Alta Terra di Lavoro

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TRENO DI BALVANO ALTRO MISTERO ITALIANO

Posted by on Feb 1, 2016

TRENO DI BALVANO ALTRO MISTERO ITALIANO

Abbiamo parlato della Strage di Caiazzo grazie bellissimo documentario TERRA BRUCIATA  e con la presente parleremo di un altra strage dimenticata della seconda guerra mondiale il Treno di Balvano grazie ad un saggio di Fernando Riccardi di seguito riportato. oltre al saggio allego anche il film documentario  Terra Bruciata che anche se vi bucherà lo stomaco merita di essere visto.

8017: il treno della morte

Marzo 1944: gelida primavera di guerra, di distruzione e di morte. La Penisola è spaccata in due. Al sud stazionano gli anglo-americani e la cricca badogliana. Il centro-nord, invece, è ancora controllato dai tedeschi e dai reparti italiani che hanno deciso di seguire il Duce. Il fronte è bloccato a Cassino con gli assalti alleati che si infrangono contro la linea Gustav, un formidabile baluardo che corre ininterrotto dal Tirreno alle Mainarde. La distruzione del monastero di Montecassino non riesce a sbloccare la situazione che rimane in una fase di stallo grazie anche ai modesti progressi delle truppe anglo-americane inchiodate sulla spiaggia di Anzio. E se nel Lazio meridionale il quadro è drammatico, se le città dell’Italia centro-settentrionale sono martoriate dai devastanti bombardamenti alleati con migliaia di vittime innocenti, nella porzione meridionale dello Stivale non è che le cose vadano meglio. Gli anglo-americani, più conquistatori che alleati, si divertono a mantenere la gente nella miseria più nera. Napoli è lo specchio fedele di tale disperazione: si muore letteralmente di fame e non bastano sigarette e cioccolata per placare i morsi allo stomaco. Si può anche cambiare casacca dall’oggi al domani, ma senza mangiare non si può stare. E’ vero, c’è la “borsa nera” e per chi ha i soldi il problema non esiste. Anche se per un litro d’olio, invece di 14 lire, ora ce ne vogliono 100. Ma gli altri cosa debbono fare per sfamare la famiglia non avendo neanche un centesimo in tasca? Bisogna industriarsi, darsi da fare. A Napoli è impossibile trovare pane, olio, farina, sale, uova, frutta, carne, ortaggi. Troppo vicino il fronte con i rimbombi delle cannonate che si avvertono nitidi fin sotto il Vesuvio. Bisogna cercare altrove, nelle campagne, laddove, passata la guerra, le attività agricole si sono rimesse in moto. L’occupazione alleata, però, ha troncato gli scambi tra città e campagna. L’hinterland napoletano è in mano ai contrabbandieri: sono loro che fanno incetta dei beni di prima necessità provvedendo a rivenderli, poi, a prezzi stratosferici. Bisogna rivolgersi altrove, andare più lontano. Magari nelle campagne lucane o pugliesi. Un bel cammino ma foriero di rosee prospettive. Iniziano, così, i “viaggi della fame”. Frotte di disperati si aggirano nei pressi della stazione sperando di salire su un treno diretto a sud. Operazione improba: solo due i convogli passeggeri che, in una settimana, collegano Napoli a Bari. Le carrozze sono sempre piene e trovare un posto non è facile. Anche perché, per salire su quel treno, si deve prima ottenere il lasciapassare dal comando alleato. Cosa si fa allora? Semplice: si sale da clandestini sui vagoni merci profittando dei controlli non troppo rigidi. E poi tali convogli viaggiano quasi tutti i giorni. Anche il 2 marzo del 1944 un treno merci, l’8017, parte da Napoli con destinazione Potenza. 