Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

1799 e dintorni

Posted by on Gen 20, 2017

1799 e dintorni

Alla costante ricerca di elementi nuovi per appagare il mio interesse per il particolare momento della nostra storia nazionale (il Risorgimento e gli immediati dintorni), ho avuto occasione di scoprire l’esistenza di un periodico il cui interesse è la ricerca storica e la successiva trattazione proprio del periodo compreso tra la fine del 18° e quella del 19° secolo.

La trattazione prevede anche incontri, dibattiti e produzione di audiovisivi sugli argomenti. E’ capitato così che, mentre ero intento a scorrere i titoli dei vari argomenti per decidere da quale di essi dare inizio alla lettura, venisse mostrata automaticamente una lista di filmati che trattavano argomenti e approfondimenti del periodo in esame. La comparsa del tricolore blu-giallo-rosso della Repubblica Napoletana alle spalle dell’oratore ha catturato la mia attenzione, e così ho deciso di vedere e di sentire di quale argomento trattasse l’intervento, ma anche di “come” esso venisse trattato. Il filmato, da cui non si riusciva a stabilire l’argomento in esame, era datato 23 gennaio 2012. Il relatore, uno storico risorgimentalista, collaboratore del periodico, ha esordito dichiarando testualmente che “ Un paese senza memoria non ha futuro”.

L’inizio lascerebbe ben sperare, a dispetto del vessillo affisso alla parete, dato che l’affermazione è sacrosanta, potrebbe andar bene per tutti e categoricamente dovrebbe consentire ad ogni “paese” di avere una propria memoria o di non ostacolarne il recupero, qualora si fosse brigato per fargliela perdere. Infervorandosi nel discorso, il relatore sostiene che questa frase dovrebbe essere scritta in bella evidenza sui muri di tutte le città, così a Napoli come a Milano, “capitale morale d’Italia”! Questa affermazione già è più difficile da condividere senza riserve a seguito di tutti gli episodi di corruzione ad ogni livello e gli scandali di cui si è venuti a conoscenza e che l’ informazione di regime non è riuscita a tenere sotto controllo .

Si sa che gli storici di professione hanno ognuno una propria visuale della storia. E il relatore del filmato non fa eccezione alla regola, rivelando subito il proprio orientamento e le proprie simpatie ad appena pochi secondi dall’affermazione iniziale, quando a gran voce, scagliandosi contro l’indifferenza dei politici, lamenta che, proprio per la loro indifferenza, siamo ancora costretti a sopportare quell’ “ombra nera, a Piazza del Plebiscito, ove c’è la statua di un assassino” . Il riferimento è, chiaramente, a Ferdinando IV, ed il relatore si lamenta che mentre questo “assassino” gode dell’onore di una sepoltura regale, come anche l’altro assassino, il cardinale Ruffo, gli “eroi” della Repubblica Napoletana, che raccomanda di non definire assolutamente “giacobini”, giacciono dimenticati “nel fango” a Piazza Mercato.

A questo punto, temendo che la limitatezza delle mie conoscenze possa indurmi in errore ed anche per scongiurare il pericolo di farmi un’idea sbagliata di momenti o di personaggi storici, ritengo necessario documentarmi per chiarire quando un individuo può essere definito “eroe”. La sintetica definizione che trovo sul Devoto – Oli mi sembra più che soddisfacente. <<Personaggio che abbia dato prova di un’eccezionale virtù e induca all’ammirazione chiunque ne venga direttamente o indirettamente a conoscenza>>. Voglio subito rassicurare che la preferenza per tale definizione non è legata a motivi o simpatie personali, giacché essa verrà usata come criterio di giudizio sia per le persone che si trovano davanti alla barricata, sia per quelle che vi si trovano dietro.

Caratteristica prima per essere considerato e poi definito “eroe” deve essere, quindi, l’aver dato prova di una “eccezionale virtù”e poi che questa virtù sia talmente degna di lode e di apprezzamento da suscitare ammirazione in “chiunque” ne venga a conoscenza. Basta, cioè, che anche una sola persona non sia d’accordo per negare la concessione del titolo di “eroe” all’eventuale candidato al titolo. Se non si lascia passare questo principio e ognuno vuol proclamare i propri eroi senza tener conto né delle qualità di ordine morale per essere definito tale, né del parere altrui, allora, invocando proprio quell’egalité così cara ai giacobini, reclamiamo lo stesso diritto per tutti. Ma, finché è possibile, cerchiamo di mantenere il ragionamento nei limiti della logica, dell’ obiettività e della correttezza.

