Alta Terra di Lavoro

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A chi Mazzini? A noi. Ma non era un progressista di sinistra?

Posted by on Nov 11, 2020

A chi Mazzini? A noi. Ma non era un progressista di sinistra?

Mai, come durante il Fascismo, nell’Italia post-unitaria,  venne celebrata la figura di Giuseppe Mazzini. Caduto il regime mussoliniano, il ricordo del patriota tornò a far bella mostra di sé, fra le pagine ingiallite dei manuali scolastici; evidentemente, il  patriottismo, non solo era estraneo alla neo-nata repubblica italiana, ma si prestava anche a pericolose collusioni con quella che era stata la cultura politica del ventennio.

La tradizione risorgimentale si protrarrà per tutti gli anni del regime fascista e rivivrà, idealmente, durante l’epopea della Repubblica Sociale.  Fra i primi ad ufficializzare l’ascendenza mazziniana del Fascismo, Giovanni Gentile che , ne Il Manifesto degli intellettuali fascisti, scrisse: «ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli Italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.  Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e ri-plasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente». Intransigenza, appunto, ereditata dagli esponenti del sindacalismo, rivoluzionario prima e, non a caso, (mazzinianamente) nazionale poi.

Saranno, infatti, gli uomini provenienti dall’esperienza sindacal-rivoluzionaria, a ri-portare in auge il mito di Mazzini: Angelo Oliviero Olivetti, Sergio Panunzio, Arturo Labriola, Filippo Corridoni, sono stati i più attivi promotori della rinascita risorgimentale. Partendo dal concetto di Risorgimento tradito, i teorici del sindacalismo concepivano la rivoluzione patriottica dell’800, come antesignana del Fascismo e, ancor prima,   del sindacalismo interventista di matrice soreliana. In tal senso, utile a comprendere il trait d’union fra Risorgimento e Fascismo, è l’intervento del cantimoriano Roberto Pertici: « ll fascismo era considerato il compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell’inserimento e nell’integrazione delle masse nello stato nazionale, nella creazione di una più vera democrazia, ben diversa dal parlamentarismo e lontana dall’affarismo, dal particolarismo, dall’inerzia che avevano caratterizzato l’Italia liberale. » Particolare importanza, all’interno del processo di ri-pensamento mazziniano, fu proprio la mobilitazione delle masse e, quindi, la partecipazione dei citoyens alla vita politica ed economica nazionale. In quest’ottica, si situa tutta la polemica sul corporativismo,  soprattutto quello integrale teorizzato dal repubblicano Edmondo Rossoni e ri-preso, poi, da Ugo Spirito. La proposta corporativa  di Rossoni, infatti, se non fosse stata stroncata  da Confindustria, avrebbe rappresentato la perfetta sintesi fra, il  pensiero economico mazziniano e  le istanze politiche del nascente regime Fascista. Come ha ben delineato Luca Leonello Rimbotti, l’esito di tale politica avrebbe significato: «togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo – come ad esempio faceva Corradini » Quindi: « sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe».  Una visione politica, quella di diretta filiazione risorgimentale, nata con  Mazzini e sviluppatasi all’interno della tradizione italiana del socialismo non-marxista; non a caso, l’intera struttura economica dell’inter-classismo mazziniano, sarà l’asse portante, seppur con molte varianti, di quella che viene definita la sinistra fascista. Non fu, comunque, solo l’ala sinistra del fascismo, a essere influenzata da tali principi, come ha sottolineato lo storico Pierre Milza,  lo stesso Mussolini non era affatto estraneo a tale tradizione, anzi: «egli stesso era il prodotto di una cultura politica che mescolava la tradizione mazziniana e libertaria, fortemente radicata in Romagna, con i principi di un socialismo intransigente».

