5 maggio, la morte di un “Grande”
Ricordo che, nella mia lontanissima quinta elementare, la prima, istintiva reazione che ebbi verso la figura di Napoleone Bonaparte, appena illustrataci dalla maestra, fu ostile, di rabbia. Nello stesso momento in cui decisi di detestarlo, però, le mie certezze vennero subito minate dalla stessa insegnante che concluse la spiegazione affermando che, comunque, non si poteva non riconoscerne la grandezza…
Da allora, questa dicotomia di giudizio me la sono sempre portata dentro e, in un certo senso, non riesco a staccarmene ancora. Alla fine, non riuscendo in alcun modo a separare in me stesso un’istintiva ammirazione per il personaggio ed il disprezzo per la sua persona, ho dovuto convenire che, pur non potendolo amare, non potevo non ammirarlo. E, di certo, non sono un giacobino… D’altronde, lo stesso Clemente von Metternich, il suo più irriducibile nemico, dovette riconoscere che Napoleone fu l’uomo più straordinario mai visto al mondo. Adolf Hitler, addirittura, nel 1940, sostò a lungo, in silenzio, ai piedi del suo monumento funebre, quel tombeau a Les Invalides di Parigi che io visitai nell’agosto 1991.
Mi ci recai appositamente per recitarvi Il 5 maggio e per smentire, con la lettura de I Sepolcri di Foscolo, la “cantonata” che aveva preso con l’Editto di Saint-Cloud del 1804. Era una sorta di… vendetta culturale: lui che imponeva lapidi uniformi nei cimiteri, sepolture comuni de’ tristi coi buoni, degli illustri e degli infami, giaceva in un’urna che a egregie cose l’animo accende…[1] Leggendo quei versi, in silenzio, avevo la pelle d’oca: ero di fronte alla Storia. Ero davanti ai resti mortali di qualcuno in cui il Creatore aveva – veramente – stampato più vasta orma del suo spirto per distinguerlo dagli altri comuni mortali.
Tutt’altra sensazione provai, invece, a pochi metri dal suo cenotafio, nell’angolo in cui è relegato suo fratello, sedicente, abusivo re di Napoli. Fu come passare dal fasto del salone dei ricevimenti di un grande palazzo allo squallore di un cesso maleodorante, la stessa identica sensazione. Null’altro può ispirare la tomba di un buono a nulla, di una scartiglia quale fu Giuseppe Bonaparte; un inetto, un parassita pasciuto all’ombra del suo illustre consanguineo, in vita e, lì, anche nella morte; una nullità che si arrogò il diritto di far vigliaccamente impiccare il più fulgido degli eroi napoletani, Fra Diavolo, Michele Pezza, che tanto filo da torcere aveva dato a lui e al suo esercito.
Come ben sappiamo, Napoleone Bonaparte, concluse la sua esistenza terrena nella tormentata cattività che i figli della perfida Albione gli avevano imposto in quella sì breve sponda che è l’isola di Sant’Elena, una roccia dal tristo aspetto, situata sotto il Tropico a cinquecento leghe dal continente, al caldo divoratore della latitudine, coperto di nebbie i tre quarti dell’anno ed al tempo stesso il più umido clima del mondo, tra zanzare e topi…,[2] dove l’infamia dell’Inghilterra si sfogava sulla sua preda, abbandonandola a se stesso ed alla propria gloria…[3]
L’empereur cessò di vivere alle 17,49 del 5 maggio 1821. Per chi vuol cogliere voluti segni del soprannaturale, all’acme della sua agonia, sull’isola si scatenò una pioggia torrenziale, ininterrotta, ed un terribile vento pareva volesse tutto distruggere. Il salice sotto il quale egli era solito prendere il fresco, era caduto; varie piante sradicate e sparse. Un albero della gomma fu investito dal turbine e sbattuto nel fango. Come se nulla di quanto gli era caro dovesse sopravvivergli...[4] Tutto ciò proprio mentre, sotto le palpebre calate, i suoi rai fulminei si agitarono fino al momento in cui… ei fu.
