30 marzo 1815 – Gioacchino Murat firma il Proclama di Rimini (o di Tolentino?)
Il proclama di Rimini è l’appello, datato 30 marzo 1815, che Gioacchino Murat, insediato sul trono di Napoli da Napoleone Bonaparte, inviò agli italiani chiamandoli alla rivolta contro gli Austriaci e presentandosi come alfiere dell’indipendenza nazionale, nel tentativo di trovare alleati nella disperata battaglia per conservare il suo trono.
Secondo alcuni in realtà il proclama venne emesso da Gioacchino Murat il 12 maggio con la falsa data del 30 marzo e fu rivolto ai Napoletani dopo la disfatta di Tolentino, che segnò di fatto la fine del Regno di Murat.
Il testo del Proclama (in realtà due documenti, uno rivolto ai cittadini e uno ai soldati) è attribuito dalla maggioranza degli studiosi risorgimentali a Pellegrino Rossi, poi patriota di tendenza moderata e cattolica che propugnò un’Italia unica ma federale. Artefice della svolta costituzionale Papa Pio IX e suo primo ministro, finì ucciso dai carbonari alla vigilia della proclamazione della Repubblica romana, nel 1848.
Il Proclama di Rimini colpì positivamente Alessandro Manzoni, che compose una canzone dal titolo omonimo, che tuttavia rimase incompiuta in seguito all’esito negativo della campagna di Gioacchino Murat. Pietro Colletta, invece, che di Murat fu generale e barone, lo definì «…tardo e ridevole sostegno di cadente trono». E probabilmente vedeva nel giusto.
Eppure, se dopo quel 30 marzo accorsero ad arruolarsi con Murat appena 400 volontari, e dopo il 12 maggio pressoché nessuno, il Proclama di Rimini diede inizio ad un dibattito sull’unificazione dell’Italia. E la guerra dell’esercito napoletano contro quello austriaco iniziò ad essere considerato il primo episodio di quel processo.
Joachim Murat-Jordy sulla lama della sua sciabola aveva fatto incidere: «L’onore e le donne». Figlio di albergatori di Labastide-Fortunière (oggi Labastide-Murat, in Occitania), amante della bella vita, si era arruolato per sfuggire ai debiti e alle ire della sua famiglia. Dimostratosi subito combattente nato, dalla gavetta scalò velocemente tutti i gradi fino a divenire un grande comandante di cavalleria.
Fu con Napoleone in tutte le campagne, pur non rinunciando mai alle proprie opinioni, come quando si oppose all’esecuzione del duca di Enghien. Era in effetti un uomo sprezzante del pericolo, pronto ad attaccare anche quando i rischi erano i più grandi. Non dimostrò però grandi doti strategiche, del che ebbe a lamentarsi il generale Savary in occasione dell’ennesimo colpo di testa di Murat nella battaglia di Heilsberg (10 giugno 1807): «… sarebbe stato meglio che egli fosse dotato di meno coraggio e di un po’ più di buon senso!».
Nel 1813, nonostante quell’«onore» inciso sulla sua sciabola, Murat passò agli Austriaci tradendo l’imperatore. Napoleone rimase di sasso: «Non può essere! Murat, al quale io ho dato mia sorella! Murat, al quale io ho dato un trono! È impossibile che Murat si sia dichiarato contro di me». Murat aveva infatti sposato la sorella di Napoleone, Carolina, e da lui era stato creato Re di Napoli.
Invece era proprio così: per salvare quel trono, Murat si era accordato con gli Austriaci, che in cambio della defezione gli avevano garantito di non sostenere il ritorno dei Borboni a Napoli.
Ma nel 1815, durante i “cento giorni” di Napoleone dopo la sua fuga dall’Elba, Murat tentò in ogni modo di riavvicinarsi al cognato; il quale lo respinse, anche se in seguito si rammaricò di non averlo avuto a Waterloo. Tornato a Napoli e non fidandosi dell’Austria, invase lo Stato Pontificio e la Toscana con circa 35 mila uomini.
Dopo il Proclama di Rimini, o comunque dopo il 30 marzo, l’avanzata di Murat proseguì fino al Po; proprio oltre quel fiume il Re di Napoli sperava di trovare il maggior appoggio delle popolazioni, che tutto sommato contente degli ultimi anni trascorsi con il governo del napoleonico Regno d’Italia stavano ora per ritornare sotto gli Asburgo. Ma Murat non riuscì a passare; battuto a Occhiobello dagli Austriaci, fu ricacciato di scontro in scontro lungo la penisola, fino alla sconfitta di Tolentino del 12 maggio. E forse fu solo allora (secondo Giuseppe Campolieti, in “Il re lazzarone”) che Murat fece stampare il Proclama.
Fuggito rocambolescamente fino in Corsica, saputo della catastrofe di Waterloo e con una taglia di 48 mila franchi sulla testa, ancora una volta Gioacchino Murat uso più il coraggio che il buon senso. Spronato dagli ultimi seguaci, che gli fecero credere di un grande malcontento della popolazione per il ritorno dei Borboni, tentò uno sbarco con poco più di 200 uomini in Calabria.
Preso, fu condannato a morte per ordine espresso del Re Ferdinando IV di Borbone.
Murat si comportò da coraggioso fino all’ultimo. Compilò con tutta calma le sue ultime disposizioni, pretese assicurazioni scritte riguardo la salvezza della sua famiglia e davanti al plotone di esecuzione chiese e ottenne i privilegi degli ufficiali comandanti: non essere bendato e dare lui stesso l’ordine del fuoco. E anche le sue ultime parole, a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815, furono quelle che un soldato d’«onore» doveva pronunciare: «Sauvez ma face, visez mon cœur, feu!», “Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”.
fonte
30 marzo 1815 – Gioacchino Murat firma il Proclama di Rimini (o di Tolentino?) – Chiamamicitta
segnalato da Mirko Brocchi