12 aprile 1815. Murat è sconfitto a Casaglia: così cominciò il valzer che riportò il Borbone a Napoli
NAPOLI – La battaglia di Casaglia, combattuta il 12 aprile 1815, è uno degli scontri della breve guerra che, tra il 1814 e il 1815, infiammò la penisola italiana e che si combatté tra l’esercito napoletano del Re Gioacchino Murat, e le truppe austriache. Napoleone aveva abbandonato, complice una notte senza luna e la distrazione dei sorveglianti britannici, l’isola d’Elba ed era sbarcato a Cannes intenzionato a riprendersi Parigi, la Francia e, forse, a salvare le conquiste territoriali della rivoluzione del 1789. I più grandi diplomatici d’Europa stavano invece discutendo a Vienna come ridisegnare le mappe del continente dopo la rovinosa caduta dell’Impero Francese tra l’incendio di Mosca e la defezione bavarese a Lipsia.
Il momento era particolarmente delicato per il futuro assetto geopolitico dell’Italia e per il destino di Napoli. Gioacchino Murat, figlio di un bettoliere, apparteneva alla nuova aristocrazia rivoluzionaria. Generali e uomini di indiscusso valore militare come Lannes, Ney, Soult, MacDonald, a prescindere dalle proprie origini avevano raggiunto i massimi gradi dell’armata napoleonica ed erano stati elevati a ‘nobili vittoriosi’ (Ney fu duca di Eylau, piccolo borgo tra la Prussia e la Lituania dove fu determinante nella vittoria contro i russi nel 1807). Altri militari vennero elevati a sovrani: uno fu Bernadotte che avrebbe tradito Napoleone dopo essere diventato Re di Svezia (l’attuale casa regnante trae la sua origine dal maresciallo di Francia spedito a Stoccolma nel 1810) e l’altro fu Murat, che di Napoleone divenne cognato dopo aver sposato la preferita tra le sorelle del generale-Imperatore, Carolina.
La rovinosa invasione della Russia aveva provocato il tanto atteso indebolimento delle forze imperiali francesi. Prussiani, Austriaci, Inglesi, Spagnoli, Portoghesi erano di nuovo tutti pronti a marciare su Parigi dove sarebbero arrivati costringendo Bonaparte al forzoso ritiro dell’Elba. Murat era ancora a Napoli sul suo trono, sopravvissuto al cognato già esiliato. Il Borbone era a Palermo, pure lui su un trono recentemente depotenziato dalla Costituzione britannica del 1812. Tutti e due attendevano gli esiti dell’annunciato Congresso che i diplomatici dello Zar Alessandro andavano sbandierando nelle corti alleate da quando il loro Sovrano era partito da San Pietroburgo per respingere l’invasione francese dopo l’incendio di Mosca. Gli austriaci, guidati da Klemenz von Metternich, avevano preso in seria considerazione l’offerta di proseguire l’alleanza arrivata da Napoli. Murat, pur di salvare il Regno, avrebbe schierato i napoletani contro Napoleone.
Ciò che giocò a sfavore dell’accordo fu la diplomazia borbonica. Nel momento in cui il Borbone che era tornato a Parigi dopo 25 anni di esilio riparava verso Bruxelles dopo la fuga dall’Elba di Napoleone, l’Europa dei sovrani aveva l’obbligo di intervenire in suo aiuto. Gli eserciti della coalizione sarebbero scesi in campo per riaffermare il principio della legittimità dei poteri pre rivoluzionari. Come comportarsi allora con i paesi che, seppure formalmente indipendenti, si erano affiancati all’impresa rivoluzionaria prima e napoleonica dopo? Non era un problema semplice da risolvere visto che non fu la sola Napoli a costituire un problema di ordine politico europeo. Molti altri paesi, dalla Sassonia agli ex stati settentrionali dell’Impero Romano Germanico passando per Svizzera, Baviera, Polonia, e anche per le regioni settentrionali della penisola italiana, avrebbero visto decidere i propri destini nel giro di valzer del congresso viennese. Il re di Spagna, d’accordo con Talleyrand, si oppose e mentre a Vienna si discuteva, Murat passò all’azione.
