150 anni, ma quanta retorica…
Indubbiamente l’anno dedicato alle celebrazioni del 150° anniversario della nascita dello Stato italiano si chiude all’insegna del Capo dello Stato. Giorgio Napolitano ha fermamente voluto queste celebrazioni, le ha accompagnate da protagonista lungo tutto l’anno, ne ha fornito l’interpretazione attraverso diversi interventi ora raccolti nel volume Una e indivisibile (Rizzoli 2011) e ultimamente si è addirittura lanciato nella lettura storiografica “ufficiale” del Risorgimento, affidata a due “paginate” del Corriere della Sera pubblicate alla vigilia di Natale, nelle quali il Presidente suggerisce le letture “ortodosse” per capire come l’Italia è diventata uno Stato nazionale.
Da Lenin a Rosario Romeo, potremmo dire, ricordando quando il 22 aprile 1970 l’allora dirigente del Pci indicava nel rivoluzionario russo “un luminoso punto di riferimento” soprattutto “per i giovani che si schierano contro il capitalismo”, mentre oggi attribuisce allo storico siciliano e uomo politico liberale scomparso nel 1987 il merito di avere scritto un'”opera chiave”, quella dedicata a Cavour e il suo tempo (3 voll., 1969-1984).
Sorprende come quasi tutti i commentatori non segnalino l’ambiguità e l’artificiosità di questo “allargamento” del Capo dello Stato, che disfa e fa i governi indicandone il leader, che interviene su tutto, compresa adesso anche la storiografia, che è l’unico uomo politico della casta che è sempre autorevole, misurato, puntuale, apprezzato. Intendiamoci, è la massima carica istituzionale e non saremo noi a mancargli di rispetto, non fosse altro che per l’età importante. Ma che vi sia qualcosa di preoccupante mi pare indubbio. Il suo amore per l’Italia non può essere messo in discussione se non facendo un processo alle intenzioni, a patto che le stesse buone intenzioni si concedano a tutti, anche a chi dissente dal “suo” modo di amare la patria. Proprio riflettendo sul suo “patriottismo costituzionale” e sulle riflessioni ispirate dal libro di Romeo su Cavour, ci si rende conto tuttavia di come il nostro Presidente della Repubblica abbia certamente mantenuto dall’antica esperienza comunista una concezione dello Stato dirigista e pedagogica, poco rispettosa dell’autonomia delle altre istituzioni. Uno Stato che crea e disfa le nazioni ieri come i governi oggi, che apprezza la democrazia e il consenso soltanto quando sono dalla propria parte.
A questo proposito, il Presidente Napolitano ha detto che le celebrazioni sono state un grande successo di popolo. Avrà certamente a disposizione elementi di rilevazione che a noi mancano. A noi sembra tuttavia che confondere il concorso di popolo con l’appoggio dei grandi mezzi di comunicazione sia un errore. Ecco perché ci permettiamo di indicare altri elementi di valutazione oltre a quelli indicati da Giorgio Napolitano relativamente al concorso popolare intorno alle celebrazioni dell’unificazione. Non ci pare infatti di vedere tutto questo entusiasmo, anzi, ci sembra, e ci preoccupa, che cresca il distacco e il disamore per l’Italia. Non siamo di quelli che vorrebbero “disfare” l’unità del Paese, ma neppure rassegnarsi a un’interpretazione ufficiale e governativa dei 150 anni che ci stanno alle spalle. Anche noi abbiamo fatto qualche giro in Italia durante quest’anno e abbiamo trovato anche un diffuso atteggiamento critico, non distruttivo (separatista per intenderci), ma certamente “revisionista”, se possiamo usare questa parola dalla semantica ambigua.
Oltre ai libri citati dal Capo dello Stato sul Corriere, ne sono usciti altri che fino a qualche anno fa non c’erano o non venivano pubblicati. Non sono scritti (almeno non tutti) da importanti docenti universitari che hanno a disposizione i media per pontificare, ma gli archivi sono stati consultati anche da loro. E inoltre questi libri sono richiesti dagli editori perché vengono venduti, e letti, come non accadeva fino ad alcuni anni fa. Sarebbe auspicabile che il Capo dello Stato, e i giornalisti e professori suoi estimatori, si ricordassero anche di loro, in una logica di equità. Proviamo a ricordarne qualcuno, certi di dimenticarne molti, cominciando dalle opere pubblicate e ripubblicate del cardinal Giacomo Biffi (L’unità d’Italia, Cantagalli 2011) e del vescovo di San Marino Luigi Negri (Risorgimento e identità italiana, Cantagalli, 2011), ricordando gli atti dell’affollato convegno organizzato da Alleanza Cattolica in Campidoglio nel febbraio 2011 (1861-2011. A 150 anni dall’unità italiana. Quale identità?, a cura di F. Pappalardo e O. Sanguinetti, Cantagalli, 2011), per quindi menzionare alcuni nomi che non hanno accesso ai grandi media, ma le cui opere meritano di essere lette: Roberto Martucci (L’invenzione dell’Italia unita, Sansoni, 1999), Francesco Pappalardo (Il mito di Garibaldi, Cantagalli, 2011), Angela Pellicciari (I panni sporchi dei Mille, Cantagalli, 2011), Andrea Tornielli, (La fragile concordia. Stato e cattolici in 150 anni di storia italiana, Rizzoli 2011), Gigi Di Fiore (I vinti del Risorgimento, UTET, 2011, 3a edizione), Francesco Mario Agnoli (L’unità divisa, 1861-2011, Il Cerchio, 2011), nonché le memorie di Patrick O’Clery, La Rivoluzione italiana (Ares, 2000) e la riedizione del romanzo storico di Carlo Alianello (L’alfiere, Rizzoli, 2011) e tanti altri che sicuramente abbiamo dimenticato.
Un dato è senza dubbio emerso negli ultimi anni nella storiografia colta, ma anche in un certo modo popolare di percepire la propria identità nazionale, modalità ripresa anche da Papa Benedetto XVI e dal card. Angelo Bagnasco nelle commemorazioni ufficiali: l’esistenza di un’Italia prima dell’Italia, cioè di una identità italiana magari percepita all’ombra del campanile, ma diffusa in tutta la Penisola, che precede di molti secoli la nascita dello Stato nazionale nel 1861.
Sarebbe auspicabile che anche le istituzioni coltivassero questo spirito di appartenenza diffuso, invece di insistere su temi ideologici che dividono o non convincono, come la Resistenza o il “patriottismo costituzionale”. C’è un bel libro che ne tratta e che meriterebbe maggiore attenzione, almeno la stessa accordata ai colleghi universitari dell’autore, Emanuele Pagano, che insegna all’Università Cattolica (L’Italia e i suoi Stati nell’età moderna, La Scuola, 2010). Speriamo di sentirne parlare ancora.
Marco Invernizzi
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