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Tradizioni locali e cultura popolare nelle collezioni borboniche e lorenesi

Posted by on Apr 12, 2017

Tradizioni locali e cultura popolare nelle collezioni borboniche e lorenesi

Napoli fu, per il suo patrimonio ricco di bellezze artistiche ed ambientali, tappa obbligatoria del famoso “Grand Tour”, seguito dal fior fiore dell’intellighenzia europea, dall’élite culturale del Vecchio Continente: da Goethe a Stendhal, da Lamartine ad Andersen, non c’era scrittore o artista che non si fermasse nella città del Vesuvio, terra del sole, dei sogni, del folklore più vivo e verace, alla ricerca di ispirazione per le loro opere.

Nei musei di Napoli, soprattutto nel Museo Duca di Martina, vi è una notevole molteplicità di reperti antropologici e storico-artistici, che riportano echi del nostro passato e pongono l’accento sulla civiltà contadina di quel tempo, il cui simbolo palese di identità era rappresentato dal costume, a volte sfarzoso, orgogliosamente indossato.

La collezione di gouaches, illustrante la vita e i costumi di altri tempi nel Napoletano e in altre zone del Mezzogiorno d’Italia, permette di cogliere attimi di una quotidianità che ha in sè qualcosa di prezioso. Sono costumi popolari del Regno di Napoli e di Sicilia, che ebbe, al tempo di Carlo di Borbone e del figlio Ferdinando IV, una fiorente, straordinaria produzione artistica.

In quel lungo periodo del XVIII secolo Napoli fu il punto di riferimento di artisti provenienti da tutti i Paesi europei, che lasciarono tracce indelebili del loro passaggio e del loro lavoro, riportando in patria ricordi di quel “paradiso popolato di diavoli”, secondo la definizione che ne dette Johann Wolfgang Goethe, il più grande poeta della Germania moderna ed uno dei più grandi di tutti i tempi.

Nei musei napoletani vi è una bella serie di immagini a guazzo di uomini e donne indossanti i costumi popolari dei vari paesi del reame di Napoli, porcellane ed abiti caratteristici. Le gouaches, alcune delle quali di qualità artistiche degne di attenzione per freschezza di tocco e per raffinatezza cromatica, le dobbiamo, in massima parte, ai pittori Alessandro D’Anna e Antonio Berotti, che ebbero, nel 1783, dal sovrano di Napoli, il già citato Ferdinando IV, su ispirazione del marchese Domenico Venuti, il compito di documentare le fogge e gli abiti peculiari del regno di Napoli. Una sorta di rilevamento etnografico e di testimonianza civile, che durò, in una ricognizione capillare, ben 15 anni. Il D’Anna e il Berotti riprodussero fedelmente i costumi del reame, destinati poi ad essere tradotti su porcellana nella Real Fabbrica Ferdinandea e in stampa con privativa reale.

I guazzi napoletani rappresentano un prezioso materiale documentario, eseguiti in un arco di tempo che va dal 1785 al 1799, anno dell’effimera Repubblica Partenopea, finita nel sangue. I più belli sono, senza dubbio, quelli di Alessandro D’Anna, che non si limita a raffigurare l’abito, ma costruisce un ambiente intorno al personaggio, realizzando dei minuti, preziosi quadretti, da Arcadia felice, in cui la vita scorre sana e serena.

Particolarmente interessanti sono alcune gouaches inerenti scene di vita popolare, in cui si evidenziano le sue qualità di narratore piacevole, che racconta, con un pizzico di malizia e di ironia, la varia umanità che lo circonda.

