2° lemma carlista: Patria

La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja, mischiando cioccolato, caffè e latte, per stimolare, irrobustire e addolcire. La presente rubrica intende rivolgersi al lettore stimolandolo con il caffè delle considerazioni, irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto, rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.
Perché? Innanzitutto perché si confonde con altri termini. Abbiamo già visto che, parlando di dottrina politica, talvolta ci imbattiamo in termini che usualmente vengono utilizzati come sinonimi, pur avendo significati diversi, se non opposti.
È il caso di ideologia e dottrina; di sovrano, Re e Monarca; e appunto di patria, nazione (o cittadinanza) e Stato.
Se io chiedessi alla maggior parte di voi «di che Stato siete? A quale Stato appartenete?», ritengo che tutti rispondereste «Italia». Se poi vi chiedessi qual è la vostra nazione, rispondereste «Italia». Se infine chiedessi qual è la vostra patria, tendereste a identificarla con lo Stato e con la Nazione in cui viviamo. In realtà sono concetti molto diversi.
Sinteticamente, lo Stato è un concetto, per così dire, burocratico, che si identifica generalmente in un luogo geografico ben preciso (ci possono essere relativi problemi di confine, ma sostanzialmente c’è un’identificazione tra un luogo geografico e lo Stato che lo governa). Può esistere il caso – molto raro – di uno Stato senza luogo: ad esempio, è accaduto stato per pochi anni la cosiddetta “terza Francia” di De Gaulle, che si contrapponeva alla Francia occupata dai Tedeschi al nord e la Francia detta “di Vichy”, governata dal Maresciallo Pétain a sud; oppure dei vari “governi in esilio”. Si tratta comunque di casi abbastanza limitati nel tempo: poi si devono o concretizzare (con la “terza Francia” diventata poi la Francia cosiddetta liberata, oppure scompaiono, se non riescono in qualche maniera a imporsi). Quindi lo Stato è una questione politico-geografica abbastanza facilmente identificabile: se attraversiamo il confine a Ventimiglia o a Trieste, sappiamo di entrare in un altro Stato, sappiamo di essere sottoposti alle leggi di quello Stato, e il tutto è abbastanza chiaro e identificabile.
La nazione è qualcosa di diverso: si può essere di nazionalità italiana, ma vivere all’estero; e si può vivere in Italia (cioè all’interno dello Stato italiano) senza possederne la nazionalità.
La nazione peraltro, si lega al concetto di cittadinanza ed è un termine utilizzato a partire dalla rivoluzione francese, che però ha un carattere ideologico e non tradizionale. Infatti, nella Francia rivoluzionaria erano considerati cittadini i “buoni” cittadini, rispettosi dell’ideale rivoluzionario, per cui Francesi come i Vandeani o gli aristocratici fuoriusciti che vivevano a Coblenza non venivano considerati cittadini, anzi, venivano considerati nemici della patria; mentre gli stranieri – che fossero di origine italiana, svizzera, tedesca, inglese o statunitense – che accettavano i dettami della rivoluzione venivano considerati cittadini francesi. Quindi la cittadinanza non aveva niente a che fare con la nazionalità, evidentemente.
Ma lasciamo da parte un attimo il concetto di nazione, che può essere fuorviante, e arriviamo finalmente quello di patria.
La patria è la terra dei padri. Madre-patria, si definisce: la terra dei genitori, degli antenati; la terra che ci nutre, che ci ha dato la vita, dove siamo nati, dove abitiamo, e via dicendo.
Questo è un concetto chiaro in una cultura che fino all’Ottocento o addirittura fino all’inizio del Novecento, diciamo fino alla belle époque, identificava la patria nel luogo in cui si nasceva. Infatti, la cultura a partire dai tempi antiche fino a giungere a quell’epoca, è sostanzialmente una cultura statica. Si apprezzava la stabilità. Il muoversi era considerato qualcosa di non di non apprezzabile, di quasi negativo.
Pensiamo alle professioni che costringevano a spostarsi, come quella dei marinai e dei soldati: a parte alcuni casi (alti ufficiali, ambasciatori), di solito si abbracciava la carriera militare per necessità («Vendé la libertà, si fé soldato» ricorda il libretto dell’Elisir d’amore di Donizetti), altrimenti si si preferiva un lavoro pacifico che fosse meno pericoloso e che non costringesse ad andare di qua e di là. In quanto ai marinai, essi godevano la fama di persone non del tutto affidabili (si dice, appunto, promessa di marinaio), uomini che hanno una famiglia in ogni porto… Poi, salendo nella scala sociale, c’è il medico condotto che deve girare per i vari paeselli, allora con il carrozzino, per andare a trovare i vari malati: un dottore, un laureato, quindi un uomo rispettato, ma che si sente quasi inferiore nei confronti del farmacista, che invece ha una bottega e che non deve andare in giro a trovare i clienti, perché sono questi ultimi che si recano da lui. Non è un caso che, tra l’altro, nei paesi, la bottega del farmacista era il luogo di riunione delle persone colte: la bottega del barbiere era utilizzata per informarsi sulle novità (e sui pettegolezzi) del paese, mentre la bottega del farmacista era frequentata dagli intellettuali che discutevano di questioni (solitamente politiche) più elevate.