A mio giudizio, noi contemporanei abbiamo la possibilità di analizzare gli avvenimenti del passato con maggiore obiettività rispetto ad un cronista o ad uno storico che, per esempio, sia stato coevo agli avvenimenti del 1799 o del 1860, perché abbiamo a disposizione la “fine” delle varie vicende, cioè, i risultati prodotti dalla fazione o dalla classe che ha originato un determinato evento, e, inoltre, possiamo contare su documenti – ove esistano – prodotti dall’una e dall’altra parte che ci consentono di operare dei confronti o di correggere qualche giudizio.

Cominciamo ad esaminare il comportamento dei giacobini che teorizzarono e favorirono la nascita della Repubblica Napoletana. Prima di ogni considerazione cominciamo col chiederci se essi erano o non erano, civilmente e politicamente, cittadini del Regno di Napoli. Non ci sembra un’eresia affermare che essi erano a tutti gli effetti cittadini del Regno di Napoli; che, fino a prova contraria, questo Regno era la loro patria e che molti di essi erano al servizio del sovrano in quel momento sul trono.

Per motivi su cui per il momento non indagheremo, sappiamo che questo sovrano non era amato da costoro. Ma allora perché, visto che si proponevano come esempio di virtù e di correttezza morale, alcuni di essi continuavano ad intascare il soldo dell’odiato sovrano, continuavano a strisciare nei suoi uffici, ad indossare la divisa del suo esercito?Può mai definirsi, questa, la qualità di virtù eccezionale per poter essere definito eroe? Inoltre, potremmo anche concordare sul fatto che, almeno secondo il loro punto di vista, i giacobini ritenessero giusto eliminare fisicamente chi incarnava un principio e una forma di governo in totale opposizione ai loro ideali. Ma l’aver fatto invadere il suolo patrio da truppe straniere può mai essere considerata un’ azione encomiabile per cui i suoi autori debbano essere definiti eroi?

Adesso diamo uno sguardo ai principi a cui si ispiravano personaggi che dovremmo considerare “eroi” e come tali onorare.

Dal numero 2 del Veditore Repubblicano del 10 Germile dell’anno primo della Repubblica Napoletana (30 marzo 1799), relativamente alla Politica (di cui all’articolo 9 della Costituzione redatta da Mario Pagano):

<Un’uomo (sic) nato sotto un governo tirannico, s’egli riconosca i suoi diritti, e voglia riprenderli, non ha altro mezzo che quello d’un pugnale per immergerlo in petto al Tiranno; poiché gli avrà ripresi, che serbi sempre il pugnale per farne uso contro al primo fazioso che vorrà di nuovo degradarlo dai conquistati diritti.>>. Il Pagano è sempre quello che, nella stessa Costituzione, introdusse un principio liberticida che dovette suggerire poi al Pica la famigerata Legge che porta il suo nome, decretando:<<Chiunque sarà trovato con la coccarda del tiranno … o comunque altra coccarda non repubblicana, o che la porti palese o nascosta, sarà arrestato e tra lo spazio di 24 ore giudicato e punito con la morte>>.

A questo punto vorrei chiedere perché persone che introducono il principio della legittimità dell’ assassinio nella legislazione di uno stato “libertario” per definizione; persone che a tutti gli effetti sono dei cospiratori e dei traditori possano ritenere eroici gli omicidi e l’eliminazione fisica degli avversari solo perché ritenuti giustificati da una ideologia o da un convincimento politico e perché, invece, sia da consegnare alla Storia come esecrabile la reazione di chi è riuscito a scampare al pericolo e che, riacquistato il potere, mosso da analoghe “ragioni di Stato” e, quindi, da motivazioni politiche, sottopone ai rigori della legge i nemici del giorno prima comminando perfino alcune condanne a morte.

