Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

tratto da “Garibaldi ai giorni nostri…….di Antonio Baudino

Posted by on Ago 12, 2019

tratto da “Garibaldi ai giorni nostri…….di Antonio Baudino

Nel 1842 Ferdinando II, in uno spirito di prosperità e pace per il suo popolo, decise di trasformare le officine di Pietrarsa (oltre 1000 operai), in quel tempo adibite alla costruzione di materiale bellico in una fabbrica di locomotive e materiale rotabile. In quel complesso, dov’era concentrata tutta la tecnologia allora disponibile,fu costruita la prima locomotiva italiana. Ben lontano dal re il desiderio di potenziare l’industria bellica per invadere il Piemonte e l’Italia intera , in un’idea di onnipotente visione di un glorioso futuro. Nel 1844 la ferrovia doveva proseguire per Castellammare, Pompei, Angri, Pagani, Nocera Inferiore per raggiungere San Severo e Avellino. Nel 1855 era stata approvatala costruzione della strada ferrata Napoli-Brindisi e da Napoli agli Abruzzi fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo e un’altra per San Severo. La linea Napoli-Capua doveva protrarsi sino a Cassino, per consentire l’allacciamento alla ferrovia dello Stato Pontificio. La linea Napoli-Avellino doveva proseguire da un lato verso Bari-Brindisi-Lecce, dall’altro nella direzione della Basilicata e Taranto. Furono programmate anche le linee per Reggio e la tratta da Pescara al Tronto. In Sicilia erano previste le linee Palermo-Catania-Messina e Palermo-Girgenti-Terranova. Nel 1860, al momento dell’annessione al Piemonte,erano in funzione 124 Km di ferrovia (tutti nell’attuale Campania) e altri 132 erano in costruzione o in preparazione (gallerie e ponti erano già stati realizzati). Il 15 ottobre del 1860 Garibaldi, insediatosi da circa un mese a Napoli come dittatore, annullò tutte le convenzioni in atto per le costruzioni ferroviarie e ne stipulò una nuova con la Società Adami e Lemmi di Livorno. Dopo aver promesso al popolo la spartizione delle terre dei latifondisti, lo affamò privandolo del lavoro e delle fabbriche. Era l’inizio,già programmato,volto alla distruzione delle imprese meridionali. Nel 1847 il Regno delle Due Sicilie vendette al parente piemontese, il re Vittorio Emanuele, 7 locomotive assemblate a Pietrarsa. Così scrivono, oggi, le Ferrovie dello Stato Italiane in merito al Museo nazionale di Pietrarsa: “Oltre un secolo e mezzo di storia delle ferrovie italiane rivive nelle splendide officine di Pietrarsa, primo nucleo industriale del nostro paese, di molti anni precedente a colossi quali la Breda, la Fiat e l’Ansaldo. Il Museo Nazionale di Pietrarsa fu inaugurato il 7 ottobre 1989, in occasione del 150° anniversario delle ferrovie italiane. Era,infatti,il 3 ottobre 1839 quando il primo treno circolato nel territorio italiano percosse la tratta Napoli-Portici, trainato dalla locomotiva Vesuvio. Una statua (una delle più grandi realizzate in ghisa in Italia) posta nel piazzale del complesso, mostra Ferdinando II nell’atto di indicare il luogo dove costruire le prime officine ferroviarie delle Due Sicilie e dell’intera Penisola. Un’iscrizione ricorda che lo scopo del sovrano era di svincolare lo sviluppo tecnico e industriale del Regno dall”intelligenza straniera”. Nel 1842 “l’intelligenza straniera” era rappresentata dall’Inghilterra. Lo zolfo estratto nelle 134 solfatare copriva circa il 90% del fabbisogno mondiale. Oltre alla produzione di polvere da sparo e dell’acido solforico, lo zolfo era utile per la casa regnante inglese. Era indispensabile ottenere la tacita adesione di Vittorio Emanuele II per attuare l’occupazione di uno Stato sovrano e pugnalare alle spalle Francesco II senza una preventiva dichiarazione di guerra. Convincere il re Galantuomo, personaggio impegnato alla conquista di traguardi più immediati e terreni e lusingarlo con la certezza di essere il futuro condottiero di un paese unito, potente, ricco, prosperoso non era poi una cosa molto difficile. Cavour ordinava al generale Cialdini di partire alla volta di Napoli con l’esercito piemontese per impossessarsi del Regno delle Due Sicilie e incaricava l’ammiraglio Persano di seguire da lontano l’impresa di Garibaldi. Le casse dello Stato non contenevano le risorse necessarie per sostenere l’ardua impresa garibaldina, ma i milioni oro erano là, a portata di sbarco, depositati nelle casse delle Due Sicilie, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia. Un tesoro in oro sonante, quindici volte superiore alle dilapidate disponibilità piemontesi. Un miraggio che poteva trasformarsi in realtà. Il Palazzo Reale di Napoli e la Reggia di Caserta contenevano tesori inestimabili, un bottino di guerra imponente, rimpinguato con la spogliazione delle attività del Sud. Garibaldi, esperto in scorribande, tempratosi in Sud America, già al soldo degli inglesi, era l’avventuriero adatto. Un eroe “usa e getta”. Con l’aiuto di mercenari prezzolati, provenienti dall’Italia e dall’estero (pochissimi i piemontesi), di falsi disertori dell’esercito sabaudo, di una sapiente regia atta a coagulare nell’impresa le idee liberali e repubblicane innescate dalla Rivoluzione francese e, soprattutto, tramite una corruzione mirata (denari e promesse di futuri e remunerativi incarichi) nei confronti di dignitari e militari del giovane re di Sicilia, l’impresa era possibile. Ottenuto l’indispensabile sostegno materiale e finanziario, e l’adeguata protezione politico- militare dell’Inghilterra, si poteva dar corso all’avventura.

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