Ad Aurelia Gambacorta d’Este (Napoli), 1° agosto 1716
All’Eccellentissima Signora La Signora Donna Aurelia D’Este Gambacorta De’ Principi d’Este, Duchessa di Limatola et cetera
Egli è proprio dell’umana mente rivocare in dubbio quelle cose, delle quali l’esperienza presenti, e sensibili idee alla fantasia non dipinga.
Da quale universal costume condotto anche io, nel dubbioso pensiero, se le valorose donne, che l’antichità ci presenta, fossero veri soggetti, o nomi vani, e della favolosa Grecia ingegnose invenzioni; mi sono lungamente ravvolto; né sì agevolmente me ne sarei potuto per avventura disciorre, con dar credenza all’antiche memorie, se la mia in ciò felicissima sorte non mi avesse nell’eccellenza vostra mostrata non solo la pruova di questa verità; ma la certezza altresì, che in ogni secolo, et in ogni tempo si destino i sublimi, e maravigliosi spiriti, i quali par che siano all’antichità semplicemente dovuti. Quale errore in taluni, (benché eruditi, e savii intelletti) si genera, e si alimenta da un falso discorso interno, guidato dalla fallace immaginazione, che alla mente tutti quegli eccellenti, e divini soggetti, che in tanti, e sì diversi secoli fiorirono, senza idea di distanza fra loro, unitamente rappresenta. Quale unione, posta all’incontro d’una sola età, riesce senza fallo, ad ogni altra di gran lunga superiore; il che non adiviene, a chiunque, l’immenso corso dell’antichità ne’ suoi secoli dividendo, ciascuno di essi, in comparazion de’ presenti separatamente considera. Et in vero non so in qual mai altra avventurosa etade nascesse donna1, che al par di voi tanti pregi in se stessa sì leggiadramente accogliesse. Poiché, se a que’ doni ho riguardo, che dalla man della sorte, senza opera nostra derivano; vi veggo dal chiaro sangue della gloriosissima casa d’Este2 discesa, il quale presso a mill’anni le regie d’Europa adornando, non è fino ad ora per altre vene trascorso, che d’eroine, ed eroi: da quel sangue, di cui tanti illustri scrittori divinamente ragionarono, che, se volessi anch’io scriverne i pregi, oltre che sarebbe opra vana, e superflua; gran parte dello splendore a lui dovuto, con l’oscurità del mio ingegno involargli potrei. Né minor dono della sorte riputar deggio, a mio credere, l’esser voi accoppiata all’eccellentissimo signor don Francesco Maria Gambacorta duca di Limatola3, e vostro degnissimo consorte, il quale alla magnificenza dell’animo suo, alla saviezza della sua mente, et al candore de’ costumi aggiunge l’illustre legnaggio della generosa famiglia Gambacorta4, la quale per più secoli nella pisana republica i primi onori occupando, s’avvanzò a tanto, che Lotto Gambacorta5, di quella pervenne all’assoluta signoria, et in essa i suoi successori si mantennero, finché Giovanni6 trasportò questa nobil famiglia nel regno di Napoli, ove, per varii rami diffondendosi, con tanta gloria risplende. Tralascio la vaghezza, e maestà del sembiante, la quale, benché da voi, come frale, e caduco bene disprezzata, pur vi rende fra l’altre involontariamente distinta.
Se poi fisso lo sguardo in quelle qualità, che non all’industria de’ Maggiori, o alla fortuna; ma a noi medesimi dobbiamo, vi veggio di tutte quelle parti adornata, che necessarie si rendono a formar del perfetto una chiarissima idea. Poiché venero in voi la grandezza dell’animo vostro; le piacevoli maniere, che all’altezza del vostro grado accoppiate; la gentilezza delle espressioni, in cui i vostri concetti chiudete; il meraviglioso, et elevato ingegno; il saggio discernimento delle cose, et il maturo, e considerato giudizio delle medesime; e sopra ogni altro la mente purgatissima, che spogliata, per mezzo de’ più colti studii d’ogni larva volgare, e penetrando nel più cupo, e riposto seno delle filosofiche verità, tanto s’inoltra, che dell’onesto, e del giusto al primo fonte perviene.