Andiamo avanti, chi è che ancora va in giro per mestiere? Il venditore ambulante, che invidia il commerciante “stanziale” e spera di guadagnare abbastanza per potersi finalmente sistemare in una bottega nel paese e ed evitare di dover girare. Altra categoria che si muove è quella degli attori (le compagnie “di giro”), che però non godono di gran fama: se i marinai sono quelli che fanno promesse che non mantengono, le attrici hanno fama di ragazze abbastanza, diciamo così, allegre, disposte non solo a soddisfare lo spettatore durante lo spettacolo, ma magari – e soprattutto – a recita terminata…
Ho lasciato per ultima la categoria dei “circensi”, dei “girovaghi”, ovverosia degli zingari: sarebbe un’ipocrisia non riconoscere che in qualsiasi società le persone di cultura nomade sono considerate inferiori, sono guardate in maniera negativa, proprio perché non hanno un radicamento in un determinato territorio. Sarebbe falso negare che, se uno zingaro ci si avvicina, immediatamente ci poniamo sulla difensiva: non ci fa piacere avere uno zingaro vicino, perché giudichiamo la loro cultura distante da quella nostra naturale, che è quella del radicamento.
Naturalmente nell’ultimo secolo la possibilità di muoversi, di viaggiare, di andare e tornare in giornata, di compiere grandi spostamenti in poco tempo, eccetera, ha cambiato profondamente la nostra società, quindi diventa più difficile essere radicati. O meglio, è più semplice essere sradicati – evento, una volta, molto più raro.
Pensiamo al romanzo di Maurice Barrès Les Déracinés (Gli sradicati, 1897), che parla di giovani che vanno a studiare o a lavorare a Parigi, staccandosi dalla terra dei padri, senza sentirsi più legati alla terra di origine, ma nemmeno a quella di approdo.
Adesso la mobilità che definiremo geografica (anche quella sociale era malvista in passato) è diventata qualcosa di usuale: con gli attuali mezzi di trasporto possiamo riunirci, partendo la mattina da luoghi distanti decine e decine di chilometri, e poi essere di ritorno a casa in giornata, se non addirittura per pranzo.
Qualcosa che nell’Ottocento era impossibile, che all’inizio del Novecento era difficile, adesso è divenuta perfettamente normale: di conseguenza, si crea un distacco da una città, da un paese, da un luogo nel quale prima si abitava con continua stanzialità.
Il concetto di patria come terra dei padri viene quindi inficiato da questa possibilità di spostarsi con una certa facilità. Vorrei citare a questo punto un passaggio di una conferenza, proprio su questo argomento, che lo studioso carlista Luis Infante ha tenuto per la Comunione Tradizionalista (purtroppo l’ultima, perché è improvvisamente scomparso poco dopo). E io desidero riportare un momento importante del suo ragionamento, in cui parlava di varie patrie: c’è una piccola patria, c’è la patria normale, c’è la grande patria. Per quanto lo riguardava, intendeva come piccola patria le Asturie, come patria la Spagna, come grande patria le Spagne (dalla Penisola iberica a quella italica, la Sardegna, la Sicilia e poi i territori d’oltremare, in America e nelle Filippine). Si potrebbe aggiungere un elemento ulteriore: la piccolissima patria, che nel suo caso era la città di Gijón, dove abitava e a cui era molto legato.
Ciascuno di noi può parlare di varie patrie, che variano a seconda delle diverse posizioni geografiche e politiche. Ad esempio la patria può essere la Campania. La patria più grande è l’Italia. Si prosegue poi arrivando all’Europa (non certo quella di Maastricht, di Strasburgo o di Bruxelles, ma l’Europa erede della Cristianità medioevale). Oppure, per chi ha una diversa sensibilità, la piccola patria – sempre costituita dalla zona in cui si è nati e si è vissuti – potrebbe essere quello che era il Principato Ultra. E allargando, la patria “normale” il Regno di Napoli. E, proseguendo, la grande patria le Spagne.
È – come dicevo – una questione di sensibilità personale. Ma in ogni caso esisterà (nella maggior parte dei casi) una piccolissima patria da cui partire (il paese, la cittadina, il quartiere della grande città) che costituisce l’elemento primigenio ed essenziale per amare la propria terra.