Da rilevare, dal punto di vista storiografico, è che la popolarità di Mazzini, durante il periodo fascista, fu dovuta anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei Fasci di Combattimento.  Da sempre in conflitto con i socialisti riformisti, i repubblicani iniziarono il loro percorso di avvicinamento a Mussolini, proprio durante le battaglie interventiste; dapprima, sposando la causa dei sindacalisti rivoluzionari e, poi, appoggiando il primigenio movimento fascista, con cui condividevano diversi  punti programmatici. Per meglio comprendere tale commistione, è utile rileggere le pagine dell’allora  stampa repubblicana e, quindi, ciò che i mazziniani, di dichiarata fede, pensavano del nascente Fascismo e del suo capo. Nel ’17, sulle pagine de   L’Iniziativa, l’organo di stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo del nostro interventismo». Successivamente, soprattutto dal ’19 in poi, gli incontri fra repubblicani e fascisti si faranno più frequenti, tanto che in regioni come  la Liguria (roccaforte mazziniana) e l’Emilia Romagna, si assisterà a una vera e propria emigrazione politica: un numero considerevole di federazioni repubblicane passeranno in blocco sotto le insegne fasciste. Significativo, di queste defezioni, è il caso di Pietro Nenni e dei fratelli Bergamo; esperienza brevissima, ma sintomatica di come il Fascismo, non ancora maturo, fosse riuscito a far leva sugli istinti patriottici dei repubblicani, militanti di spicco compresi.

Fra i transfughi del PRI, il più noto è stato sicuramente Italo Balbo; lo storico Claudio G. Segrè ha scritto: «Balbo, prima di aderire al Fascismo nel ’21, esitò a lasciare i repubblicani fino all’ultimo momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia iscrizione (…). Nella lettera di dimissioni scritta il 12 febbraio 1921, Balbo –  scrive Segrè – era perfettamente consapevole che il comitato centrale repubblicano si opponeva alla sua iscrizione a entrambe le organizzazioni. Tuttavia – insistette – il fascismo non contrastava con gli ideali mazziniani, soprattutto per quello che riguarda la Patria, il socialismo e la questione agraria». Altri celebri mazziniani  transitati nel partito fascista furono: Curzio Malaparte, Ottone Rosai, Romano Bilenchi e quel Berto Ricci che, nel Fascismo, vedeva la perfetta sintesi fra “la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini”. Naturalmente, la disamina letteraria operata dai suddetti, non riguardò solo il patriota genovese, anche Garibaldi e Pisacane entrarono a pieno titolo nel pantheon littorio. In più di un’occasione, fu lo stesso Mussolini a operare un parallelismo fra  l’epopea garibaldina delle camicie rosse e la rivoluzione nazionale delle camicie nere, mentre per ciò che concerne Pisacane, il primo a ri-valutarne il profilo storico fu il  fondatore di “Pagine Libere”, Angelo Oliviero Olivetti che scrisse: «fu un socialista nazionale, di un nazionalismo assoluto, intransigente e fremente, ripudiando tutte le dottrine e tutti i contatti con lo straniero, qualunque esso fosse». Ed è proprio da quest’ultima affermazione, che si comprende il retaggio culturale che portò alcuni mazziniani ad allontanarsi dal fascismo, allorquando l’intesa con la Germania nazional-socialista si fece più intensa.

Comunque sia, a cento anni  di distanza dalla caduta della Repubblica Romana, sulle rive del lago di Garda sorse la Repubblica Sociale Italiana. Qui, se è possibile, i richiami a Mazzini si fecero anche più frequenti rispetto a prima:  fenomeno, quest’ultimo,  riconducibile, oltre  che alla necessità di una  ri-visitazione del  pensiero repubblicano, anche al sentimento anti-monarchico post-25 luglio. Durante il primo congresso del Partito Fascista Repubblicano, alla presentazione di quelli che poi passeranno alla storia come i 18 punti di Verona, Alessandro Pavolini disse: «il manifesto programmatico è una sintesi dell’originario pensiero mussoliniano il quale come è stato ricordato coincide per molta parte con quello di Mazzini (…)». Nel medesimo congresso, Fulvio Balisti, il Comandante del Battaglione Giovani Fascisti a Bir el Gobi, pronunciò la seguente frase: «perché non esiste Repubblica dove non esista la libera espressione della volontà del popolo, perché le masse si educano in virtù della Repubblica e Mazzini disse che non i repubblicani facevano la repubblica, ma la repubblica con l’educazione faceva i repubblicani». Per ciò che concerne la struttura economica della Repubblica Sociale, soprattutto in merito al decreto legge 375/1944, relativo alla Socializzazione delle imprese, l’influsso di Mazzini si fece preponderante; ha ricordato in una recente intervista Miro Renzaglia:

«(…) Mazzini propugnava la disintegrazione del sistema salariale. (…) Le radici profonde della socializzazione risiedono nella naturale inclinazione dell’uomo a darsi un sistema di civile convivenza fondato sulla giustizia sociale… Tra la teoria mazziniana delle “associazioni dei lavoratori” e le realizzazioni di Mussolini, l’anello di congiunzione risiede nel sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni…». L’eco mazziniana ebbe notevole successo anche sulle pagine della  propaganda di guerra;  i manifesti, con l’effigie del patriota, campeggiarono per lungo tempo sui muri della Repubblica. Oltre a Mazzini, tra le fila della RSI, vennero arruolati altri celebri miti risorgimentali: sia Goffredo Mameli che Anita Garibaldi, dall’alto dei loro manifesti, indicarono alle giovani leve del fascismo repubblicano la via italiana alla rivoluzione volontarista di Mazzini.

A taluni, l’operazione di recupero dei temi risorgimentali, da parte dell’intellighenzia fascista, potrebbe sembrare un’appropriazione indebita,  in ragione di ciò, è giusto ricordare  che già  il filosofo inglese Bertrand Russell, nella sua “Storia delle idee del Secolo XIX”, criticando Mazzini lo additava come precursore di Mussolini. – critica sottolineata, già  a suo tempo, dal compianto Giano Accame.

Della stessa idea di Russell, nel 31, Togliatti scrive: «Mazzini se fosse vivo plaudirebbe alle dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini sulla funzione dell’Italia nel Mondo» – anche se in seguito, il Migliore, in merito a Mazzini, cambierà idea.

Da rilevare che, al termine del secondo conflitto mondiale, la componente maggioritaria del neofascismo venne guidata dall’ala dura degli spiritualisti. Questi ultimi, una volta prese in mano le redini di ciò che era rimasto del mondo fascista,  decisero di rimuovere Mazzini dai propri scaffali. Ad approfittare di questa «brillante» operazione culturale, furono proprio i quadri dirigenti del PCI. Infatti, operando gramscianamente sulla storia risorgimentale, i piccisti trasformano la resistenza nell’ultimo atto del risorgimento – anche se a tutt’oggi, i post-comunisti  non hanno ancora deciso se l’epopea risorgimentale sia terminata nel ’45, o, come vorrebbero altri, nel ’68… Lo stesso Togliatti inserì frequentemente Mazzini e Garibaldi all’interno dei suoi discorsi, senza contare l’influenza iconografica di tale operazione di recupero risorgimentale: basti pensare che, nel  ’48, durante la campagna elettorale, in rappresentanza del Fronte Popolare c’era proprio l’effigie di Garibaldi.

Nonostante la deriva filo-monarchica degli ambienti missini e l’appropriazione, quella si, indebita, della tradizione risorgimentale da parte anti-fascista, alcuni ex-erresseisti si fecero portatori della fiaccola mazziniana d’origine fascista. Tra questi, ricordiamo: Giorgio Pini, Alberto Giovannini, Ernesto Massi, Stanis Ruinas, Concetto Pettinato e Ugo Manunta.   Intellettuali e militanti politici che, pur rifacendosi all’esperienza repubblicana di Mussolini, rifiutarono sempre l’etichetta di destra, perché, come scrisse l’allora fascistissimo Curzio Malaparte, in merito alla reazione anti-risorgimentale: «Il liberalismo si vendicò della rivoluzione. La reazione fu liberale: periodo delle sagge riforme. La destra era al potere. Tristissima commedia.»

fonte

https://www.mirorenzaglia.org/2010/02/a-chi-mazzini-a-noi/

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