Da tanti, e sì rari pregi sorpreso rimasi sin da quando ottenni, già quattro anni or sono, per la prima volta la sorte d’inchinarmi all’eccellenza vostra in qual tempo, benché per la picciolezza dell’età mia, che allora il decimo quarto anno appena trascorrea7, non avessi potuto a parte, a parte le vostre doti considerare, e distinguere; pur la leggiadra unione, che si forma da loro alla mia mente giungendo, in me un’idea di singolare, e meravigliosa cosa destava, nel modo appunto, che accade, a chi presso ad ameno giardino passando, da diversi fiori, che s’educano in esso, una sola, et indistinta fragranza coll’odorato raccoglie. O nella guisa, che adiviene a chi, per lontana distanza da una composta varietà d’instrumenti una armonia sola comprende. E fin da allora avrei voluto in altra forma darvi testimonianza della mia venerazione, che improvisamente poetando, siccome in quel tempo facea, in qual maniera di comporre, benché tal volta più vivi, e poetici lumi suggeriti dall’Estro scorressero, di quelli, che a sangue freddo la considerazion somministri; pure come cosa non permanente, ma momentanea, e fugace, men degna del mio fine la reputava. Ma ritrovandomi ora in Napoli, né tolerando di più lungamente differire a me stesso la sorte, di mostrarvi qualche saggio del mio divoto ossequio, ho raccolto in questo picciol volume alcuni miei componimenti poetici, i quali come primi frutti del mio debile ingegno sono a voi, più, che ad ogni altra dovuti, poiché colla generosa compiacenza, che delle mie fatighe vi siete degnata mostrarmi, mi avete a tal’opra animato: quali componimenti allor meno degni di riprensione saranno senza fallo stimati, quando a chi a ciò s’accingesse, sovvenga essere eglino prodotti per entro il corso de’ studii più necessarii, e severi.
Il primo fra questi è un picciolo poemetto8 fatto in occasione del felicissimo parto d’Elisabetta Augusta, quale è composto, sì per la divotione, che a quest’invittissimo Germe è dovuta da chiunque romana religione, e romane leggi professa; come ancora per sodisfare all’obbligo a me particolarmente imposto dall’onore, che godo della familiarità dell’eccellentissimo signor conte Gallas9 ambasciadore cesareo in Roma. Viene doppo di esso una tragedia intitolata Il Giustino10: in cui non mi sono curato di recedere dal comun uso delle mutazioni di scene, per serbar l’unità di luogo; parendomi in ciò impossibile l’imitazione degli antichi a chi voglia comporre, per il teatro presente, e non per la sola sua gloria. Quale unità di luogo fu molto facile a conservare a’ Greci, et a’ Latini, che nella loro amplissima Scena, la quale era il diametro d’un semicircolo, in cui talvolta fino a trenta mila persone si raccoglieano; e portici, e piazze, e templi, et intere città rappresentavano11. Ma ora, che, per l’angustia del presente teatro, non si può su la nostra scena portare, che una sola apparenza; è necessario cangiarla al pari delle differenti azioni, che nascono nella favola, essendo, a mio credere, maggiore improprietà fare, che in un picciolo, et angusto sito d’una sola camera, succedano tutti gl’eventi di un ravvolto, e lungo filo di cose, di quello, che sia il cangiamento di scene12; Il quale non era affatto dagli antichi abborrito. Anzi, siccome da i scrittori, se ne servivano nel fine degli atti della tragedia; ne’ quali, per alleggerire la mestizia, che da funesti, e tragici casi si desta, introducevano la satirica, o sia boscareccia poesia. Ed a tal fine aveano varie forme di Scene, che ductile, o versile chiamavano. La scena versile era composta di colonne triangolari; le quali si rivolgeano intorno ad un’asse, che si fermava nel suolo, et in una delle facce, colonne, e palagi, ad uso della Tragedia; nell’altra, case particolari, ad uso della comica; e nell’ultima, alberi, e campagne, ad uso della satirica rappresentazion dipingevano. La Scena ductile corrispondeva alla presente, che traendosi in dietro scuopre le apparenze nascoste13. Or, se fu lecito agli antichi nel fine de’ loro atti cangiar le scene, non sarà gran fatto, se a noi si concederà distendere questa licenza, anche per entro il corpo della Tragedia, quando a i Greci, senza tanta necessità, se ne sono concesse maggiori. Quale è quella di fare, che il popolo rappresentato ne i cori, parli de’ più riposti arcani de’ principi14. Ho voluto ancora farla di fine lieto, non temendo, che perciò dovesse perdere il nome di tragedia, che non dalle morti, dalle straggi, e da funesti fini; ma dal corso di fatti grandi, e strepitosi, e dalla rappresentazione di personaggi reali discende. Né perché abbia Aristotele esemplificata nell’Edipo la perfetta tragedia, perciò non può altramenti, secondo l’opinion del medesimo, che con mestizia finire: perché non ha egli nell’approvazion dell’Edipo condannate l’altre tragedie di Sofocle, Euripide, et altri divini autori di quel secolo, che alcuna delle loro favole a lieto fine condussero15. Vi sono oltre di ciò altre composizioni più brevi, delle quali alcune hanno già avuta la sorte di passare sotto il vostro nobilissimo sguardo16.
Gradite adunque, o signora, questo, qualunque egli sia, lieve dono, frutto delle mie prime fatighe. Da cui non trarrò poco, quando ei sia bastevole a rendermi, appresso di voi, vivo, e sicuro testimonio della mia venerazione, et osservanza:
Napoli il dì primo agosto 1716.
Di Vostra Eccellenza Umilissimo Divotissimo et Obbligatissimo Servitore
Pietro Metastasio.
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