Torniamo al concetto di nazionalità: qual è la nazione alla quale si vuole aderire? Come si può definire? In Italia chiamiamo una famosissima definizione che risale a Manzoni: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor». Definizione estremamente interessante (e io noto sempre che certe volte i poeti riescono più dei politici a forgiare alcune definizioni veramente toccanti).
C’è un autore vicino al Carlismo, padre Gabriel García Morente, che in un testo sull’ispanità si pone il problema di come definire lo spirito nazionale (si riferisce all’ispanità, ma il discorso è valido anche per la francesità, per la napoletanità, per qualsiasi tipo di nazionalità). Secondo Morente ci sono due modi di individuarla. Quello storico, basato sul passato: fanno parte della stessa nazione quelli che vengono dallo stesso luogo, che hanno la stessa tradizione, la stessa cultura e lo stesso modo di ragionare. In questo caso: «una d’arme di lingua d’altare, di memorie e di sangue». Le memorie e il sangue sono elementi appartenenti al passato.
Nel periodo in cui scrive, gli anni ’40, la scuola francese al contrario individuava elementi relativi al futuro, cioè la nazione sarebbe costituita – con mentalità rivoluzionaria per cui si abbatte tutto e si costruisce da capo – da coloro che hanno la stessa mentalità, gli stessi interessi: una comunità che abbia gli stessi ideali da perseguire in futuro. Naturalmente, prescindendo da (o abbattendo) tutto il passato. In questo caso, dell’elenco manzoniano, si salva il «cuore». E forse anche l’altare (teoricamente, il cuore non può esistere senza l’altare, cioè il progetto che si ha per il futuro in una società naturale non può prescindere dall’elemento religioso).
Quindi l’«altare» e il «cuore» sono ciò che può da solo essere alla base dell’idea di una comunità, purché decidiamo di lasciare la nostra terra e trasferirci in un’isola deserta, creando una società ex novo. Allora potremmo forse diventare uno stesso popolo, una stessa nazione nel momento in cui decidiamo di andare tutti assieme in una stessa direzione, però dimenticando completamente il passato.
García Morente concludeva dicendo che il Popolo viene costituito non solo dagli elementi del passato, non solo da quelli del futuro, ma essenzialmente da un elemento del presente, che definiva «stile», cioè il modo di comportarsi (che evidentemente viene dal passato, perché ci si comporta come si è stati educati, perché siamo stati abituati a farlo per generazioni e generazioni). Sarebbe quindi lo stile ciò che determina un popolo.
Ora io dirò una cosa sicuramente molto antipatica per la maggior parte di voi, rimandandovi a un mio scritto che motiva scientificamente l’affermazione l’Italia non esiste. Mi rendo conto che questo potrebbe sembrare un insulto. Non lo vuole essere, è invece una constatazione.
Infatti i popoli sono tradizioni e non esiste una comune tradizione italica, al di là della lingua, dell’altare e del sangue. Memorie poche, cuore ancor meno.
Esiste sicuramente una lingua comune, quella toscana (anche se ci sono quelli che sostengono che questa lingua sarebbe nata nel napoletano, con i Placiti cassinesi), che contengo un inizio, o meglio un indizio, di lingua volgare. In realtà lo stesso italiano che tutti noi conosciamo, che adesso parliamo correntemente, fino a un secolo fa era parlato poco, cioè consisteva in ciò che Dante definiva grammatica. Dante, infatti, sosteneva che la lingua latina non fosse una lingua, bensì una grammatica, cioè una lingua utilizzata solo per la scrittura, non per il linguaggio parlato, nel quale normalmente si usava un misto tra il latino e le varie lingue, quindi sostanzialmente il dialetto di ogni luogo. In effetti, nella maggior parte dei casi nella Penisola italica si parlava il vernacolo locale. Forse a Roma, sede di Pietro, venendo alla corte papale persone da tutte le parti d’Italia, se non del mondo, si usava il latino come lingua ufficiale, ma altrimenti presso la Corte napoletana generalmente si parlava tra i napoletani in napoletano; alla Corte di Torino si parlava notoriamente in francese o in piemontese (Cavour non conosceva bene l’italiano, lo sapeva leggere, ma lo non sapeva scrivere né parlare correntemente: quando dovete fare il primo discorso a Torino nella prima riunione del Parlamento divenuto “italiano”, ebbe difficoltà, perché, appunto, non era la lingua che lui usava normalmente, cioè il francese o il dialetto piemontese).
Quindi c’è stata per secoli una lingua italiana, poi divenuta ufficiale, ma che non veniva utilizzata normalmente.
