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Il terzo lemma carlista: i Fueros (2)

Posted by on Mar 19, 2025

Il terzo lemma carlista: i Fueros (2)

La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja, mischiando cioccolato, caffè e latte, per stimolare, irrobustire e addolcire. La presente rubrica intende rivolgersi al lettore stimolandolo con il caffè delle considerazioni, irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto, rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.

Abbiamo prima parlato di Monarca, di Sovrano, di Re. Nel prossimo capitolo vedremo che questi termini, utilizzati normalmente come sinonimi, in realtà non lo sono. Per ora non entriamo nella questione, ma limitiamoci al solo termine Sovrano.

Se io pronuncio la parola Sovrano, la maggior parte di noi, come prima cosa, immagina una testa coronata. Però Sovrano non è semplicemente un Re, ma è un essere soprano, cioè superanus, cioè un essere “che sta al di sopra”. Di che cosa? Della legge. Perché? Perché la crea. E se la crea, ne sta al di sopra. E quindi è assoluto, dal latino absolutus, cioè è sciolto dal rispetto della legge stessa, perché, appunto, la crea. Se la crea, la fa a suo piacere e quindi ne è – ripeto – al di sopra. Non è costretto a seguirla perché in qualsiasi momento può modificarla a proprio capriccio.

Se noi pensiamo a un “Sovrano assoluto”, la prima immagine che ci viene quasi naturalmente in mente è quella di Luigi XIV e pensiamo che tutti i Re, più o meno, siano tali. In più, pensiamo che la rivoluzione francese abbia posto fine all’assolutismo e finalmente abbia portato la giustizia dappertutto. Non è così.

Iniziamo a dire che i termini sovrano e assoluto, anche se vengono utilizzati come endiadi, sono di fatto sinonimi, perché se si sta al di sopra della legge si è sciolti da essa, quindi dire sovrano o assoluto è praticamente la stessa cosa.

Peraltro il sovrano (ma sarebbe meglio dire monarca) dell’antico regime – sicuramente nelle Spagne, un po’ meno in Francia, dove era iniziato un processo di accentramento – era molto meno “assoluto” di quanto pensiamo, essendo sottoposto a una serie di vincoli: al di sopra di sé aveva la legge (quella naturale e quella divina) e al di sotto era limitato dai “corpi intermedi”. La rivoluzione francese non elimina affatto il problema dell’assolutismo, che andava a mano a mano crescendo, bensì, semplicemente, cambia il soggetto assoluto, che non è più il Re, ma diventa prima l’Assemblea costituente, che si pone ufficialmente come soggetto assoluto, poi diventerà il Comitato di salute pubblica di Robespierre, quindi il Direttorio, poi il Consolato a tre, poi il Consolato unico di Napoleone che infine si trasformerà – “naturalmente” – in “impero” (cambia il titolo, però sostanzialmente Napoleone mantiene tutto il potere che aveva prima).

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Rimaniamo su Napoleone, che è di fondamentale importanza dal punto di vista del diritto per la realizzazione del Codice Napoleone. Perché è importante questo codice, che rappresenta una vera e propria tragedia dal punto di vista giusnaturalista? Perché è stato prima imposto e poi, dopo la cosiddetta “restaurazione” adottato in tutti i Paesi occupati dall’esercito francese e, nei decenni successivi, in quasi tutto il mondo (anche in Giappone!).

E cosa succede con il Codice Napoleone? Più o meno quello che accade con l’imposizione dei tricolori dopo la rivoluzione francese.

Nel precedente capitolo ho parlato della mancanza in Italia di un simbolo comune che sia condiviso e unitario. Si potrebbe sostenere che lo sia il “tricolore”, che ha oltre due secoli (risale al 1797) e che va ormai considerato un simbolo dell’Italia. È vero, ma lo possiamo considerare un simbolo condiviso? Avrei qualche dubbio. Certamente lo possiamo considerare un simbolo dell’unità, ma non un simbolo tradizionale (e io parlavo di simboli tradizionali). Bisogna infatti tenere conto che tutti i tricolori che nascono da quello francese – che siano verticali od orizzontali, è la stessa cosa – vengono imposti in senso anti-cristiano ed antitradizionale da una mentalità massonica, finalizzata a distruggere gli antichi simboli, che generalmente erano monarchici e cristiani.