47 vagoni, una ventina dei quali scoperti, trainati da due locomotive per superare le notevoli pendenze della linea. I carri sono quasi tutti vuoti: deve essere caricato, infatti, un ingente quantitativo di legname per la ricostruzione dei ponti distrutti dalle bombe. Un’occasione irripetibile per quanti hanno deciso di fare il viaggio da “portoghesi”. Nel corso delle varie fermate il convoglio si riempie di clandestini. Il servizio d’ordine, affidato ad un drappello di militari italiani, è ben disposto a chiudere un occhio, anzi tutti e due, di fronte all’assalto di quei disperati. Fatto sta che sul treno trovano posto 600 passeggeri o giù di lì. Quasi tutti di Napoli e dei paesi limitrofi che si recano in “missione alimentare” nel potentino. Vi è, poi, chi si reca a trovare i parenti nel sud e chi, da buon “borsista”, vuole fare il carico di derrate alimentari da rivendere a prezzi esorbitanti. La giornata è inclemente con freddo, pioggia e qualche fiocco di neve. Ciò malgrado il viaggio fila liscio almeno fino alla stazione di Balvano, piccolo comune a 400 metri di altezza, a soli 32 chilometri da Potenza. Un paese svuotato dall’emigrazione e che nel novembre del 1980 sarà distrutto dal terremoto dell’Irpinia. Qui il treno si arresta: sulla linea a binario unico, infatti, poco più avanti, viaggia un altro convoglio che ha avuto un guasto alla locomotiva ed è stato costretto a fermarsi. La sosta si protrae per una quarantina di minuti. Poi l’8017 riprende la sua corsa. Una corsa di breve durata perché, improvvisamente, all’interno della “galleria delle Armi”, lunga 1.692 metri, si blocca. Le ruote scivolano sui binari viscidi e il treno non riesce a proseguire il cammino. Anche perché ci si trova in un tratto con una pendenza del 13 per mille. Malgrado gli sforzi dei macchinisti che gettano palate di carbone nella caldaia e sabbia sulle rotaie, non c’è verso di andare avanti. Ad un certo punto, anzi, il convoglio, che pesa oltre 500 tonnellate, inizia a retrocedere. I ferrovieri, allora, si vedono costretti ad azionare i freni e così il treno resta bloccato. E’ più o meno l’una del 3 marzo 1944. La tragedia si sta consumando silenziosa ma inesorabile. L’ossido sprigionato dalla combustione del carbone (il minerale di provenienza iugoslava, fornito dagli alleati, è di pessima qualità, con un’elevata percentuale di scorie, zolfo e ceneri) si diffonde velocemente nella galleria trasformandosi in una letale nube tossica. Tantissimi restano soffocati passando, senza accorgersene, dal sonno alla morte. Riescono a salvarsi soltanto quelli che, al momento dell’arresto del treno, sono rimasti fuori dal tunnel. Soltanto dopo due ore i ferrovieri di Bella-Muro si accorgono che il treno 8017 non è transitato e decidono di andare ad ispezionare la linea: eppure tra le due stazioni vi sono soltanto 8 km. Nel frattempo a Balvano giungono trafelati e sconvolti due frenatori del treno maledetto che, scampati alle esalazioni, si sono incamminati al buio lungo la tratta in cerca di aiuto. Solo allora si mettono in moto i soccorsi. Giunti nella galleria si trovano davanti ad una scena apocalittica: centinaia e centinaia di morti. Parecchi stesi inanimati in mezzo alle rotaie. Intorno alle 5 il treno, rimorchiato, viene portato a Balvano con il suo triste carico di morte. Alle prime luci dell’alba un funereo rintocco di campane induce i balvanesi, con in testa il parroco, a scendere alla stazione. Sono loro che estraggono i corpi dal convoglio e li mettono in fila sul marciapiede. Accorre anche il medico condotto che si affanna nel tentativo di portare aiuto ai poveretti ancora in vita. Poi, però, da Potenza, arrivano gli americani e la stazione diventa off-limits. Nessuno può più avvicinarsi, neanche il sindaco, il medico, il sacerdote o il procuratore del Re. I cadaveri vengono tumulati in tutta fretta, senza alcuna cerimonia funebre, in tre fosse comuni, due per gli uomini e una per le donne, all’interno del cimitero cittadino. Così in fretta che non ci si preoccupa neanche di procedere al riconoscimento. Quante furono le vittime? Difficile dirlo. Una lapide apposta