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SCANDALO BANCA ROMANA di Fernando Riccardi

Posted by on Gen 22, 2016

SCANDALO BANCA ROMANA di Fernando Riccardi

la politica economica del capitale nel terzo millennio, opposta a quella teorizzata dal genovesi e dal galiani,  si basa su un enorme castello di carta frutto di un debito gigantesco globalizzato. in giro per il mondo c’è una massa di banconote 4 volte superiore alla ricchezza reale frutto dalla continua immissione di denaro stampata dalle banche centrali. per la storia non è una novità infatti in passato, circa un secolo fa, nel nostro caro bel paese già è avvenuta una cosa del genere soltanto che allora era un reato ed oggi è normale, sto parlando dello scandalo della banca romana dove fu stampat in maniera esagerata una quantità di denaro eccedente la ricchezza reale. tutta la vicenda c’è la spiega in maniera precisa e chiara il nostro storico della porta accanto che pensa in napoletano ma parla in italiano FERNANDO RICCARDI………………

La crisi che sta attraversando il mondo della finanza è attestata a chiare note dai ricorrenti scandali che stanno caratterizzando, a qualsiasi latitudine, le istituzioni bancarie. Gli esempi da fare sono numerosissimi: basti pensare, tanto per restare nel nostro bel paese, alla violenta bufera che ha investito il gruppo Montepaschi di Siena oppure, più di recente, la Carige, con l’ex presidente finito in carcere con le gravissime accuse di truffa e riciclaggio ai danni dell’istituto. Ma quella degli “scandali bancari” non è un qualcosa venuto alla luce di recente. E’, invece, un fenomeno antico che affonda le sue radici indietro nel tempo. Basti pensare che un primo clamoroso esempio risale al declinare del XIX secolo, appena una trentina di anni dopo il faticoso raggiungimento dell’unità nazionale. Ed è lo scandalo della Banca Romana. Ho pensato di estrapolare dalle nebbie indistinte del passato questa particolare vicenda specie perché essa presenta una straordinaria analogia con quanto sta accadendo oggi giorno nel sempre più disastrato e corrotto pianeta finanziario finito nelle mani di speculatori avidi e criminali. Alla fine dell’800 nell’Italia dei Savoia erano ancora sei gli istituti che avevano facoltà di emettere moneta: la Banca Nazionale di Torino, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito e, infine, la Banca Romana che poi era la vecchia banca dello Stato Pontificio. E già questo la dice lunga sulla confusione che regnava in quel particolare settore. Ma concentriamoci, in particolar modo, sulla Banca Romana. Nell’estate del 1871 la capitale d’Italia si spostò da Firenze a Roma, il che provocò una impetuosa “febbre edilizia”. Tutti a Roma, sentendo odore di affari, si misero a costruire pensando ad una notevole espansione del perimetro urbano che poi, in effetti, si concretizzò in misura marginale. I prezzi delle aree edificabili salirono alle stelle e diventarono particolarmente appetibili. La capitale ben presto si trasformò in un gigantesco cantiere edile. Nell’impresa, naturalmente, si gettarono anche chi non aveva disponibilità economiche tali da portare a termine i lavori senza difficoltà alcuna. E così moltissimi impresari dovettero ricorrere ai prestiti generosi e a lungo termine concessi con disinvoltura dalla Banca Romana. Le prospettive di guadagno, infatti, erano così allettanti che i funzionari largheggiarono nelle concessioni di denaro in prestito, senza stare troppo a sindacare sulle coperture e, soprattutto, sulle garanzie, come si dovrebbe fare normalmente. Già dopo qualche anno, però, si iniziò a comprendere che a Roma il boom economico così tanto vagheggiato non ci sarebbe stato. A complicare il tutto, poi, era giunta la grave depressione mondiale del 1887-1888 che aveva ancor di più mortificato il settore economico. Per cui chi aveva investito nel settore edilizio si ritrovò con una montagna di debiti da saldare e con pochissime speranze di risollevare la sua situazione. Sull’altro versante, invece, le banche furono sommerse da una montagna di cambiali, che valevano quanto la carta straccia: molti di quei soldi dati in prestito, infatti, non sarebbero mai rientrati. La Banca Romana si ritrovò ben presto in grandissime difficoltà a causa delle enormi somme di denaro investite nel settore edilizio, operazione che si rivelò del tutto fallimentare. Nel 1889 Luigi Miceli, ministro del governo Crispi, dispose un’inchiesta su tutti gli istituti bancari di emissione e, quindi, anche sulla Banca Romana. Inchiesta che fu affidata al senatore Alvisi e al funzionario del tesoro Biagini. L’investigazione si protrasse per più di due anni e venne coperta dal segreto più totale. Anzi, nel giugno del 1891, il presidente del Consiglio, marchese Di Rudinì, vietò al senatore Alvisi di riferire al Senato le risultanze dell’indagine in nome del “superiore interesse del Paese”. Verso la fine del 1892, però, lo stesso Alvisi, poco prima di passare a miglior vita, ebbe un sussulto di coscienza e riferì ad alcuni amici parlamentari i risultati dell’inchiesta sulla Banca Romana. Qualche settimana più tardi il deputato radicale, Napoleone Colajanni, rese note in pubblica udienza le “verità” che fino ad allora erano state nascoste. La Banca Romana non solo aveva emesso moneta per quasi il doppio della cifra autorizzata (113 milioni di lire contro 60) ma aveva sfornato anche 40 milioni di banconote false. Per di più, accanto alla circolazione abusiva, risultò un ammanco di cassa di 20 milioni e una falsificazione di bilanci che andava avanti da più di venti anni. Di fronte a tale situazione fu chiesta a gran voce al presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, una