Quell’immensa invidia di cui era stato oggetto da parte degli inglesi non si placò nemmeno col suo trapasso: proprio negli attimi del momento fatale, infatti, profittando, dello sgomento generale, due agenti britannici penetrarono nel salone, ne scoprirono il corpo, lo scossero, e poi se ne uscirono. Quella “constatazione” fu uno degli ultimi sfregi di mani inglesi su di lui; mani dalle quali si era tanto raccomandato di non voler essere lordato,[5] e invece…
Aveva chiesto, nel suo testamento, che le sue ceneri riposassero sulle sponde della Senna ma, ovviamente, il governatore britannico dell’isola, sir (!) Hudson Lowe, un vero e proprio spietato english bulldog, negò fermamente tale possibilità: il cadavere doveva restare a Sant’Elena, prigioniero anche dopo la morte, ritenendo che l’Inghilterra doveva tenerlo né rilasciarlo giammai…[6] Il feretro, quattro casse di metallo e di legno, inserite una nell’altra, fu calato nella tomba appositamente scavata a Hut’s Gate, il luogo scelto per la sepoltura, un punto dell’isola nei pressi di una sorgente circondata da salici. Fu sepolto coi piedi rivolti ad est e ed il capo ad occidente…[7] Guardando, dunque, ad oriente, come nella migliore tradizione massonica…
Ma… non erano massoni pure gli inglesi, i suoi carcerieri, come confermano i colori blu, rosso e bianco delle rispettive bandiere? Certo ed è questa la prova che – come qualcuno sussurra – Waterloo non era stato altro che un regolamento di conti all’interno della stessa consorteria…
Napoleone Bonaparte fu un paradosso storico: i francesi, dopo aver fatto una rivoluzione per abbattere un re, si erano poi ritrovati sotto un imperatore, un dittatore, un megalomane, un misogino, uno sfacciato nepotista, ma anche governati da un uomo stramaledettamente moderno, attuale: ancora oggi, per esempio, quando ogni giorno saliamo in macchina, ci ricorda sempre di… tenere la destra!
Chissà quanto opportunamente o meno, evitò di morire da giacobino: egli si riscattò all’immortalità dell’anima e chiuse gli occhi nella religione apostolica e romana, in seno alla quale nacque… come dettò ad introduzione del suo testamento. Testamento con cui dispensò, nominando vari eredi, circa sei milioni di franchi (per chi voglia calcolarne l’entità, il valore della moneta francese dell’epoca era in rapporto di 1FF = 4,5 gr di argento) che aveva depositato a Parigi nel 1815 e che, da allora, gli avevano anche fruttato una rendita annua del 5%. Lasciò pure una “Lista civile” in Italia di due milioni e gioielli per circa seicentomila franchi, dichiarando, il tutto, suo patrimonio privato. Un capitale “privato” accumulato razziando un intero continente, trafugando opere d’arte, come a Napoli, dove i suoi enfants de la patrie raschiarono perfino il rivestimento d’oro della guglia dell’Immacolata di Piazza del Gesù, con buona pace dei giacobini nostrani che, a oltre due secoli di distanza, fingono ancora di non sapere per poter continuare a scodinzolare agli invasori francesi di un tempo ed alla loro infausta memoria.
Erminio de Biase
[1] Ugo Foscolo – Dei Sepolcri – vv.151-152
[2] Francesco Antonmarchi – Gli ultimi momenti di Napoleone – Palermo 1832 – I/pp. 46-54
[3] Emmanuele de Las Cases – Memoriale di Sant’Elena – Milano 1860 – p. 350
[4] Francesco Antonmarchi – op. cit. – Palermo 1832 – IV/p. 213
[5] Idem – IV/p. 217
[6] Idem – IV/p. 218
[7] Idem – IV/p. 235
0pera molto interessante.