In Francia il tricolore blu-bianco-rosso sostituì la bandiera con i Gigli, in Italia (dove peraltro non c’era un simbolo unitario, ma tantissimi simboli locali) venne imposto un altro tricolore (sostituendo il blu con il verde) che però, non esistendo una certa idea di Italia tranne che per i cosiddetti italianissimi (cioè i fautori dell’unità) venne inizialmente riconosciuto come proprio simbolo soltanto da costoro (e successivamente anche da chi era favorevole a una federazione e non a una unione come quella che poi si realizzò nel 1860-1861), ma non da tutti gli altri. Il caso più eclatante di questa sostituzione operata da un tricolore è, a mio parere, quello della Lituania, un Granducato quasi millenario che aveva un simbolo bellissimo: un Cavaliere “al naturale” in armatura, montato su un destriero e reggente uno scudo con la croce doppia (la tipica croce lituana con due bracci orizzontali) in campo rosso. Ebbene, quando nel 1919 viene costituita la prima Repubblica di Lituania, anziché utilizzare questo antichissimo simbolo o semplificarlo riducendolo al solo scudo con la croce doppia, proprio per cancellare il simbolo cristiano – la croce doppia – viene sostituito, con mentalità tipicamente massonica, da un tricolore, giustificandolo con una simbologia peraltro attribuita a tutti i tricolori: quello francese rappresenterebbe « Libertà, Uguaglianza e Fraternità», mentre in Italia, forse per accontentare i cattolici, ai tempi la maggior parte della popolazione, verde, bianco e rosso rappresenterebbero «Fede, Speranza e Carità» (nonostante due colori siano uguali a quella francese; è chiaro che si tratta di una simbologia creata ex post, non di un simbolo tradizionale). Fatto sta che ai Lituani fu imposto questo osceno tricolore al posto della Croce. Perché? Perché la croce è un simbolo cristiano e si voleva eliminare qualsiasi simbologia cristiana.

Una mentalità massonico-rivoluzionaria caratterizzata dalla costante idea (o meglio ideologia) di cancellare tutto il passato, di fare tabula rasa e di ricominciare da zero. Questo è assolutamente sbagliato: è sbagliato pensare di fare tabula rasa e iniziare da zero. Anche Troisi lo diceva: ricomincio da tre, se ho fatto tre cose buone nella mia vita, perché buttarle via?

Non è così, però, per la mentalità rivoluzionaria: e noi siamo di fronte alla Rivoluzione – non a un’insurrezione, non a un colpo di Stato – appunto quando ci troviamo di fronte all’idea di cancellare tutto e ripartire da zero.

In Francia ciò è evidente nella scelta della bandiera e del sistema metrico, che doveva essere applicato anche all’orologio. Noi riteniamo che il sistema metrico sia più comodo, non lo nego, però è una questione di abitudine. Infatti siamo abituati ad avere ore di 60 minuti e minuti di 60 secondi. Il sistema proposto dai “decimalisti”, chiamiamoli così, proponeva avere giorni di 10 ore decimali (equivalenti a 2 ore e 24 minuti, ovvero 144 minuti), ore di 100 minuti decimali e minuti di 100 secondi decimali (ogni secondo di questi tipo sarebbe equivalente a 0,864 secondi comuni). Decimalmente parlando, ad esempio, la nostra riunione si svolge dalle 4,4 alle 5: chiaro, no? Probabilmente, se fosse passato questo sistema, ci saremmo abituati e lo riterremo il più chiaro; mentre adesso, se dico invece che ci vediamo dalle 11 a mezzogiorno, risulto immediatamente chiarissimo a tutti quanti.

Insomma, è una questione di abitudine. Ora, torniamo al problema dell’errore di cancellare tutto e ripartire da zero, che è un errore che si fa sempre, quando si cancella tutto e si riparte da zero. Vi scandalizzerò, dicendo che anche la Costituzione – qualsiasi costituzione – è un modo per cancellare tutto e partire da zero. E ed è un modo di agire ed il simbolo della mentalità rivoluzionaria, che ovviamente la Chiesa non riconosce, perché desidera al contrario valorizzare la tradizione.

