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Usura ed usurai

Posted by on Giu 1, 2017

Usura ed usurai

Il più delle volte, i vocaboli della nostra lingua vengono utilizzati meccanicamente, cioè senza conoscerne l’effettivo significato lessicale. Qualora effettuassimo un sondaggio in materia, probabilmente verificheremmo che un’elevata percentuale di persone intervistate fornirebbe risposte sbagliate o, nel migliore dei modi, incomplete e niente affatto esaustive.

Per capire l’esatto contenuto semantico delle parole usate nella lingua italiana, ci soccorre efficacemente la relativa etimologia.

Ricordo con piacere che, ai tempi in cui frequentavo il liceo classico, il docente di lettere faceva esercitare noi studenti con le analisi dei processi evolutivi cui, nel corso dei secoli, erano stati soggetti numerosi vocaboli latini e greci, fino a ritrovarne le radici etimologiche nelle parole della nostra lingua.

In particolare, mentre la terminologia medica è disseminata di definizioni derivanti dal greco antico, la terminologia giuridica è ricchissima di espressioni, di modi di dire, di proverbi e di brocardi latini, la cui conoscenza, per la peculiare capacità della lingua parlata nell’antica Roma di «sintetizzare il pensiero», si rivela sovente indispensabile per studenti e giuristi. Il diritto romano, infatti, è e rimarrà un monumento alla capacità della mente di inquadrare i comportamenti sociali dell’uomo in schemi razionali. I nostri antenati avevano infatti colto l’essenza del sistema giuridico da loro creato, definendolo scripta ratio, vale a dire «ragione scritta», laddove la logica umana deve costituire il fondamentale strumento per la realizzazione della Giustizia.

Alcuni anni or sono, il compianto Cesare Marchi (1922-1992) ebbe il merito di scrivere e titolare un suo libro: «Siamo tutti latinisti», laddove evidenziava che, quotidianamente, noi italiani utilizziamo circa 500 parole «prese in prestito dal latino», ma… senza saperlo.

Omar Valentini poi, in una sua recente lettera al Direttore di Bresciaoggi.it, mette il dito nella c.d. piaga della graduale e costante riduzione dell’insegnamento del latino nelle scuole, in parte dovuta alla diffusa tendenza a ritenere che questa lingua abbia fatto il suo tempo ed a considerarla quindi un retaggio del passato. Invece, egli evidenzia che le persone colte, potenti o comunque privilegiate, un tempo se ne servivano per mantenere una sorta di supremazia sugli altri comuni mortali. Chi non l’ha mai studiato – osserva giustamente Valentini – è incline a pensare che si tratti di una lingua da azzeccagarbugli. Invece, il latino è una lingua più flessibile e versatile dell’italiano, che pure da esso è derivato: paradossalmente è una lingua più evoluta, nonostante sia più antica, in quanto dispone di molti più gradi di libertà espressive. Ed il maggior grado di libertà di una lingua è anche, in una certa misura, un maggior grado di libertà del pensiero. Omar Valentini definisce quindi il latino un «antidoto al coma mentale».

Ma veniamo al nostro tema: usura ed usurai.

«Usúra» è un termine latino – recepito senza modificazioni dalla lingua italiana – che deriva da úsum (supino del verbo úti = usare, adoperare, giovarsi, godere). Nella sua attuale accezione, essa individua quell’interesse eccessivo, oltre il limite usuale o stabilito dalla legge, che si richiede per un prestito di denaro. Viene, conseguentemente, chiamato «usuraio» (od anche, con un’espressione senz’altro più colorita, «strozzino») colui che, al giorno d’oggi, esercita l’usura così intesa.

Nei secoli passati, invece, l’«usura» definiva, sic et simpliciter, l’uso del capitale dato in prestito e quindi ogni specie di interesse che producesse il denaro, cioè il profitto che si ricavava da un credito. Conseguentemente, era tout court ritenuto «usuraio» colui che chiedeva un qualsivoglia corrispettivo per quanto prestato.

