Alta Terra di Lavoro

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Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (ultima parte)

Posted by on Ott 27, 2017

Vita di Giovambattista Vico scritta da se medesimo (ultima parte)

 Tutto ciò fu nella Scienza nuova seconda emendato. Ma il brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere, quasi sotto il torchio, quest’opera, con un estro quasi fatale, il quale lo strascinò a sì prestamente meditarla ed a scrivere, che l’incominciò la mattina del santo Natale e finì ad ore ventuna della domenica di Pasqua di Resurrezione;  e pure, dopo essersi stampato più della mettà di quest’opera, un ultimo emergente, anco natogli da Venezia, lo costrinse di cangiare quarantatre fogli dello stampato, che contenevano una Novella letteraria (dove intiere e fil filo si rapportavano tutte le lettere e del padre Lodoli e sue d’intorno a cotal affare con le riflessioni che vi convenivano), e, ‘n suo luogo, proporre la dipintura al frontispizio di quei libri, e della di lei Spiegazione scrivere altrettanti fogli ch’empiessero il vuoto di quel picciol volume; – di più, un lungo grave malore, contratto dall’epidemia del catarro, ch’allora scorse tutta l’Italia; – e finalmente la solitudine nella quale il Vico vive: – tutte queste cagioni non gli permisero d’usare la diligenza, la qual dee perdersi nel lavorare d’intorno ad argomenti c’hanno della grandezza, perocch’ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Per tutto ciò non poté avvertire ad alcune espressioni che dovevano o, turbate, ordinarsi o, abbozzate, polirsi o, corte, più dilungarsi; né ad una gran folla di numeri poetici, che si deon schifar nella prosa, né finalmente ad alquanti trasporti di memoria, i quali però non sono stati ch’errori di vocaboli, che di nulla han nuociuto all’intendimento. Quindi nel fine di quei libri, con le Annotazioni prime, insieme con le correzioni degli errori anco della stampa (che, per le suddette cagioni, dovettero accadervi moltissimi), die’ con le lettere M ed A i miglioramenti e l’aggiunte; e sieguitò a farlo con le Annotazioni seconde, le quali, pochi giorni dopo esser uscita alla luce quell’opera, vi scrisse con l’occasione che ‘l signor don Francesco Spinelli principale di Scalea, sublime filosofo e di colta erudizione particolarmente greca adornato, lo aveva fatto accorto di tre errori, i quali aveva osservato nello scorrere in tre dì tutta l’opera. Del qual benigno avviso il Vico gli professò generosamente le grazie nella seguente lettera stampata, ivi aggiunta, con cui tacitamente invitò altri dotti uomini a far il medesimo, perché arebbe con grado ricevuto le lor ammende:

«Io debbo infinite grazie a Vostra Eccellenza, perocché, appena dopo tre giorni che le feci per un mio figliuolo presentar umilmente un esemplare della Scienza nuova ultimamente stampata, Ella, tolto il tempo che preziosamente spende o in sublimi meditazioni filosofiche o in lezioni di gravissimi scrittori particolarmente greci, l’aveva già tutta letta: che per maravigliosa acutezza del vostro ingegno e per l’alta comprensione del vostro intendimento, tanto egli è stato averla quasi ad un fiato scorsa quanto averla fin al midollo penetrata e ‘n tutta la sua estensione compresa. E, passando sotto un modesto silenzio i vantaggiosi giudizi ch’Ella ne diede per un’altezza d’animo propia del vostro alto stato, io mi professo sommamente dalla vostra bontà favorito, perocché Ella si degnò anco di mostrarmene i seguenti luoghi, ne’ quali aveva osservato alcuni errori che Vostra Eccellenza mi consolava essere stati trascorsi di memoria, i quali di nulla nuocevano al proposito delle materie che si trattano, ove son essi avvenuti.