Allora, cosa succede con il Codice Napoleone? Che tutte le leggi passate vengono cancellate e viene creata una – ovviamente nuova – legislazione ex nihilo. Peraltro, il Codice viene creato a Parigi, (dove magari andava benissimo, ma poteva già non andare più bene in Normandia, in Provenza o in Vandea) e viene poi esportato in tutto il mondo. Tra l’altro allora, all’epoca di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, fu esportato anche a Napoli, tradotto in italiano e quindi imposto come Codice del Regno di Napoli, anzi delle due Sicilie (così chiamato già da Murat). L’errore – gravissimo! – fatto dalla erroneamente detta “restaurazione” (che in realtà non restaurò quasi niente) fu quello che, invece di restaurare – appunto – il vecchio diritto napolitano, diritto di secolare memoria creato da una delle più importanti scuole giuridica d’Europa (e quindi del mondo), lo stesso Codice Napoleone venne accettato, cambiandogli semplicemente il nome e il frontespizio, chiamandolo ferdinandeo, con l’unica differenza di eliminare gli articoli riguardanti il divorzio. Per il resto, è lo stesso codice napoleonico, che cancella il secolare diritto napoletano vigente fino a pochi anni prima.

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Passiamo ora a un livello più generale.

Abbiamo detto che viviamo in un certo mondo e, anche se in linea teorica non ci riconosciamo interamente nei suoi valori, di fatto finiamo per trovarli normali e quindi accettarli. Ad esempio, spesso ragioniamo come giuspositivisti perché ci confrontiamo con un mondo giuspositivista (anche se, fermandoci con attenzione a considerare la situazione, propenderemmo per il giusnaturalismo). Altri esempi: possiamo non essere statalisti, ma viviamo in un mondo statalista, e siamo portati ad accettare tutte le imposizioni che ci vengono dal vertice dello Stato (leggi, tasse, balzelli, regolamenti, etc.); così possiamo non essere comunisti, ma abitiamo in un mondo che di fatto è post-comunista, che esalta l’egualitarismo e critica l’eccessiva proprietà privata, per cui confessare di vivere di rendita o di far differenze (non discriminare, semplicemente differenziare) tra i sessi, tra le classi, tra le culture (non parliamo delle razze e delle religioni!) ci mette in forte imbarazzo.

Insomma, esiste una serie di elementi ideologici che, essendo molto diffusi, finiscono per determinarci, anche se non condividiamo quella particolare posizione ideologica. In altre parole, la mentalità del nostro tempo finisce per assuefarci o determinarci.

Questo comporta, tra l’altro, nel ritenere che la nostra mentalità sia interamente applicabile anche ai tempi passati. Si tratta di un problema dovuto a ciò che io definisco, sulla base di Bacone, idola temporis. Bacone sosteneva che la cognizione è limitata da una serie di idola che potremmo definire specchi o lenti deformanti che ci impediscono di vedere la realtà effettiva, come un vetro opaco o smerigliato che deforma la realtà e quindi non ci permette di conoscerla perfettamente.

Da uno dei quattro idola di cui parlava Bacone (specus, tribus, fori e theatri), gli idola tribus, io estrarrei gli idola temporis, lo specchio deformante del tempo (o, meglio, del nostro tempo): vale a dire che siamo spinti a ritenere che in passato i nostri avi ragionassero con le stesse categorie utilizzate da noi adesso, mentre invece ragionavano in maniera completamente diversa, molto distante (per fortuna) dalla nostra e noi dovremmo cercare di riprendere quella mentalità.

Un’accusa che si rivolge ai tradizionalisti è spesso quella di affermare: «voi volete vivere come nel Settecento o nel Seicento». No: io sono certamente un tradizionalista, ma non sono un pazzo che pretende di rinunciare ad auto e treni affinché tutti vadano in giro a cavallo, di rinunciare al computer (che sto usando adesso per scrivere e che poi sarà utilizzato per impaginare questo libro) per tornare a scrivere con la penna d’oca: sarei folle, se lo volessi. Personalmente, apprezzo molto le comodità del presente, questi strumenti che mi permettono di perpetuare, con la registrazione, un concerto o un’opera lirica e permettermi di riascoltarli all’infinito; gli odierni mezzi di trasporto che ci percorrere in poco tempo grandi distanze che un tempo prevedevano giorni e giorni (se non mesi) di viaggio; e via enumerando. Nessun serio tradizionalista critica la modernità tecnologica. Del Seicento noi tradizionalisti vogliamo però applicare alla tecnologia attuale la mentalità, di alto livello religioso e culturale, estremamente superiore a quella di basso livello ed economicistica che abbiamo ai nostri tempi (perché ai nostri giorni siamo tutti – anche in questo – post qualcosa: e in particolare siamo post-marxisti, pur senza volerlo essere, e ragioniamo come se tutti calcolassero esclusivamente in funzione economicista).

