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Vita temeraria di Nino Bixio

Posted by on Mag 25, 2020

Vita temeraria di Nino Bixio

Fra i personaggi storici che i nostri maestri avevano l’ingenua pretesa di gabellare per favolosi, uno conservava non so che indistinta attualità.. Era forse a causa del suo nome infantile, che lo faceva omonimo di tanti? O della x che rendeva arduo a compitarsi il suo cognome breve? O semplicemente era il suo berretto di tenente colonnello, più bello con i galloni e la visiera di quello tondo e disadorno del Generale Garibaldi? Nella penombra dei secondi piani , Nino Bixio fermava, per un istante, la nostra sensibilità.

Ritrovandolo oggi, ci si accorge che egli merita di fermarla ancora. Di tutte le figure  del Risorgimento, Nino è forse la più inquieta e la più moderna. Quest’uomo che fu mozzo, guerrigliero, giornalista, cospiratore, generale di divisione, membro del Parlamento, per finire… capitano di lungo corso, sulla tolda di una nave, per morirvi di una morte oscura e silenziosa. Come mercante in Australia, avendo sposato, con il permesso del papa, la figlia di sua sorella, il conto della spedizione è chiuso in passivo, dopo due anni di navigazione con il suo bel “clipper” Una parte  del carico, zucchero di Manila, è in fondo al mare davanti al Capo di Buona Speranza, dove una tempesta per poco non ci mandava  la nave. Gli armatori se la prendono  con quel pazzo  di capitano, che ha voluto fare  il Cristoforo Colombo, invece di accontentarsi di portare rifornimenti alle truppe in Crimea. Bixio risponde a tono, pugno sul tavolo bestemmiando. Egli non si arrende. Ora sa  di essere un vero marinaio e vuole continuare  a far il navigatore. Vita che gli permette di sfogare  in urli, in imprecazioni e in bastonate sulla testa di chi non capisce, la sua indomabile nevrastenia. Egli arma un’altra nave, chiamata “Marco Polo”, ma i denari soni finiti, per cui il navigatore rimane ancora a terra, mentre i creditori vendono all’asta il legname dello scafo. Nino si accorge allora che il mare è stata una parentesi e si decise audacemente per un nuovo, inaspettato mestiere: con i pochi soldi salvati al naufragio bancario del “Marco Polo” fonda un giornale. Lo chiama “Sal Giorgio”. Ma è il tempo di ricordare i Santi protettori delle repubbliche medioevali? Dopo pochi numeri, il giornale diventa “La Nazione”.

   Certo la sua prosa di giornalista non era  di quelle  che più tardo, in tempi comodi, onoreranno di bello stile  il giornalismo italiano.  Nino scriveva di impeto e chiamava il suo giornale  “un brulotto”.  Il suo programma era  la guerra. Tutto il resto  era vaniloquio, che in lui suscitava il ricordo dell’esperienza amara del 1848. Poi il Bixio diventa il braccio destro del vecchio Della Rocca, il più anziano dei generali dell’esercito, un “troupier” del vecchio stampo. Nino è luogotenente generale, commendatore mauriziano .

                                               La fine

   Il “Maddaloni”, grande piroscafo, in ferro, di tremila tonnellate, navigava fra Surabaia e Atcin, con a bordo le truppe olandeso del generale van Swieten. Non era quello uno dei carichi preziosi sognati da Bixio per la sua bella nave, ma si trattava soltanto , dopotutto, di una momentanea opportunità da cogliere  per ragioni finanziarie e per riguardo ai creditori di Genova. Bixio aveva affidato al mare, un’altra volta, il suo destino e lo credeva tessuto tutto di operosa realtà mercantile. Quale, dunque, sarebbe stata la sua vera vita? A bordo del “Mameli”, aveva pensato al 1848 come ad una parentesi breve nella sua vita di marinaio.  Poi, ufficiale  dei Cacciatori delle Alpi e dei regolari, a sua volta era stato il mare a sembrargli  una parentesi nella sua vita di soldato. Ed ora ecco che il racconto della sua vita si riallacciava ancora alle avventure del viaggio d’Australia e ai sogni del “Marco Polo”. Una unità gliela componeva tuttavia il desiderio di servire la patria, sempre con l’occhio fisso alle realtà del momento. Egli pensava che l’Italia, forse, voleva essere una grande Genova, pacifica ed opulenta sul mare,, e che spettava  a un genovese riaprirle la via  dei grandi traffici remoti e a un garibaldino essere ancora  all’avanguardia. Però nelle lente giornate di rotta, certamente dovevano, a tratti, affiorare  sulla sua attività di comandante ore di incuriosite meditazioni su se stesso, a proporgli lenigma del suo avvenire attraverso l’esperienza e i segni del suo passato.

Quando vennero a dirgli che il colera era scoppiato a bordo, ebbe un momento di smarrimento, forse il primo della sua vita. “Avrei dovuto bruciarmi le cervella piuttosto che firmare questo contratto!”. Nino si riprese subito e rimase calmo du cuore e irato di modi, al suo posto di combattimento. I morti del contagio, buttati a mare come si trovavano,, seguivano lenti alla deriva la poppa  fuggente. Pure il viaggio fu compiuto e le truppe sbarcate dove si doveva. Allora Bixio si accorse che il colera aveva preso anche lui.

Fu soltanto dopo molti mesi che i soldati olandesi, partiti per rintracciare la sua salma, dissotterrata  dai selvaggi, riuscirono a trovare, in un quadrato di terra smosso di recente, “un grande corpo nero e sinistro” al quale presentarono le armi.   

Qualcuno considerò la sua morte una sorta di legge del contrappasso, avendo chiamato “colerosi” i popoli meridionali, contro i quali usò una repressione feroce, come a Bronte, nell’agosto del 1860, sui cui fatti gravò la testimonianza delle letteratura garibaldina e il complice silenzio di una storiografia che si avvolgeva nel mito di Garibaldi e dei Mille. Sulla memoria di Bixio gravano non pochi atti di violenza. E’ inutile che i suoi biografi cerchino di dissimularli o di attenuarli. Ne hanno fatto un Ajace della nostra età, ma in alcuni momenti egli perdeva il lume degli occhi e si credeva lecito fare tutto a suo piacimento. “Salus reipubblicae suprema lex!”

Alfredo Saccoccio

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