commissione parlamentare di inchiesta che potesse giungere alla individuazione dei veri responsabili di cosi grave truffa. Giolitti, però, si oppose strenuamente e preferì promuovere una sua inchiesta che affidò al presidente della Corte dei Conti Martuscelli. Qualcuno sostiene che Giolitti non volle la commissione parlamentare d’inchiesta specialmente per coprire il coinvolgimento diretto del re Umberto I di Savoia nella faccenda: il monarca, infatti, era grandemente indebitato con la Banca Romana. Questa volta l’inchiesta si concluse rapidamente e già nel gennaio del 1893 Martuscelli potè constatare la lampante esistenza della truffa. E così vennero subito arrestati Bernardo Tanlongo, governatore dell’Istituto, e il direttore Michele Lazzaroni. Di particolare interesse la figura di Tanlongo, meglio conosciuto come “sor Umberto”, tipico di quel sottobosco governativo che a Roma è sempre stato molto prospero. Da giovane era stato confidente della polizia papalina ed aveva fatto successo per la solerzia con la quale procurava “distrazioni” di ogni genere e tipo ai cardinali. Era poi entrato nelle grazie di Crispi fino a diventare ascoltato consigliere del re Vittorio Emanuele II. Ecco perché la notizia del suo arresto suscitò nell’Urbe molto scalpore. L’inchiesta appurò anche un coinvolgimento diretto della classe politica: il deputato Rocco De Zerbi, accusato di aver preso una mazzetta da mezzo milione, fu trovato morto nel suo appartamento, forse a causa di un infarto o, più probabilmente, per suicidio. Subito dopo, a dimostrazione del caos che lo scandalo stava suscitando in tutto il paese, un direttore del Banco di Napoli fu sorpreso mentre, travestito da prete, tentava di portare all’estero due milioni e mezzo di lire indebitamente sottratte al suo istituto. Quasi contemporaneamente venne ucciso in treno il marchese Notarbartolo, già direttore del Banco di Sicilia, che aveva denunciato una serie di abusi riguardanti il suo istituto. E quando sembrava che la bufera dello scandalo stesse quasi per passare, accadde che Tanlongo, in carcere, cominciasse a “cantare” ammettendo che la sua banca aveva dato cospicue somme di denaro ad alcuni presidenti del Consiglio tra i quali Crispi e persino a quello in carica Giolitti. Accuse che vennero confermate anche da Pietro Tanlongo, il figlio del governatore della Banca Romana. Scoppiò di nuovo il putiferio e Giolitti si ritrovò costretto ad affrontare interrogazioni parlamentari a getto continuo. Lo si accusava da più parti non solo di aver ricevuto indebitamente del denaro ma anche di aver contribuito ad insabbiare la relazione Alvisi-Biagini sulle irregolarità compiute dalla Banca Romana. Di fronte all’incalzare delle accuse Giolitti si vide costretto a nominare un comitato di sette parlamentari con il compito di appurare la verità dei fatti. Nel novembre del 1893 venne presentata in Parlamento la relazione finale: in essa si affermava che ben 22 parlamentari avevano beneficiato dei prestiti dalla Banca Romana. Nella lista compariva anche l’ex presidente del consiglio Francesco Crispi ma non Giolitti. Ad onor del vero il processo che ne scaturì terminò con l’assoluzione di tutti gli imputati. Anche se resta forte il sospetto che si sia trattato di una sentenza addomesticata considerata le implicazioni di parecchi esponenti di spicco della politica nazionale. Non a caso gli stessi giudici denunciarono la scomparsa di importanti documenti a corredo della intricata vicenda processuale. Giolitti era uscito indenne dalla bufera ma non era riuscito ad allontare del tutto dalla sua persona l’ombra dei sospetti. Anche se l’accusa di appropriazione indebita di denaro dalla banca si rivelò infondata (lo stesso Pietro Tanlongo confessò di averla lanciata su istigazione di Crispi che gli aveva promesso di tirare il padre fuori dal carcere) restava sempre il sospetto di un coinvolgimento, sia pure indiretto, del presidente del consiglio nell’affare. In parole povere nessuno credeva che Giolitti, a quel tempo ministro del tesoro, non avesse conosciuto i risultati dell’inchiesta Alvisi-Biagini e, quindi, le gravi irregolarità riscontrate all’interno della Banca Romana. E poi sia l’opinione pubblica che la classe politica rimproverava a Giolitti che, invece di punire come meritava Tanlongo, lo aveva addirittura proposto alla carica di senatore. E così neanche il riordino radicale del sistema creditizio approntato dal suo governo (da allora fu la Banca d’Italia, nata dalla fusione della Banca Nazionale con le due banche toscane, assieme al  Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, gli unici tre istituti a poter emettere moneta) gli servì a molto. L’atmosfera, infatti, si mantenne molto pesante e nel novembre del 1893 provocò una dirompente crisi di governo che sfociò nelle dimissioni di Giolitti. Che, guarda caso, venne sostituito alla presidenza del Consiglio proprio da quel Crispi anch’egli pesantemente coinvolto nello scandalo. Quanto al mondo della finanza le fibrillazioni non si esaurirono con la messa in liquidazione della Banca Romana. Qualche settimana dopo ci fu un’ecatombe di banche: crollarono, infatti, l’una dopo l’altra, il Credito Mobiliare, la Banca Generale, il Banco di Sconto e Sete, la Banca Tiberina e così via di seguito. Eravamo sul declinare dell’Ottocento. Ma, come ben sappiamo, “historia se repetit”. E allora ecco che cose di tal genere accadono anche ai giorni nostri, in questo travagliato inizio di terzo millennio. E non bisogna essere buoni profeti per ipotizzare che fatti di tal guisa accadranno ancora. Purtroppo.

Fernando Riccardi

banca romana

 

 

 

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