Molto abile si dimostra l’artista nel rendere con morbidezza i merletti e i ricami dei fastosi e suggestivi abbigliamenti femminili, indossati in occasione di grandi feste religiose o di fiere. Nella collezione del Museo di San Martino vi è anche una serie di immagini, riproducenti gruppi o figure singole, tratte dai lavori ad olio di Pietro Fabris, relative a scene di vita popolare, della rutilante vita della plebe napoletana. Essi dettero inizio a quella pittura di scenette folkloristiche di vita popolaresca, che formeranno uno dei motivi fondamentali nella tematica della successiva pittura partenopea. Vi sono rappresentati i momenti più appariscenti e piacevoli, anche se non del tutto abituali, del vivere della gente comune: passeggiate in riva al mare, chiassose scampagnate all’aria aperta o momenti di ozio all’ombra di qualche albero, opulenti banchetti con musica e tarantella sotto l’arco naturale di una grotta tufacea.

Immagini dense di annotazioni umoristiche, che, senza mai abbandonarsi alla tentazione di un’analisi sociale, conservano il realismo e la spontaneità di un’istantanea, colta “con lo spirito di chi per primo si sente divertito attore di quelle tipiche scene di folklore meridionale”. Con grazia e sapiente maestrìa, il Fabris dipinge non solo il volgo, ma anche le alte classi sociali nella loro vita quotidiana, come nella “Festa di Posillipo”, del Museo di San Martino, in cui aristocrazia e popolo convivono, immersi nello stesso clima idilliaco. Egli racconta, con un segno nitido e con un tono di delicata ed accattivante bonomìa, alcuni mestieri tipici come il “venditore di oglio al minuto” o il “venditore di merce detta carne cotta napolitana”.

Di rilievo il bellissimo viso di donna, dallo sguardo intenso, velato di malinconia e di pudore, ombreggiato da un gran copricapo damascato, che pare proteggere la vezzosa “contadina” di Gaspare Traversi, una novella Venere, dalla bocca morbida, sensuale, la quale con una mano allaccia il corpetto, con un gesto di squisito pudore. Questa donna, dalla superba bellezza, sembra quasi riecheggiare la posa della “Velata” di Raffaello Sanzio. Molto belli sono i dipinti di Philipp Hackert, un tedesco innamorato del Sud, effigianti i porti di Brindisi, di Barletta, di Otranto e di Gallipoli, trasfiguranti di luce, popolati da figure multicolori di pescatori, di contadine e di venditori. L’Hackert a Napoli eseguì bellissime vedute, calde della luce mediterranea, ispirate al Golfo e al popolo di Napoli. Da segnalare l’arcatico “tableau vivant” de La Famiglia Reale alla mietitura nella tenuta di Carditello, in cui si riconoscono i sovrani Ferdinando di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo con i loro figli, tutti rigorosamente vestiti con abiti contadini. Bellissima la figura della “Nutrice” con la bimbetta al suo fianco, recante in braccio il principe Giuseppe, abbigliata nel costume di S. Giovanni a Teduccio. La regina è statutariamente seduta sui covoni di grano, evocanti atmosfere di sapore villereccio, più che bucolico, caratterizzate da una natura incantevole e rasserenante.

Rilevante è anche il guazzo di Aversa, nel quale, su uno sfondo con rovine, la donna in costume locale tiene in mano il caratteristico contenitore per le mozzarelle di bufala, che sono visibili in due grosse ceste alle sue spalle. Pure di rilievo sono la donna di Santa Maria di Capua, di ambientazione classica, con il capitello corinzio a terra, e la donna di Traetto, l’odierna Minturno, rappresentata con le castagne infilzate sotto il braccio, mentre sullo sfondo è riportato il traghetto che congiunge le due sponde del fiume Garigliano.

Le opere di Alessandro D’Anna si distinguono da quelle di Antonio Berotti per la morbidezza dei tessuti degli abiti e dai paesaggi caratterizzati da quel rosa delicato del cielo, che costituisce l’abituale sfondo delle sue scene, realizzate sempre con grande attenzione prospettica.

Occorre ora un approfondimento di ricerche su pittori relegati nell’oblìo dei depositi museali, dove spesso hanno subìto irreparabili offese. E’ necessario un solenne riconoscimento ufficiale dell’arte di un periodo a lungo negletto o addirittura denigrato dalla critica imperante come un’epoca d’arti “minori”.

Alfredo Saccoccio

 

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