Con 35mila uomini, 5mila cavalieri e 50 cannoni violava il confine nord del Regno e occupava lo Stato Pontificio. Napoleone rientrava a Parigi il 20 marzo. Cinque giorni dopo i governi di Austria, Prussia, Russia e Inghilterra, da Vienna, lanciavano la loro scomunica al ritorno dell’imperatore a Parigi. I 100 giorni furono un qualcosa, anche dal punto di vista istituzionale e costituzionale, di profondamente nuovo per la vita politica francese ma le novità istituzionali e le promesse di pace spedite da Napoleone al mondo intero non sortirono alcun effetto. Non era più solo una questione di paura delle armate francesi ma un problema di legittimità per le potenze già autoconvocatesi in Congresso. Il 2 aprile Murat faceva il suo ingresso a Bologna che era stata abbandonata dagli austriaci che, da mesi, occupavano il nord Italia e le Legazioni Pontificie. Sei giorni dopo una lettera venne consegnata a Metternich. Il re di Napoli, che nella sua avanzata aveva costretto alla fuga il Granduca di Toscana e il governo del Papa, chiedeva all’Austria di confermare l’alleanza di inizio anno. Murat avrebbe ‘presidiato’ l’Italia dal sud del Po. A Vienna, pur ignorando gli abboccamenti di Murat con il cognato Imperatore auto-restaurato (è ancora oggetto di approfondito dibattito storiografico in Francia il rapporto tra i due parenti durante i decivi 100 giorni) la partita era già stata chiusa dal proclama dell’Imperatore Francesco I.
“In conseguenza dei trattati conclusi con le potenze alleate e anche dei nostri rapporti con le stesse il governo austriaco si annetteva tutte le province lombarde e venete fino al Lago Maggiore, al Ticino, al Po con la parte del territorio di Mantova situata sulla riva destra di questi fiumi, e in più la Valtellina, e i contadi di Cleve e di Bormio”.
Queste province ottennero riconoscimento ‘regale’ e confluirono nel Regno Lombardo-Veneto. L’Austria cominciava la guerra contro Napoli annunciando al mondo che era la nuova potenza egemone in Italia dopo che tale ruolo era toccato, in periodi diversi, alla Spagna e alla Francia. Il 10 aprile Metternich rispediva i diplomatici al ‘re di Napoli’ con la dichiarazione ufficiale della guerra (già cominciata) tra l’Impero Austriaco e il regno di Napoli. Dopo l’occupazione delle Legazioni e la dichiarazione di guerra Murat tentò di varcare il Po ad Occhiobello ma, respinto dagli austriaci, si era limitato a mettere sotto assedio Ferrara che, nel 1815, rappresentava uno dei punti cardine della difesa asburgica in Italia. Preziosa (tanto quanto saranno poi, nelle guerre risorgimentali, le fortezze del quadrilatero) sia per la difesa da Sud che da Ovest qualora Napoleone avesse invaso nuovamente l’Italia. La rete d’assedio napoletana riuscì a resistere ad una prima azione militare organizzata dal Generale lorenese Johann Frimont, comandante in capo delle forze asburgiche in Italia. Il 12 aprile, però, 4500 austriaci si ripresentarono contro le forze assedianti e, dopo averle incalzate, le sconfissero a Casaglia. I napoletani, in ordine, rientrarono a Bologna. Tolentino sarebbe stata solo una tappa intermedia sulla via di Murat verso Pizzo Calabro e la sua fucilazione.
In un libro molto impegnativo e interessante pubblicato nel 1940, ‘Reconstruction’, Guglielmo Ferrero traccia la storia di quei giorni convulsi (il libro è stato poi tradotto e ristampato dalla casa editrice Corbaccio e, su sua licenza, dalla Mondadori pubblicato con il più ‘accessibile’ titolo ‘Il congresso di Vienna’). Ferrero presenta la questione del Congresso viennese incrociandola all’incertezza generale causata dal ritorno a Parigi di Napoleone. Murat avrebbe voluto difendere l’alleanza stipulata dopo la campagna di Russia tra Napoli e le potenze della coalizione. Il ministro degli Esteri napoletano Marzio Mastrilli duca di Gallo era universalmente noto come uno dei maggiori diplomatici europei insieme a Metternich e Talleyrand. Fu Mastrilli il diplomatico scelto dall’Austria per sedere al tavolo con Napoleone per i preliminari della pace di Loeben del 1797 (cui sarebbe seguita la pace di Campoformio). Mastrilli aveva già servito Ferdinando IV e lo avrebbe servito ancora a Vienna e dopo il Congresso. Ferrero racconta la restaurazione borbonica che fu mutua reciproca assistenza familiare (da parte della Spagna verso i più ‘sfortunati’ parenti francesi e napoletani) e quella italiana ed europea facendone un quadro realistico, delineando il congresso viennese come la migliore soluzione possibile per l’Europa del tempo.