In perfetta coerenza con queste ultime accezioni di usura e di usuraio, San Tommaso d’Aquino (1225-1274), filosofo e teologo che ebbe il più grande impatto sul pensiero etico-economico della Chiesa nel Medioevo e che esercitò un enorme influsso sui pensatori religiosi e laici che lo seguirono, affermava: «…se quindi uno volesse vendere il vino separatamente dall’uso del vino, venderebbe due volte la stessa cosa, oppure venderebbe un’unità inesistente. È chiaro, quindi, che commetterebbe un peccato di ingiustizia. E, per lo stesso motivo, commette un’ingiustizia chi presta il vino o il grano chiedendo due compensi, cioè la restituzione di una cosa equivalente e in più il prezzo dell’uso, denominato usúra».

Le affermazioni di San Tommaso sono estremamente illuminanti per comprendere come la richiesta, rivolta al legittimo proprietario di un bene, del pagamento di una qualsivoglia somma di denaro, per il possesso, l’utilizzo, il godimento (in sostanza, per l’úsum) del bene medesimo, sia inequivocabilmente una pretesa usuraria. Pertanto, oltre alla illiceità del fenomeno dell’usura monetaria, l’ingiustizia può caratterizzare anche altri strumenti, quali ad esempio quelli fiscali, che in questo particolare momento storico sembra vengano accettati passivamente e con rassegnazione da parte della gente.

Prendiamo infatti alcuni odiosi tributi attualmente imposti dal Fisco italiano, quali la tassa sulle donazioni, la tassa di successione mortis causa, la tassa di possesso per gli autoveicoli, l’IMU. Tali balzelli, non solo sono di per se stessi un’assurdità: «perché devo pagare per avere o per utilizzare ciò che è già mio?», ma al tempo stesso costituiscono, alla luce delle parole di San Tommaso d’Aquino, forme oltremodo gravi, subdole ed inique di usura, in quanto applicate da un usuraio potente e prepotente: lo Stato!

In specie, l’imposizione dell’IMU altro non è che una vera e propria «estorsione usuraria».

Il diritto romano (di cui il nostro diritto dovrebbe essere il legittimo erede) ci ricorda che la Giustizia consiste nel «suum cuique tribuere», cioè nel «dare a ciascuno il suo»; ne discende che, se lo Stato impone una tassa sulla casa dei suoi cittadini, ritiene che tale bene non sia un intangibile diritto della persona umana, bensì una sua proprietà, dunque demanio pubblico e non proprietà privata. Con ciò dimenticando, o peggio facendo finta di dimenticare, che, da Aristotele in poi, è stato acclarato che la casa è il fondamento della famiglia, l’oikos, e che la famiglia è il fondamento della polis, non viceversa.

Ed, a questo punto, anche noi non possiamo fare a meno di porci la stessa domanda che, milleseicento anni fa, si pose Sant’Agostino (354-430 d.C.): «remota Iustitia, quid sunt Regna, nisi magna latrocinia?», «se togliamo il fondamento della Giustizia, che cosa sono gli Stati, se non delle grandi associazioni a delinquere?».

Ma c’è di più. Per acquistare una casa, è necessario risparmiare, fare sacrifici, accettare privazioni e rinunce. Pertanto, è totalmente contrario ai canoni della Giustizia e dell’Equità pretendere dai cittadini un tributo usurario, quale è senza dubbio la odiosissima IMU!

Per quanto concerne poi specificamente il denaro, occorre considerare che la moneta, a differenza delle cose reali, le quali possiedono un «valore intrinseco», ha un «valore convenzionale»: la moneta è un «segno» ed è stata inventata dall’uomo per «misurare il valore» delle merci ed agevolare gli scambi. Essa, quindi, come strumento di scambio puro e semplice, non può «partorire» (in virtù del principio aristotelico della «sterilità del denaro») di per se stessa altro denaro e, pertanto, ogni forma di usura monetaria è da condannare recisamente come innaturale ed ingiusta. Pertanto, ogni compenso per il prestito, assumendo i connotati di un «atto contro natura», consistente nel mero «profitto per il profitto», dovrebbe essere assolutamente vietato anche al giorno d’oggi.

