Alta Terra di Lavoro

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Tommaso Landolfi, uno scrittore dalla stregata ironia

Posted by on Apr 5, 2017

Tommaso Landolfi, uno scrittore dalla stregata ironia

Nel tempo compreso fra la prima e la seconda guerra mondiale un narratore che ebbe fortuna di critica e di pubblico fu Tommaso Landolfi, nato a Pico, in provincia di Frosinone, già Terra di Lavoro, nel 1908 e morto nel 1979. Di lui ricordiamo “Racconti impossibili”, in cui Landolfi sfoga il suo umore raziocinante e beffardo, il suo gusto per il trucco e per la bella parola rara, che brilla giocando leggermente pesante, forzato, poco gioioso;

“La pietra lunare”, un romanzo che mischia fantasia e naturalismo o realismo della più chiara derivazione, ma sempre con quello stile giocoso, che è più sul versante del fantastico che in quello della realtà; “Dialogo dei massimi sistemi”, la prima opera di Landolfi, scritta nel 1937, una parodìa del racconto filosofico, dove si può cogliere la lacerazione e la drammaticità della ricerca condotta dal letterato laborino con la sua scrittura: una drammaticità che si può riassumere nell’impossibilità di aderire all’esistenza senza le forze irrazionali dell’immaginario, che scemano le possibilità ordinatrici e chiarificatrici della logica e del raziocinio; “Le due zittelle”, in cui è protagonista una scimmia sacrilega, che sarà condannata a morte; “Breve canzoniere”, in cui Landolfi giuoca con le parole e con le cose per aggirare il muro del reale: ecco, da sempre, la letteratura dell’intellettuale picano, per il quale la realtà resta una preda inafferrabile, una divinità eterna ed indecifrabile, inutilmente sondata dalla parola e dalla morte, che sono i due corni avanzanti dell’inesausta lotta dello scrittore con le cose.

Il libro forse più emblematico di Tommaso Landolfi, il più grande scrittore in negativo del Novecento, è “Rien va”, che, a nostro parere, costituisce l’epigrafe di tutta la sua produzione letteraria. E’ un diario “notturno” steso, per la maggior parte, a Pico e, per un’altra parte, a Sanremo, tra il 1958 e il 1960. In esso il problema della morte si affaccia continuamente e prepotentemente, come il problema del futuro (“Mi chiedevo perché io abbia così scarso interesse per il futuro, o meglio un tal positivo aborrimento. Non sarà tanto perché hanno finito per rappresentarcelo come un futuro scientifico anzi tecnico… quanto perché non vi ritrovo gli estremi, diciamo, di una conoscenza o godibilità del mondo”).

In questo, che è il secondo dei suoi diari intimi, dopo “La Bière du pecheur”, pubblicato da vivente, cogliamo tanto scetticismo, tanto travaglio esistenziale, tanta apatìa stoica, anche se culturalmente controllata. Questo libricino ci riporta, a zig zag, a Puskin, che Tommaso Landolfi tradusse in italiano, tanto per amore del poeta quanto per poter giocare alcune lire in più nei casinò. Un prezioso, di un’immensa cultura, che intratteneva una pigrizia oblomoviana ed una sofferenza dostoievskiana, per il quale “la sofferenza era il meno volgare dei passatempi” e per il quale, per bisogno di denaro, passava le notti bianche a tradurre, oltre a Puskin, Dostoievski, Tolstoi, Gogol, Novalis, Hoffmann, Hofmannsthal, Mérimée, eccetera.

Questo autore, che ebbe una grande influenza sugli scrittori della sua generazione, fu un uomo che si era sempre vietato d’amare (“Chi perderebbe il proprio tempo ad amare se trovasse di meglio?”) e che si trova improvvisamente fulminato dallo choc di una paternità, ad un’età relativamente avanzata, assunta senza essere desiderata. Diviso tra l’intenerimento di “un amore privo di tormenti, di preoccupazioni, di presentimenti, di funesti presagi; puro e intemerato” e il desiderio vago di gettare il figlio contro un muro…

“Niente non va sarebbe forse / meglio detto, voglio ammetterlo. / E non di meno…Come! / E’ NIENTE che va, non io”, scriverà egli in una lirica, sopravvivendo in un mondo di morte in cui si perpetua la vita, uomo inquieto che confidava, giorno dopo giorno, in questo diario dedicato alla figlia Idolina, la bambina del 1958, le sue angosce, i suoi sarcasmi e le sue ossessioni, con una superba spudoratezza.

Pochissimo letto in vita, anche se molto stimato dalla critica più importante, che gli attribuì premi letterari come il Viareggio (1958) e lo Strega (1975), quasi per niente letto dopo la morte, come spesso accade in Italia, è importante che venga reimmessa in circuito l’opera di questo straordinario, irraggiungibile, inimitabile scrittore, uno dei più ragguardevoli ingegni letterari del Novecento italiano; un ingegno eccentrico, un aristocratico (la sua famiglia, comitale, sembra che discenda dai Longobardi stanziatasi tra selve e monti italici), uno snob, uno stravagante, un nichilista, un funambolo, un giocatore d’azzardo, essendo un assiduo frequentatore di bische, un volterriano, un illuminista, ma un letterato di straordinaria forza inventiva, di sortilegio, di incanto, le cui opere non sono più scalfibili dal tempo, che costituiscono un inesauribile patrimonio cui attingere con dovizia e con piacere continuo.

Alfredo Saccoccio

 

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