Di conseguenza, siamo portati ad applicare la mentalità del nostro tempo al quello passato e a ritenere che nei secoli passati tutti ragionassero come noi adesso.

Vi ho detto che la rivoluzione francese non ha determinato l’abolizione dell’assolutismo; anzi, ha comportato un aggravamento dell’assolutismo, tanto è vero che noi siamo in questo momento in uno Stato assoluto, anche se non lo consideriamo tale. Ma questo non è forse uno Stato democratico? Allora non può essere assoluto! Non è vero: uno Stato può essere sia democratico che assoluto.

Parliamo ad esempio dell’Italia: vi esiste, attualmente, un soggetto assoluto? In realtà, ragionando da giuspositivisti (e quindi negando il valore del diritto naturale e di quello divino), ne esistono due. Uno è il Papa: il Pontefice, che crea la propria legge, è un soggetto sovrano e assoluto (che abbiamo detto essere la stessa cosa). E l’altro? L’altro è il legislatore. Un mio professore, Pier Giusto Jaeger, ci diceva: «Voi pensate che il legislatore sia un anziano barbogio e canuto che vive in un’alta stanza del palazzo del ministero della Giustizia, circondato da libri antichi, che ogni tanto prende un grosso tomo e con una penna d’oca scrive la nuova legge. No, il legislatore è, sostanzialmente, il Parlamento». Le Camere, infatti, creano giorno dopo giorno la legge come l’ha creata Napoleone col suo Codice, come l’hanno creata tutte le costituzioni. Tutte le costituzioni moderne, partendo dallo Statuto Albertino, sono invece costituzioni di tipo assolutistico e normativo – e, di fatto, rivoluzionarie: cioè cancellano il passato e partono da zero. Questo, ripeto, è il vero spirito della rivoluzione.

Ora, visto che viviamo in uno Stato in cui il legislatore attuale, cioè il Parlamento, può creare, disfare e rifare la legge a suo piacere, secondo l’interesse del momento (ovvero: a suo capriccio), senza rispettare la legge naturale che non considera nemmeno esistente, possiamo ben dire che siamo di fronte a uno Stato assoluto, che crea la legge, appunto, a capriccio.

Allora, se vi chiedo: «come venivano fatte le leggi nel Medioevo?», a meno che non abbiate compiuto studi specifici in proposito, voi immediatamente pensate – idola temporis… – che, in assenza di un Parlamento che crea la legge a capriccio, ci sarà stato il Re che, altrettanto a capriccio, a seconda di come si alzava la mattina, se era nervoso oppure no, faceva una legge o un’altra, qualsiasi legge, per aberrante che fosse, tanto era il Re e il Re era sovrano.

No. Il Re non era sovrano, non si trovava al di sopra, bensì al di sotto della legge, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, a proposito dell’istituto monarchico. E allora, come nasceva la legge? Se non scaturiva dal capriccio del sovrano, che. a seconda di come si alzava la mattina, creava una legge buona o cattiva per i sudditi?

Ebbene, allora la legge scaturiva dal basso, anche se alla maggior parte di noi può sembrare strano. Ma è proprio così: la legge era stabilita sostanzialmente dal popolo; ovvero, la facevamo noi. Come? Attraverso l’uso che poi diventava consuetudine. Mi spiego: con gli anni si inizia a fare una cosa, una qualsiasi cosa. Ad esempio, una fiera: bene, qui da noi, la fiera la teniamo il giovedì. E quindi iniziamo a spargere la voce, ripetiamo più e più volte la riunione, per cui si crea l’uso e ogni giovedì arriviamo tutti con gli armenti e le masserie varie e si tiene la fiera.