Dispiace che il Croce abbia espresso un acerrimo giudizio su Ferdinando IV, affermando che <<A re Ferdinando si è fatto forse troppo onore chiamandolo tiranno>>. Da una persona, che si era trovata nella condizione di scrivere dopo gli avvenimenti, ci saremmo aspettati un giudizio più obiettivo. Non costituendo più un segreto, infatti, la notizia che, di tutti i giacobini sottoposti a giudizio, i condannati a morte furono poco più di un centinaio, che altri ottennero la commutazione all’ergastolo e che altri furono esiliati, mentre le vittime causate dalla cospirazione giacobina, secondo i calcoli, furono tra le 70.000 e le 80.000, ci sembra che i due avvenimenti, proprio in virtù delle conoscenze di cui potevano disporre i posteri, andavano giudicati almeno allo stesso modo. Non possiamo convenire, infatti, col giudizio del Croce, o di chi la pensa allo stesso modo, secondo cui l’enorme numero di vittime dei giacobini non farebbe testo e i giacobini stessi sarebbero da considerare degli eroi, mentre l’esiguo numero dei condannati da parte di Ferdinando farebbe gridare all’esecrazione e il sovrano stesso sarebbe da considerare uno dei più crudeli assassini.

Sempre per rimanere nei limiti della correttezza, fornisco un’informazione ben nota agli storici di professione, informazione che, però, chissà per quale motivo, non è stata presa nella dovuta considerazione né è stata resa di pubblico dominio.

Il Regno di Napoli era uno Stato legittimamente insediato e legalmente riconosciuto, mentre la Repubblica Napoletana non ottenne alcun riconoscimento nemmeno dalla madre spirituale francese, per cui tutte le persone che avevano cospirato contro il potere legittimo, una volta caduta la repubblica che erano riusciti a metter su, non potevano essere considerati come prigionieri di guerra, ma erano criminali comuni, soggetti, quindi, alle leggi del codice penale dell’epoca. Prendere nella giusta considerazione già questo solo aspetto della situazione avrebbe potuto contribuire a mettere su due piani di giudizio diversi gli eccidi dei giacobini e delle truppe francesi e la conseguente reazione borbonica. Ma, purtroppo, anche l’accennato vantaggio che, come posteri, abbiamo, rispetto ai coevi, nel giudicare avvenimenti storici passati è costretto a naufragare contro il soggettivismo, la partigianeria e la faziosità. Difficilmente, quindi, di uno stesso momento storico si riuscirà ad avere un resoconto che riesca ad essere accettato da tutti.

Solo per fini didattici, riportiamoci per un attimo ai primi momenti del nostro Risorgimento e cerchiamo di esprimere un giudizio su una delle prime azioni che dettero origine ai noti avvenimenti. Può essere considerata normale una persona (peggio, se si tratta di uno studioso) che, contraddicendo a tutte le evidenze e a tutte le convenzioni umane (che, seppure relative, sono alla base dei nostri rapporti e dei nostri criteri di giudizio), definisce liberazione l’invasione di un regno senza neanche una dichiarazione di guerra; una persona o un gruppo che pretendono di innalzare agli onori dell’altare dei traditori consegnandoli alla storia come eroi;delle persone che non trovano da ridire sul superbo comportamento di un sovrano che, dopo di essersi “scomodato” per rispondere fraternamente e “disinteressatamente” ad un commovente “grido di dolore”, una volta divenuto sovrano dell’intera nazione, non avverte il bisogno di cambiare l’ ordinale dinastico? Come spiegare altrimenti che persone, che non sono più la massa analfabeta di fine Ottocento, non riescano a trovare strane certe affermazioni e non riescano a darsi da sole una risposta? Sarebbe sufficiente anche interrogarsi sull’ultimo esempio riportato per cominciare a capire in che modo storici e divulgatori poco obiettivi hanno mistificato i fatti della storia e, quindi, cominciare ad abbandonare atteggiamenti di superiorità solo supposta e ormai consunti e logorati luoghi comuni, che non fanno altro che dimostrare all’esterno la nostra piccineria e la nostra disunione.

Un semplice ed asettico raffronto fra il comportamento di Ferdinando IV di Borbone e Vittorio Emanuele II di Savoia potrebbe già servire a far sorgere qualche dubbio.