Povera Italia. Ripartiva da Vienna quasi nuda e senz’anima. L’antico Regime pareva risorto. Il Papa andava a Roma, il re a Torino e a Napoli, il duca a Modena, il Granduca a Firenze. Ma Venezia, capolavoro della civiltà qualitativa dell’Antico Regime, era caduta con Genova, la sorella nemica: ma dei damaschi, dei broccati, dei velluti, degli arazzi, delle scolture, dei quadri, degli avori, dei diamanti, delle perle, dei rubini, dei metalli preziosi, del sontuoso retaggio dell’Antico Regime, non restavano più, all’Italia, che rari frammenti: i marmi e le pietre troppo pesanti per essere portati via. I conventi, le chiese e i palazzi della nobiltà erano stati saccheggiati, l’oro e l’argento che incrostavano ancora le imponenti vestigia della teocrazia medioevale erano stati fusi e trasformati in scudi e luigi, o dispersi per tutta l’Europa: rovinate le industrie di lusso che avevano perduta la loro clientela italiana – la Chiesa, la nobiltà, la Corte – e la clientela estera. L’Italia era diventata un paese produttore di materie prime: seta, canapa, pelli, metalli… Il soffio che l’animava ne era spento con gli splendori del secolo XVIII. Nell’insieme l’Italia era ancora nel 1813 una nazione cattolica e credente, ma non più allo stesso modo dell’Antico Regime. Durante il quarto di secolo che va dal 1789 al 1814 il papato non è più quello che pur indebolito, era stato fino alla fine del secolo decimottavo: un potere insieme temporale e spirituale. La rivoluzione, dissociando i due poteri, li ha definitivamente indeboliti. Nell’ordine temporale il Papa nel 1815 non è che il sovrano impoverito di un meschino piccolo Stato; nell’ordine spirituale non è che un grande teologico ma discusso e discutibile dagli increduli anche in Italia, il suo feudo d’altri tempi […] Dopo il 1815 l’Italia sarà sempre più disperata per le umiliazioni e le violenze subite nel periodo rivoluzionario, disperata per la miseria, l’impotenza, la soggezione in cui era caduta essa, già sede un tempo dell’Impero e del Papato! Se nel 1815 l’Italia rispettava ancora i poteri politici dell’Antico Regime, non vi credeva più come prima della Rivoluzione. Erano tornati sì, ma a prezzo di quali lotte, di quali mercanteggiamenti, di quali compromessi! E cominciava anche a trovare ben deboli mediocri meschini quegli staterelli di Modena, Parma, Firenze! L’Italia, calpestata, smembrata e ricomposta a capriccio dai poteri rivoluzionari aveva cominciato a sentirsi capace di fondare sull’esempio e in opposizione agli altri grandi stati d’Europa, uno stato potente. Nasceva quel sentimento nazionale che non tarderà a svilupparsi e finirà per persuadere una parte dell’Italia – ma una parte solamente – che i piccoli stati dell’Antico Regime e il paradiso di lave spente caldeggiato dall’imperatore d’Austria erano causa di tutti i suoi mali, della sua povertà, della sua impotenza, della sua oscurità… L’Italia sarà sempre più divisa da un dualismo inconciliabile: dove s’annidava il nemico, il pericolo, la sorgente del male? nell’Antico Regime o nella Rivoluzione? Le dinastie dell’Antico Regime sopravviventi in Italia rappresentavano delle legittimità, ma legittimità moribonde. Per questa ragione la soluzione che il Congresso aveva applicato al problema italiano era mediocre e precaria, senza che si possa d’altra parte incolparne il Congresso, perchè era la sola possibile e non si può giudicarla se non tenendo conto di quello che il Congresso doveva e poteva fare. Per tutto il secolo decimonono si è rinfacciato al Congresso di Vienna di non aver voluto creare nell’Italia del Nord uno stato italiano forte sia ingrandendo la Casa Savoia sia chiamando una nuova dinastia. Ma questo progetto era impossibile. L’Austria si era assicurata la Lombardia e il Veneto già il 30 maggio; così la sorte del Nord era già decisa prima che il Congresso si riunisse. La manomissione della Lombardia e del Veneto compiuta dall’Austria nel 1814 è la conseguenza di Campoformio, l’espiazione per la mancata resistenza dell’Italia all’invasione del 1796: il Congresso non è responsabile. La Casa Savoia del resto se le avessero annesso l’Italia del Nord si sarebbe trovata a Milano e a Venezia come Murat a Napoli: un potere imposto dal di fuori, una dittatura rivoluzionaria sostenuta dalla forza. Prima o dopo sarebbe stata fatalmente trascinata in avventure incompatibili con il ‘riposo dell’Europa’ come si diceva a Vienna del sistema europeo che si doveva costruire. Gli storici italiani hanno, da un secolo a questa parte, troppo ragionato intorno alla questione come se l’Italia fosse stata sola a Vienna: hanno troppo dimenticato che a Vienna il problema italiano, come tutti gli altri, è stato risolto in funzione del sistema europeo che era urgente ristabilire. La grandezza misconosciuta al Congresso consiste appunto in questo”
(G. FERRERO, Il Congresso di Vienna, Mondadori, 1999, pagg.357-361)
ROBERTO DELLA ROCCA
fonte
http://istitutoduesicilie.blogspot.it/2018/04/12-aprile-1815-murat-e-sconfitto.html