Il primo è a p. 313, v. 19, ove io fo Briseide propia d’Agamennone e Criseide d’Achille, e che quegli avesse comandato restituirsi la Criseide a Crise di lei padre, sacerdote di Apollo, che perciò faceva scempio del greco esercito con la peste, e che questi non avesse voluto ubidire; il qual fatto da Omero si narra tutto contrario. Ma cotal error da noi preso era in fatti, senz’avvedercene, un’emenda d’Omero nella parte importantissima del costume: che anzi Achille non avesse voluto ubidire, e che Agamennone per la salvezza dell’esercito l’avesse comandato. Ma Omero in ciò veramente serbò il decoro, che, quale l’aveva fatto saggio, tale finse il suo capitano anco forte, che, avendo renduto Criseide come per forza fattagli da Achille, e stimando esserglici andato del punto suo, per rimettersi in onore tolse ingiustamente ad Achille la sua Briseide, col qual fatto andò a rovinare un’altra gran parte de’ greci: talché egli nell’Iliade vien a cantare uno stoltissimo capitano, laonde cotal nostro errore ci nuoceva veramente in ciò: che non ci aveva fatto vedere quest’altra gran pruova della sapienza del finora creduto, che ci confermava la discoverta del vero Omero. Né pertanto Achille, che Omero con l’aggiunto perpetuo d'”irreprensibile” canta a’ popoli della Grecia in essemplo dell’eroica virtù, egli entra nell’idea dell’eroe quale ‘l diffiniscono i dotti, perché quantunque fusse giusto il dolor d’Achille, però – dipartendosi con le sue genti dal campo e con le sue navi dalla comun’armata, fa quell’empio voto: ch’Ettore disfacesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati, e gode esaudirsi (siccome, nel ragionando insieme di queste cose, Vostra Eccellenza mi soggiunge quel luogo dove Achille con Patroclo desidera che morissero tutti i greci e troiani ed essi soli sopravivessero a quella guerra) – era la vendetta scelleratissima.

«Il secondo errore è a pag. 314, v. 38, e pag. 315, v. 1, ove mi avvertisce che ‘l Manlio, il qual serbò la ròcca del Campidoglio da’ Galli, fu il Capitolino, dopo cui venne l’altro che si cognominò Torquato, il qual fece decapitar il figliuolo; e che non questi ma quegli, per aver voluto introdurre conto nuovo a pro della povera plebe, venuto in sospetto de’ nobili che col favor popolare volesse farsi tiranno di Roma, condennato, funne fatto precipitare dal monte Tarpeo. Il qual trasporto di memoria sì che ci nuoceva in ciò: che ci aveva tolto questa vigorosa pruova dell’uniformità dello stato aristocratico di Roma antica e di Sparta, ove il valoroso e magnanimo re Agide, qual Manlio Capitolino di Lacedemone, per una stessa legge di conto nuovo, non già per alcuna legge agraria, e per un’altra testamentaria, fu fatto impiccare dagli efori.

«Il terzo errore è nel fine del libro quinto, p. 445, v. 37, ove deve dir “numantini” (ché tali sono quivi da esso ragionamento circoscritti).

Per gli quali vostri benigni avvisi mi son dato a rileggere l’opera, e vi ho scritto le correzioni, miglioramenti ed aggiunte seconde.»

Le quali annotazioni prime e seconde, con altre poche ma importantissime, ch’è ito scrivendo interrottamente come di tempo in tempo ragionava l’opera con amici, potranno incorporarlesi ne’ luoghi ove sono chiamate, quando si ristampi la terza volta.

Mentre il Vico scriveva e stampava la Scienza nuova seconda, fu promosso al sommo pontificato il signor cardinal Corsini, al qual era stata la prima, essendo cardinale, dedicata, e sì dovette a Sua Santità anco questa dedicarsi. Il quale, essendogli stata presentata, volle, come gli venne scritto, che ‘l signor cardinale Neri Corsini suo nipote, quando ringraziava l’autore dell’esemplare che questi, senza accompagnarlo con lettera, gli aveva mandato, gli rispondesse in suo nome con la seguente:

 

«Molto illustre signore

«L’opera di Vostra Signoria de’ Princìpi di una Nuova Scienza aveva già esatto tutta la lode nella prima sua edizione da Nostro Signore, essendo allora cardinale; ed ora tornata alle stampe, accresciuta di maggiori lumi ed erudizione dal di lei chiaro ingegno, ha incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il gradimento. Ho voluto dar a lei la consolazione di questa notizia nell’atto istesso che mi muovo a ringraziarla del libro fattomene presentare, del quale ho tutta la considerazione che merita, ed esibendole in ogni congiontura di suo servizio tutta la mia parzialità, prego Dio che la prosperi.