Con il tempo, l’uso che ci sia la fiera di giovedì diventa una consuetudine. Ovvero, reiterando un’abitudine concreta, dall’uso iniziale si passava alla consuetudine, all’uso consuetudinario. A questo punto, se tutti seguono la consuetudine, non sorge alcun problema e non c’è bisogno di una legge scritta. Ovviamente è tutto orale, tutto “di fatto”. Però, nel momento in cui dovesse sorgere una contestazione (perché c’è qualcuno che vorrebbe tenere la fiera il venerdì, qualcun’altro il mercoledì, qualcuno che non vuole che il giovedì si tenga la fiera, perché pretende che la strada debba essere completamente libera, perché deve passare con il suo corte…), ci si rivolge a un’autorità superiore (un giudice, un alto funzionario, il Monarca, a seconda della gravità e della natura dell’istanza) e questa emette una sentenza che ha forza di legge o addirittura emana una legge che riconosce la consuetudine e la codifica definitivamente. E quindi la consuetudine diventa una legge ufficiale del Regno, venendo stabilita per iscritto, mentre prima non se ne sentiva la necessità, perché tutti si adattavano e nessuno la contestava.

Ora questo capitava dappertutto e per tutto: lo abbiamo visto, ad esempio, nel mondo delle “leggi” non scritte che regolano l’etichetta scoiale, il bon ton. Lo vediamo anche in un altro tipo di diritto, il diritto nobiliare. Attualmente, se vogliamo farci riconoscere un determinato titolo (ad esempio di Patrizio di una determinata Città), dobbiamo adire il tribunale nobiliare del CNI piuttosto che rivolgerci all’Ordine di Malta, se ne facciamo parte, perché ci venga riconosciuto. Il diritto nobiliare cinque-seicentesco prevedeva invece un procedimento inverso. Cioè non sono io che adisco il tribunale perché mi venga riconosciuto il diritto, ma è il tribunale che mi chiama a dimostrare il mio preteso diritto, perché il mio primo atto sarà quello di mettere sul portone del mio palazzo lo stemma della mia famiglia con la corona di Patrizio. Se nessuno lo contesta, verrò riconosciuto di fatto come Patrizio; se qualcuno lo dovesse contestare (e a quel tempo accadeva quasi sempre), allora sarò io a dover dimostrare, dopo essere stato chiamato dal tribunale, il diritto a utilizzare quel titolo. Quindi anche il diritto nobiliare seguiva il principio dell’uso e della consuetudine.

Rimaniamo nell’ambito nobiliare e dell’Ordine di Malta in particolare. Vi parrà strano, ma non esiste alcun regolamento che preveda la definizione della divisa di volontariato, composta da camicia bianca, cravatta scura, giacca, basco e pantaloni neri e una serie di medaglie poste in una certa maniera, molto diverso, ad esempio, da quello dei cavalieri della “lingua” di Germania. Anche il nostro abito da chiesa è diverso da quello, ad esempio, degli Spagnoli (che è molto più elegante, perché prevede la gorgiera, i guanti di filo e, per i cavalieri di giustizia, anche la spada).

C’è un cavaliere mio parente che ha fatto una lunga ricerca, dopo essere rimasto colpito dal fatto che nei pellegrinaggi internazionali le varie “lingue” hanno una divina diversa, senza riuscire a trovare uno straccio di decreto o di circolare in tale senso. E gli sembrava assurdo: «Come facciamo – mi diceva – a non avere un regolamento in cui sia scritto come dobbiamo vestirci?» «Scusa, ma nella vita quotidiana tu non vai in giro nudo, perché manca un regolamento che indichi come ti devi vestire!».

Così, nell’Ordine, si è imposto un uso, poi divenuto consuetudinario, che non abbisogna di regolamentazione scritta per cui ci appuntiamo le varie medaglie dei diversi pellegrinaggi (internazionale a Lourdes e nazionale a Loreto) vicino al taschino della giacca e chi ha partecipato a più pellegrinaggio ed ha più medaglie, occulta le altre nel taschino e mostra solo quella del pellegrinaggio in questione. E poi abbiamo un’altra regola – sempre non scritta – secondo cui quando facciamo il pellegrinaggio delegatizio le tiriamo fuori tutte quante, per divertirci, perché risulta simpatico.

Ha senso esporre nei pellegrinaggi nazionale e internazionale solo la medaglia relativa e poi mostrarle tutte in quello delegatizio?