Elenchiamo semplicemente i fatti così come si sono svolti, senza nessun commento.

Ferdinando, una volta che il Congresso di Vienna aveva unificato le corone di Napoli e di Sicilia, nonostante la decisione riguardasse possedimenti della Corona, ritenne doveroso cambiare l’ordinale dinastico da IV di Napoli e III di Sicilia a I delle Due Sicilie. Vittorio Emanuele “secondo” era prima della “liberazione” dell’altra metà della nazione e “secondo” decise altezzosamente di restare anche ad unificazione avvenuta, facendo uniformare a questa decisione anche il parlamento, che continuò a numerare le sedute come su nulla fosse accaduto. Questi i fatti. Che messaggio può ricavare da essi una mente scevra da pregiudizi?

Dapprima dovrebbe chiedersi il significato che si cela dietro il cambio dell’ordinale dinastico; poi se questo cambio è previsto da un protocollo o da un uso che, perdendosi nella notte dei tempi, ne abbia ratificato nei secoli l’importanza e quasi la sacralità. A questo punto, confrontando il comportamento dei sovrani di tutta l’Europa durante il cosiddetto periodo degli imperialismi, e notando che nessuno di essi, una volta impadronitosi dei territori dell’Africa, dell’India, delle Americhe e di altre parti del mondo, aveva ritenuto di dover modificare il proprio ordinale dinastico, non avrebbe alcuna difficoltà a riconoscere i motivi di queste decisioni, e, per analogia, a giudicare la decisione di Vittorio Emanuele “secondo”.

Dopo di essermi limitato ad elencare semplicemente i fatti, voglio rendere nota la mia opinione in merito.

Personalmente sono convinto che l’altezzosa e superba decisione di Vittorio Emanuele di rimanere “secondo” non abbia altro significato che quello di far capire in maniera inequivocabile che non avvertiva alcun trasporto per le popolazioni di cui aveva proditoriamente violato i confini e che, quindi, non di liberazione si era trattato, ma di invasione e di conquista, per cui il resto dell’Italia, per Casa Savoia, non era altro che una colonia. Non voglio ripetere qui quanto già detto in altri interventi, ma continuare a celebrare un avvenimento quale quello della Repubblica Napoletana come un momento storico glorioso e considerare i suoi ideologi come eroi a cui dedicare monumenti e commemorazioni fa a pugni con quanto registrato dalle cronache e non divulgato opportunamente, giusto per rimanere fedeli alla congiura del silenzio per alcuni avvenimenti e ad un’esagerata amplificazione per altri. Le vessazioni, le violenze, i saccheggi, i massacri, i sacrilegi consumati dai giacobini francesi ai danni delle popolazioni e dei territori invasi sono difficilmente quantificabili, sia per quanto riguarda il numero delle vittime, sia per le continue richieste di danaro che avvenivano sullo stesso territorio anche più volte al giorno se, per caso, una qualunque zona avesse avuto la sventura di essere attraversata da due reggimenti a distanza di poche ore l’uno dall’altro.

Dal Nuovo Monitore Napoletano del 1799:<< … Quest’eroico amico dell’Italia non vien meno al vezzo francese di razziare beni in terra straniera. Il 7 ventoso dell’anno VII (25 febbraio 1799), Championnet scrive al Direttorio: “ Vi annuncio con piacere che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute. Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius, padre e figlio, in marmo; la Venere Callipigia non andrà sola a Parigi: abbiamo trovato alla Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola e di Marco Aurelio, un bel Mercurio in bronzo e busti antichi del marmo del più gran pregio … Il convoglio partirà fra pochi giorni”>>. Più avanti, a proposito delle imposizioni fiscali:<<Championnet, entrando con l’armata vittoriosa a Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola città … Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in più lungo spazio di tempo. Quando Championnet se ne avvide, si pentì o mostrò pentirsi del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabilì quindici milioni per le province>>.

