che si pone con la classica prospettiva a guardare il mondo, dal suo unico ristretto solipsistico punto di vista, verso l’unica direzione della profondità, é l’uomo contemporaneo – sembra dire De Chirico. E, giacché le linee di profondità sono quelle parallele che, per definizione, si uniscono all’infinito, quest’uomo guarda verso l’unica direzione di un progresso senza fine e senza meta, verso il nulla. E si è disumanizzato.

Ma ecco un’opera anomala nel panorama dechirichiano. In questa, non vi sono strade diritte ma stradine che vanno liberamente verso direzioni diverse, vagando in tondo. Al centro, una classica fontana, fonte di vita. Sullo sfondo, un Vesuvio fumante. Il titolo? Ovviamente Napoli. Un simbolo. Con un pensiero nascosto. Un interrogativo: potrà Napoli, con la sua diversità, la sua anomalia prospettica, salvare l’uomo contemporaneo dal diventare un immobile manichino?

Adriana Dragoni

fonte

agenziaradicale.com

 

 

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