Un altro elemento è il primo dell’elenco manzoniano: le armi. Ebbene, gli Stati italiani si sono sempre fatti guerra tra di loro: è sempre mancato un concetto di italianità. Ad esempio, quando nel 1480 i Turchi sbarcano ad Otranto e massacrano la popolazione, formando una testa di ponte pericolosissima per invadere il resto della Penisola, Lorenzo “il Magnifico”, simbolo dell’italianità, fa coniare una medaglia per celebrare la vittoria turca contro quelli che sono per lui i suoi nemici più pericolosi, perché gli sono vicini, cioè il Re di Napoli e il Papa. Quindi, quando parliamo di italianità a proposito di Lorenzo il Magnifico o di un altro “grande italiano”, come Machiavelli, dobbiamo sempre tener presente che il loro obiettivo era quello di rinforzare Firenze, al massimo la Toscana, tanto da festeggiare i Turchi perché indebolivano i Napoletani e i Romani, ma nonc erto di pensare all’Italia unita.
Quindi, parlare di italianità, di uno spirito italiano nel passato mi sembra difficile. Veniamo ai simboli: manca un simbolo italiano generale e tradizionale. Farò due soli esempi: uno abbastanza volgare e, per bilanciare, uno molto nobile. Quello volgare riguarda il rugby: seguendo le competizioni internazionali di questo sport, di cui sono appassionato ho notato come le varie compagni nazionali hanno un simbolo distintivo, diciamo un animale totemico o un altro elemento caratteristico del Paese. In Francia c’è il Gallo, che al di là del nome Galli dato ai Celti, è un simbolo di virilità, di esseri desti, di combattività (si fanno appunto combattimenti di galli, non combattimento di pavoni o altri pennuti); gli Spagnoli hanno il leone; gli Inglesi la rosa; i Britannici anch’essi il leone (i celebri Lions), gli Irlandesi il trifoglio, gli Scozzesi il cardo, i Gallesi le piume del Principe di Galles o il dragone. E nell’emisfero australe troviamo il puma degli Argentini, lo springbok (una gazzella) dei Sudafricani, il kiwi dei Neozelandesi, il wallaby (una specie di canguro) degli Australiani. Gli Italiani hanno semplicemente uno scudetto tricolore con scritto FIR (Federazione Italiana Rugby). Niente di più. Perché non esiste un simbolo comune tradizionale (il tricolore risale solo all’unità o al massimo alla repubblica cisalpina).
Per farmi perdonare l’argomento volgare che ho toccato, passo al più nobile esempio che sia possibile: l’Ordine di Malta. Le otto “Lingue” in cui esso è diviso sono state fondamentali, perché quando si trattava di combattere in mare o di difendere le fortezze dell’attacco dei Turchi, le varie caserme, le varie zone (o Alberghi) erano divise in “lingue”, perché il comandante doveva dare un ordine e doveva essere immediatamente compreso da tutti quanti. Non era possibile che ci fosse un traduttore o sette traduttori per farsi capire dagli altri. Quindi gli Italiani formavano la “lingua” italiana e combattevano con quelli di lingua italiana; i cavalieri di lingua tedesca combattevano con la “lingua” tedesca, eccetera; in maniera tale che un ordine veniva immediatamente compreso ed eseguito, altrimenti si sarebbe creato un problema molto grave di connessione e comprensione dei vari combattenti provenienti da diverse zone europee.
Se però consideriamo i simboli delle varie “lingue” troviamo i vari simboli tradizionali. Troviamo i leoni e i gigli dell’Inghilterra (i Gigli rappresentano la Bretagna, che in tempi antichi era sottoposta al Re d’Inghilterra). Dal canto proprio, la Spagna è divisa in due lingue: la Castiglia, rappresentata dai castelli e dal leone, e l’Aragona, caratterizzata dai cosiddetti “pali di Aragona” (cinque strisce rosse in campo d’oro, che non è un simbolo astratto, ma simbolo concreto, perché legato alla leggenda secondo cui il figlio di un Re, dopo una battaglia della Reconquista, si presentò con proprio scudo bronzeo al padre ferito a morte. Questi immerse la mano nella propria ferita e passò le cinque dita, rosse di sangue, sullo scudo del figlio, a mo’ di benedizione. E così nacque lo stemma araldico dell’Aragona).
Poi abbiamo la Germania con le aquile e le tre lingue francesi: la Provenza con la croce di Gerusalemme, la centrale Alvernia con il delfino del Delfinato e quindi i gigli della Francia settentrionale. Infine c’è l’Italia. E qual è lo scudo dell’Italia? Una bandiera nera con la scritta «Italia». Questo dimostra l’inesistenza di un simbolo italiano storico condiviso. Esistono tantissimi simboli locali: esiste il cavallo napoletano, il cinghiale beneventano, il lupo irpino, il toro molisano, la croce ottagona amalfitana, la lupa romana, il dragone milanese, il leone di San Marco veneziano, l’alabarda triestina, la rosa camuna, la triscele siciliana… e ci fermiamo qui: praticamente ogni paese, ogni città, ogni regione ne possiede uno. Ma non esiste un simbolo italiano che sia comune (nel senso di condiviso) e tradizionale.