Sì, perché in un ristretto circolo è poco più che uno scherzo, mentre nei due principali pellegrinaggi, è importante far comprendere se si è veterani oppure no, perché se vedo una lunga serie di nastri, non riesco a riconoscerli immediatamente, se invece vedo esposta solo quella del Pellegrinaggio in corso, capisco subito se sono di fronte a un veterano oppure no. E allora, se incontro un cavaliere privo di medaglia, è inutile che perda tempo a chiedergli: «che cosa devo fare adesso?» oppure: «dove si trova il tal posto?», perché, se è la prima volta che partecipa, forse ne sa quanto me; invece, se vedo che ha la medaglia, magari corredata sul nastrino di stellette che dimostrano che c’è stato tante volte, allora certo mi saprà dare una risposta.

In generale tutti gli usi che giungono a consolidarsi in una consuetudine posseggono una logica e sono utili, a differenza della legge creata ex novo, secondo il capriccio del legislatore. La legge che si forma dal basso e che viene in seguito riconosciuta, è qualcosa di utile, che serve effettivamente: perché metterci una divisa, ad esempio, ci serve per distinguerci da quelli che non fanno parte del dell’Ordine; che il giovedì sia divenuto il giorno della fiera grazie a una consuetudine, indica che probabilmente è più utile per tutti rispetto al mercoledì o al venerdì. E questo fa sì che il diritto antico, il diritto tradizionale, fosse un diritto sostanzialmente molto utile e logico, a differenza di quello attuale, che è un diritto assolutistico, imposto per capriccio e spesso del tutto inutile, se non dannoso.

Ad esempio, attualmente i problemi concreti del nostro Paese sono la difficoltà di metter su famiglia, di comprare una casa, di trovare lavoro; e poi l’insegnamento, la viabilità, i trasporti, la sanità…: questi sono i veri grandi problemi del nostro Paese, non certo il capriccio di chi è un maschio e vuole farsi chiamare con un nome da femmina o viceversa! Però il Parlamento perde tempo in queste – lasciatemelo dire – idiozie (e sono gentile a dire idiozie) o simili aberrazioni. Perché esiste una lobby omosessualista che vuole distruggere la cultura e la civiltà cristiana (e cattolica in particolare), e quindi spinge affinché il Parlamento legiferi su questioni aberranti, anziché su problemi molto concreti, molto importanti, che dovrebbero occuparlo dalla mattina alla sera.

Concludendo, ribadisco che:

1. Il concetto di “cancellare tutto e partire da zero” è una ideologia chiaramente rivoluzionaria, anche nel campo del diritto e direi soprattutto nel campo del diritto, perché il diritto uniforma di sé il resto della società.

2. La Chiesa riconosce il diritto naturale come il diritto a cui uniformarsi ed è la migliore interprete del diritto naturale, però non ne è necessariamente l’unica: abbiamo visto che anche i Romani e i Greci hanno potuto creare un diritto di altissimo livello, rispettoso del diritto naturale, anche prescindendo dalla Rivelazione, evidentemente successiva.

3. Il Carlismo (in quanto perfetta espressione della dottrina sociale della Chiesa) pone come proprio terzo lemma «Fueros», inteso come il rispetto delle esistenti leggi tradizionali.

Infatti, all’atto dell’incoronazione nei vari Regni, il Re giurava di rispettare le leggi tradizionali di ciascun Regno (anche a Napoli, in Sicilia, in Sardegna). In particolare in uno dei suoi Regni, in Aragona, i nobili di fronte ai quali giurava, riuniti nelle Cortes, rispondevano in maniera molto particolare. Cioè affermavano: «Noi riconosciamo te che sei più, più alto, più importante di noi, purché tu rispetti noi e il nostro diritto. Altrimenti noi, che da soli siamo meno di te, ma tutti assieme siamo più di te, non rispetteremo il tuo diritto». E in un altro caso, nelle Cortes di Castiglia, all’atto di ricevere certe disposizioni incompatibili con il diritto locale, c’era una formula che si recitava: «si rispetta, ma non si applica». Non si non si era ancora arrivati a definire la legittimità di esercizio, cioè la decadenza del Monarca che non rispetta il diritto, ma si sosteneva che di fronte il Re che voleva imporre una norma non accettabile: «Noi rispettiamo la volontà del Re, ma non la compiamo». Non si compie perché appunto vige un principio giusnaturalista, secondo il quale gli ordini sbagliati, gli ordini criminali, come quelli “superiori” ricevuti dalle SS o dal direttore dell’ospedale che vuole imporre l’aborto ai suoi medici, non devono essere compiuti, perché sono crimini.

Gianandrea de Antonellis

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