Nel diritto romano, il prestito, detto mútuum, era per definizione un contratto gratuito; ragione per cui, quando esso cessava di essere tale, perdendo la caratteristica della gratuità, diveniva ipso facto un contratto usurario. Secondo il pensiero romano, attraverso l’usura (così intesa), ci si appropria indebitamente di ciò che appartiene ad altri.

Un discorso a parte e più attento merita l’usura bancaria praticata dalla BCE, dalle Banche Centrali e da tutti gli Istituti di Credito privati, ai danni dei cittadini e degli Stati aderenti all’Eurozona, consistente nel prestare ad interesse la carta-moneta euro. Questa tipologia di usura è, inoltre, la madre della più grande truffa di tutti i tempi: il Debito Pubblico.

In altri precedenti articoli, ho già spiegato come funziona il perverso meccanismo del «signoraggio bancario», attraverso il quale è stata artatamente creata la fetida piaga economico-sociale della truffa del debito pubblico, ed ho sottolineato come, per pagare i soli interessi generati «contro natura» da questo assurdo debito, lo Stato italiano debba far affluire annualmente, nelle casse delle citate Banche (tutte di private!), ben 85/90 miliardi di euro (si prevede che gli interessi de quibus, a breve, raggiungeranno e/o supereranno i 100 miliardi di euro annui). Per far fronte a tale balordo e surrettizio onere, lo Stato agisce principalmente attraverso pesanti prelievi fiscali, non disgiunti dai dannosissimi cc.dd. «tagli alla spesa pubblica», oltre che con la svendita di preziosi beni nazionali; quest’ultima attività, eufemisticamente, va sotto il nome di… «privatizzazioni».

A seguito di un recente studio, Alessandro Raffa, portavoce di Nocensura.com, ci informa che, in 30 anni (più precisamente dal 1980 al 2012), lo Stato italiano «ha pagato la bellezza di 3.100 miliardi di euro (pari a 6.002.437.000.000.000 – sei milioni di miliardi – di vecchie lire… in valuta riferita al potere di acquisto nel 2012) di interessi sul Debito Pubblico» che, non solo non è affatto diminuito, ma che, alla data odierna, ammonta a ben 2.074 miliardi di euro.

Oltre a concretare un debito fittizio ed inestinguibile, si tratta di una somma enorme, superiore a ben 2 anni di PIL nazionale, che sta portando il nostro Paese al tracollo, grazie soprattutto alla determinante connivenza dell’intera classe politica italiana. Si tratta di soldi che noi contribuenti siamo ingiustamente costretti a pagare, perché lo Stato, invece di emettere denaro, da oltre mezzo secolo se lo fa «prestare ad usura» dalle banche private.

Nel confronto con queste enormi cifre, «gli sprechi e le ruberie della casta» rappresentano solamente pochi spiccioli!!!

Alla luce di quanto precede, credo di aver abbastanza esplicitato il significato etimologico (e non solo quello…) della parola «usura» e di aver identificato le tipologie degli «usurai», nelle cui grinfie i cittadini italiani sono attualmente intrappolati e dalla cui morsa molto difficilmente riusciranno a svincolarsi. La loro liberazione potrà avvenire solamente se e quando lo Stato italiano si riapproprierà di quella Sovranità Monetaria che gli è stata illecitamente sottratta e che è stata arbitrariamente ceduta ad un soggetto privato, sovranazionale, extraterritoriale, nonché esente da qualsivoglia controllo governativo e democratico (la BCE), ad opera di una classe politica, a dir poco, irresponsabile.

Solo ritornando ad esercitare in pieno questa irrinunciabile prerogativa costituzionale, lo Stato italiano si sottrarrebbe al ricatto delle lobby finanziarie e non avrebbe più bisogno di vessare i propri cittadini alla stessa stregua di un avido usuraio!

 

Ubaldo Sterlicchio

Telese Terme, settembre 2013

gia pubblicato sul sito reteduesicilie.it

 

usura-ed-usurai con note

 

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