Qualcuno dice ci sono due simboli, che risalgono a Roma antica: la lupa e l’aquila. Però la lupa è un simbolo che la maggior parte delle persone riconduce direttamente a Roma, alla sola città di Roma, non a tutta l’Italia. Invece, l’aquila è un simbolo imperiale, quindi ben più ampio della sola Penisola italica (lo troviamo infatti in varie bandiere imperiali) ed in Italia su una bandiera è stato usato una sola volta: quella della Repubblica sociale italiana. Di conseguenza, è immediatamente identificato con il fascismo, anziché con la romanità o con l’italianità, ed è quindi considerato negativamente, anche a causa – mi sia permesso dirlo – della stupidità dell’attuale antifascismo, del tutto incapace di comprendere il valore della simbologia.
Non è un caso, infatti, che in Italia ci sia un orrendo inno nazionale, scritto da un modesto maestro di banda sui mediocri versi di un altrettanto modesto poeta, che grazie a Dio è morto giovane e non ci ha potuto affliggere con altre sue liriche. Infatti, se chiedessi a chiunque di voi il titolo di un’altra poesia di Mameli, senza andare a fare una ricerca, non sapreste indicarmela. Il fatto è che l’Italia è il paese dei Verdi e dei Monteverdi, dei Donizetti e dei Rossini (e mi fermo qui) e mentre il Regno di Napoli aveva un inno scritto da Paisiello (e scusate se è poco) l’Italia ne ha uno scritto da tale Michele Novaro, direttore di banda!
A dire il vero c’è un inno di Giacomo Puccini, uno dei massimi autori della musica italiana, su testo (adattato in italiano) tratto da Orazio: l’Inno a Roma. Non nacque come inno nazionale, ma fu talvolta utilizzato come tale durante il fascismo. Ebbene, l’Inno a Roma è stato boicottato, bollato come fascista e quindi fatto dimenticare, tanto è vero che praticamente lo si ascoltava solo nei comizi del Movimento Sociale Italiano. Il fatto è che però non ha niente a che fare col fascismo, essendo stato scritto nel 1918 (ricordo che il Partito Nazionale Fascista è andato al potere nel 1922), su commissione del Comune di Roma, ma la stupidità dell’antifascismo attuale è tale da inventarsi addirittura la panzana che il povero Puccini, costretto da Mussolini (nel 1918!) non poté rifiutarsi di scrivere un inno per il PNF e quindi adattò stancamente l’Inno a Diana, che aveva già scritto, cambiandone le parole. Se volete una riprova, andate su YouTube, ascoltate l’Inno a Diana, dedicato ai cacciatori e vi renderete conto di quanto i due inni siano diversi. Insomma, l’Inno a Roma non ha niente a che fare col fascismo e potrebbe essere utilizzato con molto maggior gusto e appagamento per le orecchie. Purtroppo, la stupidità imperante è tale che si preferisce la musica di un maestrucolo di banda allo spartito di uno dei massimi compositori mondiali.
Concludendo, non si può negare che ci manca un riferimento simbolico, iconografico o musicale, semplicemente perché ci manca una tradizione comune, una tradizione che ci abbia legato tutti.
Tornando alla questione iniziale, dicevo che la cultura del passato è una cultura fondamentalmente statica: statica geograficamente, ma statica anche socialmente. Una cultura che apprezza la staticità: c’è un motto che tutti conoscete, «moglie e buoi dei paesi tuoi». Cosa significa? Significa che è meglio che io sposi una del mio paese e non una “straniera” che vive… nel paese a fianco o due paesi più in là! In passato, in certi luoghi, è stato un principio molto radicato (ad esempio, il primo matrimonio tra un caprese e un’anacaprese si è avuto solo all’inizio del ventesimo secolo!).
Al di là di casi estremi, la persona che vive un po’ troppo lontano viene vista in maniera non particolarmente positiva. E nemmeno il vicino che l’ha impalmata (pensate al disprezzo che circonda – assieme all’invidia – il personaggio maschile protagonista di una delle Novelle della Pescara di Gabriele d’Annunzio, La Contessa di Amalfi, il gentiluomo che sposa la bella cantante che viene da fuori, la cantante “di giro”. Don Giovanni Ussorio, invidiato perché ha sposato una bellissima donna, viene anche disprezzato perché non è stato capace di trovarsi una moglie, una vera moglie, a Pescara e si è trovato questa “straniera”. Che “ovviamente” l’ha piantato alla prima occasione (cosa che non sarebbe accaduta con una «dei paesi suoi»).