qualche tempo dopo nel cimitero di Balvano parla di 509 morti, 408 uomini e 101 donne. Tra le vittime anche otto militari e sette ferrovieri: di questi si salvarono solo i tre frenatori di coda e il fuochista di una locomotiva che, svenuto, cadde sulle rotaie. Riuscì a farla franca un centinaio di passeggeri anche se essi, subito dopo la tragedia, non si fecero vivi temendo di essere puniti per il loro status di clandestini. Il comando alleato, e questa è la cosa più sgradevole, fece del tutto per nascondere o, quanto meno, per minimizzare l’evento che resta, invece, il più grande disastro ferroviario d’Europa. “Il Risorgimento”, giornale stampato a Napoli, l’unico autorizzato dagli alleati, il 7 marzo diffuse una notizia che parlava di alcuni morti per asfissia in una località dell’Italia meridionale. Notizia che fu costretto a dare, sia pure in forma vaga, perché il giorno precedente, da Lisbona, era rimbalzato in Italia un comunicato dell’agenzia Reuter sulla tragedia di Balvano, subito ripreso dai giornali nazionali. Il 9 marzo anche il governo Badoglio, da Salerno, si pronunciava sul disastro: “La sciagura deve attribuirsi alla pessima qualità del carbo­ne fornito dal comando militare alleato perché già si era verificato, sulla stessa tratta, un caso di morte per asfissia del personale di macchina di un treno dell’autorità alleata”. Una commissione parlamentare d’inchiesta, dopo un excursus rapido e lacunoso, si affrettò a considerare la sciagura dovuta a cause di forza maggiore non imputabili ad alcuno. Al contrario una relazione stilata nel 1952 dal ministero dei trasporti concluse che il treno 8017 si fermò nella galleria perché il macchinista fu ucciso dalle esalazioni tossiche prodotte dalla combustione del carbone. Carbone che era stato imposto dal comando alleato e che non era adatto ad essere bruciato nelle locomotive in esercizio a quel tempo. Passato lo sgomento alcuni parenti delle vittime iniziarono un iter giudiziario presso il tribunale di Napoli allo scopo di ottenere un risarcimento. Il processo, lungo e tortuoso, si concluse nel 1959 quando gli uffici del Tesoro concessero 320 mila lire ai familiari. La sentenza inserì la vicenda del treno 8017 tra gli eventi bellici per i quali “viene concessa un’indennità per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle forze armate alleate”. Riconobbe, in parole povere, la responsabilità degli alleati. I quali, dal canto loro, more solito, non stettero troppo a preoccuparsene. Dopo aver tentato in tutti i modi di insabbiare l’accadimento (al sindaco di Balvano fu proibito di indagare, mentre nel 1946 l’inchiesta del tribunale di Potenza venne archiviata non essendosi individuati gli estremi del reato), per salvare la faccia davanti all’opinione pubblica, aprirono un’inchiesta i cui risultati non sono mai stati resi noti. Nel 1951 il “Time” scrisse che il governo alleato aveva fatto del tutto per occultare la tragedia soprattutto per evitare un effetto deprimente sul morale degli italiani, già molto scosso dalle vicende belliche. E mentre si giocava a nascondino, da Napoli e dintorni i parenti delle vittime di quel lugubre viaggio, iniziavano il pellegrinaggio nel piccolo cimitero di Balvano. Molti non avevano neanche una tomba sulla quale piangere o pregare. Una madre, intervistata da un giornalista inglese nel 1962, così disse: “Non so di preciso dove è sepolto mio figlio, ma so che è vicino ai miei fiori”. Sono ormai passati 64 anni da quella terribile tragedia. Si ricordano tanti eventi ma non quel maledetto treno 8017. Forse perché si trattò di gente affamata, di poveri straccioni in cerca di un tozzo di pane. Una triste storia di miseria e di disperazione che non conviene raccontare.

FERNANDO RICCARDI

 

 

 

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