«Roma, 6 gennaio 1731.

Di Vostra Signoria affez. sempre

  1. CARD. CORSINI»

 

Colmato il Vico di tanto onore, non ebbe cosa al mondo più da sperare; onde per l’avvanzata età, logora da tante fatighe, afflitta da tante domestiche cure e tormentata da spasimosi dolori nelle cosce e nelle gambe e da uno stravagante male che gli ha divorato quasi tutto ciò ch’è al di dentro tra l’osso inferiore della testa e ‘l palato, rinnonziò affatto agli studi. Ed al padre Domenico Lodovici, incomparabile latin poeta elegiaco e di candidissimi costumi, donò il manoscritto delle annotazioni scritte alla Scienza nuova prima con la seguente iscrizione:

 

Al Tibullo cristiano

padre Domenico Lodovici

questi

dell’infelice Scienza Nuova

miseri

e per terra e per mare sbattuti

avvanzi

dalla continova tempestosa fortuna

aggitato ed afflitto

come ad ultimo sicuro porto

Giambattista Vico

lacero e stanco

finalmente ritragge.

 

Egli nel professare la sua facultà fu interessatissimo del profitto de’ giovani, e, per disingannargli o non fargli cadere negl’inganni de’ falsi dottori, nulla curò di contrarre l’inimicizie de’ dotti di professione. Non ragionò mai delle cose dell’eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l’eloquenza altro non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva indirizzare gl’ingegni e fargli universali, e che l’altre attendevano alle parti, questa doveva insegnare l’intiero sapere, per cui le parti ben si corrispondan tra loro e ben s’intendan nel tutto. Onde d’ogni particolar materia dintorno al ben parlare discorreva talmente ch’ella fusse animata, come da uno spirito, da tutte quelle scienze ch’avevan con quella rapporto: ch’era ciò ch’aveva scritto nel libro De ratione studiorum, ch’un Platone, per cagion di chiarissimo essemplo, appo gli antichi era una nostra intiera università di studi tutta in un sistema accordata. Talché ogni giorno ragionava con tal splendore e profondità di varia erudizione e dottrina, come se si fussero portati nella sua scuola chiari letterati stranieri ad udirlo. Egli peccò nella collera, della quale guardossi a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser difettuoso: che con maniere troppo risentite inveiva contro o gli errori d’ingegno o di dottrina o ‘l mal costume de’ letterati suoi emoli, che doveva con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulare o compatirgli. Però quanto fu acre contro coloro i quali proccuravano di scemargliele, tanto fu ossequioso inverso quelli che di esso e delle sue opere facevano giusta stima, i quali sempre furono i migliori e gli più dotti della città. De’ mezzi o falsi, e gli uni e gli altri perché cattivi dotti, la parte più perduta il chiamava pazzo, o con vocaboli alquanto più civili, il dicevano essere stravagante e di idee singolari od oscuro. La parte più maliziosa l’oppresse con queste lodi: altri dicevano che ‘l Vico era buono ad insegnar a’ giovani dopo aver fatto tutto il corso de’ loro studi cioè quando erano stati da essi già resi appagati del loro sapere, come se fusse falso quel voto di Quintiliano, il qual desiderava ch’i figliuoli de’ grandi, come Alessandro Magno, da bambini fussero messi in grembo agli Aristotili; altri s’avvanzavano ad una lode quanto più grande tanto più rovinosa: ch’egli valeva a dar buoni indirizzi ad essi maestri. Ma egli tutte queste avversità benediceva come occasioni per le quali esso, come a sua alta inespugnabil rocca, si ritirava al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali chiamava «generose vendette de’ suoi detrattori»; le quali finalmente il condussero a ritruovare la Scienza nuova. Dopo la quale, godendo vita, libertà ed onore, si teneva per più fortunato di Socrate, del quale, faccendo menzione il buon Fedro, fece quel magnanimo voto:

 

cuius non fugio mortem, si famam assequar,

et cedo invidiae, dummodo absolvar cinis.

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