La stanzialità è apprezzata non soltanto dal punto di vista geografico, ma anche da quello sociale: i “paesi tuoi” sono non soltanto il paese fisico di provenienza, ma anche lo stato sociale. Un matrimonio troppo diverso non piace a nessuno, né alla famiglia che riceve la persona che viene da fuori, né ha alla famiglia che cede la persona.
La fiaba dello zar Saltan, celebre leggenda russa scritta da Puškin e musicata da Rimskij-Korsakov (quella del famoso Volo del calabrone, per intenderci), per certi versi simile a Cenerentola, ma più adatta al nostro discorso, narra di tre sorelle contadine che fantasticano tra di loro. La prima afferma: «Se sposassi lo zar, gli preparerei il più bel banchetto del mondo». La seconda: «Se sposassi lo zar, gli tesserei la più bella tela del mondo». La terza «Se sposassi lo zar, gli darei il più bel figlio del mondo». Caso vuole che lo zar Saltan stia proprio passando davanti alle loro finestre e senta quello che hanno detto: quindi sposa la terza contadinella e da ciò nasce una serie di problemi.
La fiaba dello zar Saltan è molto bella come opera lirica ed è interessante come storia; però, per essere concreti, immaginiamo un evento più semplice: la figlia di un contadino che sposa un gentiluomo di città. Ah, che bello, ha fatto un salto di qualità! La ragazza sarà certamente bellissima, e con molta probabilità il gentiluomo l’avrà sposata soltanto perché affascinato della sua avvenenza, però poi rischierà di non apprezzarla, perché presumibilmente sarà priva di altre doti importanti all’interno di un matrimonio aristocratico, come ad esempio il modo di comportarsi in società, in cui ella si troverà a disagio, come il classico “pesce fuor d’acqua”.
All’interno della propria famiglia, inoltre, il gentiluomo sarà guardato male, perché invece di sposare una persona dello stesso rango e rafforzare socialmente il proprio “clan”, ha sprecato tale possibilità accasandosi con una persona di basso livello.
Dal canto proprio, la famiglia del contadino considererà la figlia come persa: non si gioirà perché «ci siamo imparentati con il barone Tal dei Tali», ma ci si lamenterà perché «abbiamo perso nostra figlia». Il padre non è contento che la figlia sia diventata baronessa; anzi, con un matrimonio di pari grado, sarebbe diventato padre anche del genero e rispettato da lui; invece in questo caso si trova imbarazzato di fronte a un genero così importante. Quindi questa mobilità sociale gli creerà problemi: non potrà chiedergli di aiutarlo a lavorare la terra, come avrebbe potuto fare se la figlia avesse sposato il figlio del contadino confinante, facendo così ingrandire l’azienda familiare. Invece, ha perso una figlia che avrà anche imbarazzo nel rivedere. Perché, andando a trovarla nel palazzo di città, sarà guardato con disprezzo dagli stessi camerieri e ciò gli creerà un imbarazzo che cercherà di evitare in futuro.
Quindi, la mobilità geografica e sociale, ripeto, fino a qualche decennio – diciamo fino a un secolo – fa, era vista come qualcosa di estremamente negativo, da evitare quanto possibile. E allora, essendo radicati per generazioni e generazioni in una determinata terra, il concetto di patria, di terra dei padri era perfettamente chiaro.
Adesso la situazione sta cambiando, appunto, perché c’è questa mobilità. E poi c’è un ulteriore grave problema costituito dai cosiddetti “migranti”. Cosa dice la dottrina della Chiesa a proposito delle migrazioni? Facciamo parlare San Tommaso, che afferma che chi viene da fuori deve essere accolta con gentilezza. Se si comporta bene, ovviamente. Il primo esempio che fa è quello dei pellegrini, aiutare i quali costituisce una delle sette opere di misericordia. I pellegrini che stanno facendo qualcosa di intrinsecamente buono e importante, nel loro viaggio verso le Terra Santa, verso Roma, piuttosto che verso Santiago di Compostela, devono essere aiutati.
Però gli stranieri che decidono di fermarsi devono essere rispettati nel momento in cui a loro volta rispettano le tradizioni e la cultura in si trovano: cioè non devono pretendere di portare e imporre la loro cultura, ad esempio facendo rimuovere il crocifisso dalle aule o impedendo di fare il presepio adducendo che ai musulmani o agli atei possa dare fastidio; né noi, a nostra volta, dobbiamo imporci una “autocensura”, evitando di parlare di vacanze di Natale o di Pasqua, bensì di vacanze d’inverno e di primavera. San Tommaso dice che gli stranieri devono rispettare le usanze del luogo e – attenzione, perché questo è un passaggio che si lega al diritto nobiliare – se decidono di fermarsi, rispettando le tradizioni locali, possono essere considerati come i locali nel momento in cui arrivano alla terza generazione.
