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Una serata in onore di Georg Wilhelm Pabst di Alfredo Saccoccio

Posted by on Giu 26, 2019

Una serata in onore di Georg Wilhelm Pabst di Alfredo Saccoccio

Alcuni anni fa, a Parigi, ci capitò di assistere ad un “Festival Pabst”, in cui si potevano vedere alcuni brani di vecchie pellicole del regista tedesco, oltre al film “L’opera dei quattro soldi”, sempre di George Wilhelm Pabst. Ad ogni brano comparso sullo schermo, succedeva qualche momento di interruzione, durante il quale la gente applaudiva discretamente e “si scambiava le idee”.
I brani scelti erano senz’altro molto belli: si incominciava con alcune scene di “La strada senza gioia” (1923), film sulla prostituzione, poi altre ne venivano da “Lulù-Il vaso di Pandora” (1928), da “Crisi”, da “Il diario di una donna perduta” (1929). Si finiva con “I quattro fanti ”. Di quest’ultima pellicola, ricordiamo, come l’avessima vista ieri, la scena dell’improvvisa pazzia di un soldato, che, trascinato via attraverso le corsie di un ospedale di guerra, si dibatte ed urla come un vitello sgozzato : cento metri di film di una violenza e di una verità da lasciare senza respiro. In definitiva, quella sorta di antologia ci fece pensare di Pabst le cose migliori: evidenti erano le sue intenzioni di servirsi del cinema come strumento di propaganda sociale: precise e documentate erano le sue descrizioni di costumi. Quei primi films di Pabst appartenevano al periodo che potrebbe chiamarsi la pubertà del cinema tedesco. Di essa avevano il senso morboso ed esaltato, l’indolenza fantastica e ribelle ed insieme quel misterioso aspetto di precoce vecchiaia, che si riscontra nelle prime manifestazioni di un’arte giovane.
Ci aspettavamo di vedere ne “L’opera dei quattro soldi” qualcosa che ci lasciasse altrettanto soddisfattui. Invece , a spettacolo finito, nonostante gli applausi di qualche giovane intellettuale, ce ne andammo un po’ delusi, con molti dubbi, seppure con qualche ammirazione. Il film c’era parso stranamente frammentario e ineguale. Vi erano momenti di grande intensità ed altri fiacchi ed inespressivi. Nell’insieme, l’opera era slegata, monotona e grave. Queste stesse impressioni si sono ripetute ogni volta che ci siamo trovati dinanzi ad una nuova opera di Pabst. Che cosa rimane delle sue ultime opere, se non qualche episodio bellissimo e staccato ? Se si fa eccezione per la “Tragedia della miniera”, che è il capolavoro del cineasta teutonico e che, nel suo complesso, può dirsi l’unico film interamente riuscito e coerente. Di tutti gli altri, appena un personaggio ricordiamo, o un ambiente, una situazione, qualche gesto.
Di “Mademoiselle Docteur” siamo certi che tra breve non rammenteremo più nulla. Tra i tanti lavori di Pabst, è senza dubbio il più debole. Forse il cinema americano ci ha un po’ intossicati, a a veder questa opera, dopo tante altre simili, più svelte e sorprendenti, che ci vengono da oltre Oceano, si è provato una strana impressione, come davanti a qualcosa di invecchiato e stremato. La stessa abilità tecnica del regista le sue qualità di fotografo, quel suo realismo un po’ pesante ed ossessivo, ci riportavano dieci anni addietro, in un’epoca che certamente è stata tra le miglori del cinema, ma che oggi, senz’altro, è finita. E non è a dire che, di tanto in tanto, una certa nostalgia non ci prenda a rivedere, ancora una volta, quei vicoli stretti e bui, quei caffè fumosi, quei lampioni annebbiati, quei personaggi massicci e troppo espressivi, che resero celebre nel mondo il cinema tedesco. Si tratta, però, di brevi momenti. Subito dopo il fastidio e la stanchezza sopraggiungono.
Forse soltanto ragioni commerciali costrinsero Pabst ad effettuare un film come “Mademoiselle Docteur”. Tutti i personaggi, le avventure e gli ambienti, che hanno fatto impallidire d’emozione e d’attesa le platee, sembravano riuniti. Saremmo piuttosto impacciati se dovessimo narrare la vicenda della pellicola. Probabilmente ci accadrebbe di confondere la storia di Mademoiselle Docteur, celebre spia tedesca, con quella magari di Mata Hari, o di altre misteriose avventuriere,B. 29, o X 47, di cui il cinema ci ha raccontato gli eroismi, gli inganni e la fucilazione finale. Soltanto rammentiamo che, questa volta, la protagonista scampa alla morte, ma non perciò il suo destino è di diventare sposa e madre, come qualsiasi altra donna. La sventurata finisce pazza e smemorata in un ospedale svizzero. La sorte delle spie è sempre spaventosa.
Per il resto, tutto va secondo le aspettative : tra spie e controspie, levantini e diplomatici, telefoni controllati, alberghi equivoci, bombardamenti aerei, fughe in automobile, documenti rubati, difficile era non tanto interessarsi quanto rinvenirsi. Per conto nostro, fino all’ultimo, siamo rimasti incerti se un personaggio fosse una spia tedesca, o francese, o bulgara. E non eravamo soli in questo imbarazzo.
Pierre Blanchar ha recitato la parte della spia con le stesse intonazioni di voce, sguardi allucinati e sorrisi sterili del Raskolnikof di “Delitto e castigo”, del Mattia de “Il fu Mattia Pascal” e del magistrato francese de “Il colpevole”. Gli altri attori appaiono tutti lievemente stonati ed eccessivi : invano il cineasta ha cercato di addensare su di loro atmosfere cupe ed ossessionanti. E’ il destino singolare di tanti attori francesi. La ragione sta nel fatto che i più provengono dal teatro, anzi da quel teatro borghese, che, per tradizione si attiene a certi schemi scolastici, a certe inflessioni, cantilene, pause, riprese, che sono quasi diventate ormai una convenzione. E’ una recitazione senza spontaneità e senza iniziativa, a cui sono necessari una piccola platea e spettatori attenti e abituati. Portata sullo schermo, questa recitazione perde ogni efficacia e, per essere troppo espressiva, così piena di allusioni e di segreti, distrae lo spettatore e lo fuorvia dal naturale svolgersi della vicenda.

Alfredo Saccoccio

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