Dato che l’invasione del Regno di Napoli da parte delle truppe francesi avvenne su espresso invito e con la complicità dei giacobini nostrani e considerati i danni morali e materiali da esse procurati, il fatto che si continui a celebrare quello che non è altro che un tradimento; che si innalzino monumenti a perenne ricordo; che si iscrivano i nomi di quelli che furono causa di tali avvenimenti nel libro degli eroi non sono il segno di persone o di intellettuali poco obiettivi o, quanto meno, faziosi? E’ come se i Romani, dopo la distruzione della loro città da parte dei Galli Senoni nel 390 a. C., avessero innalzato dei monumenti a Brenno o a qualche suo luogotenente per onorarne la memoria e gli storici successivi non solo non avessero trovato nulla da ridire, ma avessero condiviso unanimemente la decisione.

Se si vuole per forza sostenere che il vagheggiamento e la successiva realizzazione pratica della Repubblica Napoletana, con tutti i danni che riuscì a produrre sono momenti da celebrare, ritengo che bisognerebbe accordare lo stesso diritto anche a chi diede l’unica cosa che possedeva, la propria vita, per contrastare un’idea che non condivideva e per affermare e difendere, a sua volta, un principio che riteneva altrettanto valido.

Quando le truppe francesi invasero la Spagna (ove pure c’erano un’ aristocrazia ed una borghesia illuminate che non erano da meno di quelle degli altri stati europei e che avevano fornito anch’esse elementi liberali alla causa) i francesi non furono accolti come liberatori, ma considerati per quello che erano veramente: un esercito invasore, e, nonostante le simpatie di alcuni, la storiografia ufficiale spagnola non trattò mai l’ argomento in maniera diversa come è avvenuto invece da noi.

Quando in Polonia il popolo si ribellò per difendere il proprio paese ed insorse per non perdere la propria identità nazionale o la propria religione, nessuno storico – né straniero né, tantomeno, locale – si sognò di coniare un neologismo per definire i rivoltosi diversamente da quello che effettivamente erano, cioè insorti. Da noi, invece, il neologismo fu subito trovato e, a lettere di fuoco, come la marchiatura dei capi di bestiame, fu impresso nelle carni di quelli che pure erano insorti, ma che sarebbero stati etichettati da quel momento in poi, e col silenzio di tutto il mondo della cultura, con l’infamante epiteto di briganti.

Quando, durante la guerra col Piemonte, gli Austriaci sfoltirono la guarnigione di Brescia per rinforzare le truppe che si trovavano in zona di operazione, la città ne approfittò per attaccare il migliaio di soldati lasciati a presidio del Castello. La rivolta, organizzata da Tito Speri, si protrasse per dieci giorni. E per quei dieci giorni Brescia è universalmente ricordata , per omnia secula seculorum, come la Leonessa d’Italia ed eroi coloro che ne furono i protagonisti.                    

Nulla da obiettare in merito, né come italiano né come napolitano, come pure per le Cinque giornate di Milano, per la rivolta di Venezia , per il famoso sasso del genovese G. Battista Perasso . Ma vorrei chiedere, in primis agli storici di professione e poi a tutti coloro che si ostinano senza alcun motivo ad interpretare la storia in maniera palesemente distorta (tra questo modo di interpretare e diffondere la storia si inserisce la denigrazione di Napoli in tutte le forme e i modi possibili), se hanno mai sentito parlare con lo stesso rilievo e con la stessa enfasi della rivolta dei lazzari, sia durante l’occupazione francese del 1799 (dove le forze nemiche contavano su un contingente di 22.000 uomini al comando di un colonnello e di tre generali), sia durante l’occupazione tedesca del 1943.

Nel primo caso i lazzari, contro l’artiglieria nemica,avevano potuto opporre solo i loro petti, le mani nude e bastoni o randelli (le famose peroccole); nel secondo, qualche bottiglia incendiaria contro carri armati e mitragliatrici.

Ma, queste azioni che, a livello di eroismo, non voglio dire che sono superiori agli esempi citati, ma che sono per lo meno da considerare alla stessa altezza, da una certa parte della nazione non vengono avvertite con lo stesso animo con cui noi regnicoli non abbiamo difficoltà a considerare eroiche le azioni verificatesi fuori dei nostri vecchi confini.

Nientemeno che, per avere un minimo di riconoscimento e di giustizia storica, siamo costretti a ricorrere alle citazioni dei nemici. E’ il colmo! Si gode di maggior rispetto presso il nemico che nella propria nazione!