Ora questo perché questo elemento della terza generazione che ricorre, come accennavo, anche nel diritto nobiliare? Perché, come voi sapete, la nobiltà si guadagna non semplicemente con un decreto regale o di altra fons honorum (Gran Maestro, Monarca, Principe, eccetera), ma con una vita vissuta per più generazioni more nobilium.
Immaginiamo che io sia un qualunque quivis de populo, che però guadagno benemerenze nei confronti del Monarca per un qualsiasi motivo, ad esempio militare o culturale. Mi viene concesso il titolo di principe di Monte Nebbioso. Sono titolato? Sì: sono il principe di Monte Nebbioso. Sono nobile? No, non ancora. Lo sarà mio figlio? Nemmeno. Mio nipote? Già iniziamo ad avvicinarci. Potrà considerarsi nobile nel momento in cui sono 100 anni dall’erogazione del titolo. Perché?
Non è semplicemente una scadenza burocratica, bensì una questione relativa alla educazione che si riceve nel momento in cui la persona vive con l’esempio di persone che vivono more nobilium.
In una famiglia normale, tradizionale, si vive tutti assieme. Tant’è vero che se voi andate a guardare i censimenti realizzati nell’articolo regime, come i Catasti onciari, non si parla di numero di abitanti, bensì di fuochi. Che significa questo termine? Il fuoco è il focolare: indica quindi il nucleo familiare. Quindi quando leggiamo che ci erano, ad esempio, 500.000 fuochi nel Regno di Napoli nel ’500, non significa che c’erano 500.000 persone, bensì 500.000 famiglie e quindi dovremmo almeno quintuplicare il numero (se non più) per comprendere quanti fossero gli abitanti, perché la famiglia non era quella mononucleare dei nostri giorni, ma riuniva varie generazioni intorno al capofamiglia, generalmente un nonno e/o una nonna che viveva con figli e nipoti.
Ebbene, in una situazione come questa, in cui io vivo normalmente con mio padre e con mio nonno (o comunque frequento spesso anche quest’ultimo), se non addirittura con il bisnonno (ma è un caso più raro), crescendo al loro fianco e venendo da loro educato, subendo il loro esempio, quando assumo il titolo Principe di Monte Nebbioso, inizio a vivere more nobilium. Mio figlio seguirà (e subirà) l’esempio mio, che però fino all’altro ieri non ero ancora Principe, e quello del nonno, che Principe non lo è mai stato. Sarà solo mio nipote che nascerà e si ritroverà in casa padre e nonno che hanno vissuto (il nonno non da sempre) more nobilium. E quindi a quel punto in lui matura questa nobiltà. Ecco cosa s’intende per nobiltà generosa, ex genere: che giunge dalla nascita e non da una concessione regia diretta.
Ecco perché per entrare nell’Ordine di Malta un tempo erano necessari 200 anni (e non solo 100 anni) di nobiltà sui quattro quarti. Ma perché ritorna questo numero 100? In alcuni casi – con certezza nell’Ordine di Santo Stefano –, una volta effettuata la richiesta d’ingresso, si sceglievano due Cavalieri di provata fede che in incognito andavano nel paese dove abitava il candidato a controllare le origini della famiglia, interrogando gli anziani e informandosi su chi fossero stati i nonni (quindi risalendo più o meno a 100 anni prima) da chi poteva aver conosciuto, direttamente o indirettamente, la qualità degli antenati, per assicurarsi se il candidato possedesse non un titolo, ma la nobiltà; e se questa avesse maturato l’anzianità necessaria per poter entrare nell’Ordine cavalleresco.
Quindi il criterio delle tre generazioni era necessario per maturare la nobiltà “generosa” attraverso l’educazione e l’esempio ricevuto in famiglia; nel caso invece del collegamento alla patria, è ritenuto da San Tommaso necessario per sviluppare un attaccamento al territorio. Non è un caso che gruppi etnici che storicamente non hanno sviluppato un attaccamento al territorio – come gli zingari e gli ebrei – sono sempre stati visti considerati in maniera negativa. Perché? Perché né gli zingari (i nomadi per eccellenza), né gli ebrei (popolo della diaspora che riconosce come propria patria esclusivamente Israele) si sentono legati ai territori in cui vivono e che sono portati a sfruttare finché conviene, pronti eventualmente a spostarsi dopo averne esaurite le risorse. Non è un caso che l’antisemitismo più forte e radicato si sia sviluppato non in Europa occidentale (dove semmai ha prevalso un antigiudaismo rivolto alla religione, non alla razza), ma in Europa orientale, dove vivevano numerose e floride comunità ebraiche, che sfruttavano il territorio anziché cercare di valorizzarlo e di conseguenza lo danneggiavano. Ad esempio sfruttando intensivamente il taglio dei boschi cedui, comprando i diritti d’uso, tagliando tutti gli alberi anziché soltanto un terzo per anno, vendendo il legname per poi trasferirsi e lasciare le popolazioni locali in balia delle frane e degli smottamenti che si verificavano per il taglio eccessivo (cfr. C. Z. Codreanu, Per i Legionari. Guardia di Ferro).
È “normale” se non c’è un rapporto duraturo con il territorio in cui si abita, se mancano le radici in esso, e se si considera il luogo in cui momentaneamente si risiede come luogo da sfruttare al massimo nel minimo tempo possibile.
Invece, se ci si radica a lungo in un territorio, si finisce per amarlo. Io, ripeto, se parlo di patria, parlo inizialmente di patria locale, minima. Che può essere, ad esempio, il palazzo di famiglia o quello in cui si è nati e vissuti fin da piccoli. Poi, piano piano, posso allargare il mio affetto, il mio attaccamento al territorio, alla città in cui vivo, quindi allargarlo ulteriormente alla provincia, alla regione, infine allo Stato e poi, eventualmente a tutto il resto. Maurizio Veneziani, nel suo testo L’amore necessario (che nonostante il titolo e l’argomento contiene per certi versi più argomenti politici di altri suoi testi di argomento direttamente politologico), afferma che non si può amare l’umanità, se non si ama prima chi è vicino: la famiglia. la moglie, i figli, i genitori; allargando solo poi il proprio affetto a tutto il resto. Chi dice: «io amo tutti», finisce per non amare nessuno.
Questo appiattimento dovuto all’universalità dell’affetto, che in nome di un amore assoluto, verso tutti – e quindi astratto – cancella quello concreto verso i membri della propria famiglia, riecheggia la differenza che esisteva tra il ruolo politico esercitato dal capofamiglia (il capo del fuoco) di una volta, che, in quanto rappresentante della famiglia partecipava attivamente alla vita politica dell’antico regine, perché gli veniva riconosciuto un ruolo; e il “cittadino” attuale, monadizzato, che in realtà esprime il voto una volta – più o meno – ogni 5 anni: un voto che di fatto non vale niente (anche perché le elezioni attuali sono caratterizzate dalla mancanza di mandato, per cui la persona che voto non è tenuto a rappresentarmi, ma questo lo vedremo in seguito, parlando del diritto e della monarchia). Tornando alla questione della patria, se affermo di essere “cittadino del mondo”, e di “amare tutti quanti”, di fatto amo solo me stesso e non riesco ad amare nessun altro.
È solo l’amore per la piccola patria a permettere e determinare l’amore per la parte media e per la patria grande.
Per determinare la patria, però, abbiamo un duplice problema: uno che riguarda la patria “piccola” e le ultime generazioni, dovuto alla mobilità “geografica” che abbiamo visto.
E l’altro che riguarda la patria “grande” e che risale a oltre un secolo e mezzo fa. Perché quella che dovrebbe essere la nostra patria, l’Italia, dobbiamo ammetterlo, purtroppo nel 1860 è nata male.
Innanzitutto perché è nata contro la religione. Quindi, nonostante il motto di Manzoni («Una d’armi, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor») l’unità d’Italia è stata realizzata contro l’altare, e quindi manca un elemento fondamentale (che adesso peraltro si sta ulteriormente sfaldando: perché, ripeto, se ci sono proteste sull’uso dei simboli religiosi in classe e vengono accettate, anziché venir immediatamente respinte, è segno di un grave problema).
È quindi importante creare un legame concreto a un territorio, più o meno ampio, che permetta poi di passare a riversare il proprio affetto “patrio” dal territorio più piccolo dove (anche se per tempi che rischiano di essere sempre più brevi) viviamo effettivamente a quello più vasto che lo circonda. Va detto che, per fortuna, non tutti sono agenti di commercio, che devono girare sempre o grandi manager che lavorano dal lunedì al mercoledì a Hong Kong, dal giovedì al venerdì a New York e poi ritornano il sabato a casa: la maggior parte delle persone ha una vita – per fortuna! – più stanziale, quindi riesce a concretizzare il proprio il proprio attaccamento.
Questo legame fondamentale con la piccola patria permette e determina poi il collegamento e l’amore per la patria più grande che, per chi ha la mia sensibilità, è più chiaramente individuabile nel Regno di Napoli e poi nelle Spagne, mentre per tanti altri può essere nell’Italia e quindi nell’Europa: in ogni caso, non si può mai realizzare concretamente l’amore verso la grande patria, se non si ama profondamente la propria terra.
Gianandrea de Antonellis