Lo Championnet, constatato di persona il valore di quella moltitudine di persone che, senza preparazione militare, senza adeguato armamento, senza comandanti sfornati da famose accademie militari, aveva creato non poche difficoltà ad un esercito addestrato e posto sotto il comando di ben quattro comandanti, nel suo rapporto a Parigi così si esprimeva:<< … si combatte in ogni strada;il terreno è disputato palmo a palmo;i lazzari sono guidati da capi intrepidi. I lazzari, questi uomini meravigliosi, sono degli eroi …>>. Questo il giudizio a caldo di un nemico, che aveva potuto soppesare personalmente il valore di quella massa amorfa e priva di una regia, ma che, intellettualmente onesto, non poteva consegnare alla storia per vili e codardi degli uomini che avevano dato prova di coraggio e di eroismo e che, se ben diretti, avrebbero sicuramente potuto modificare il corso degli eventi.

Il generale Bonnamy Capo di Stato Maggiore, ancora più sorpreso e ammirato, disse:<<… l’azione dei lazzari farà epoca nella Storia!>>.

Ovviamente, queste due definizioni, da sole, non possono essere ritenute sufficienti a dichiarare eroi tutti i lazzari perché soddisfano il nostro campanilismo. La responsabilità di un verdetto la affidiamo a chi se ne senta all’altezza. Noi, richiamandoci alla prova di eccezionale virtù che è alla base della motivazione per essere riconosciuti eroi, sollecitiamo un giudizio tra il comportamento e il coraggio dei lazzari e quello dei giacobini, aggiungendo che mentre i primi non si erano mossi in vista di un utile (perché lazzari erano e lazzari sarebbero rimasti) i giacobini, come aggravante, avevano subordinata la loro azione all’ottenimento di immediati utili personali.

Per ritornare all’affermazione del Bonnamy, sicuramente l’eroismo di quei lazzari ha fatto epoca, ma non da noi purtroppo. Fortunatamente c’è chi, intellettualmente onesto, non ha difficoltà a sostenere che Napoli è una città che “ resta in perenne credito con la Storia” (Chiedo scusa, ma non ricordo l’autore di tale affermazione). Ora, ci si chiederà che c’entra Napoli in questa discussione. Voglio ricordare che proprio Napoli fu il grande palcoscenico su cui si svolsero tutti gli avvenimenti di cui abbiamo avuto modo di parlare. Perciò non ci sembra fuori luogo, a chiusura, ricordare che l’ex Capitale del più grande regno d’Italia sta ancora aspettando che venga onorato il credito che vanta nei confronti di chi sa e tace di essere in debito. Finora, partendo dal 1799, l’unico risarcimento di cui i debitori hanno saputo ricompensarla (forse perché sanno che il loro debito è così ingente che non potrà mai essere onorato) sono state solo calunnie prive di ogni fondamento, che probabilmente trovano origine in un odio inspiegabile di cui sono responsabili (e di cui dovranno dar conto dinanzi al tribunale della Storia e a quello di Dio)gli storici intellettualmente disonesti.

Quest’accanimento – inutile nasconderlo – non fa piacere e non fa che mostrare al mondo che la nostra nazione è unita solo geograficamente, checché ne continuino a dire i vincitori, ma, per tutto quanto accennato, non lo è né etnicamente, né culturalmente, né sentimentalmente. Con buona pace del Risorgimento e di tutta la retorica fiorita intorno ad esso .

In questa ininterrotta battaglia tra Napoli e il resto del mondo, che si trascina da oltre due secoli, ho potuto constatare – ovviamente con grande piacere – che la storia e la cultura di Napoli non sono né un mito né un’invenzione, ma una realtà vera le cui radici, come ben noto anche a chi continua ad offenderla, sono così lontane nel tempo e quindi così profondamente radicate nel tessuto del mondo che le hanno consentito non solo di sopravvivere all’ignominioso ed incessante bombardamento mediatico, allo sfruttamento coloniale, alla deindustrializzazione finalizzata e alla massiccia opera disinformativa dei denigratori prezzolati , ma di stare ancora in piedi, di essere ancora viva, e di avere ancora la lazzaresca forza di replicare e di ribattere colpo su colpo.

Castrese Lucio Schiano

 

 

 

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.