Al sud assenza di spirito di iniziativa “IL Giornale” del 18/8/96
Ad un lettore di Rapallo, autore della lettera: “Al sud assenza di spirito di iniziativa”, per il periodo che tratta, vorrei precisare quanto segue: nelle banche del Sud erano depositati 443 milioni di lire oro contro i 27 del Piemonte, gli 85 della Toscana, 155 della Romagna, Marche ed Umbria, 35 degli stati romani etc.
Su una popolazione attiva di 3 milioni di abitanti 2 milioni erano addetti all’agricoltura, 82.000 alle industrie manifatturiere, 48.000 alle tessili, 12.000 alle metalmeccaniche; in totale 145.000 erano gli addetti all’industria, 190.000 all’artigianato, 780.000 al servizi. Esisteva la pensione per gli statali (e militari) previa trattenuta del 2% sullo stipendio. Lungi dall’essere soffocata dal latifondismo (che peraltro nasce soprattutto dalla distribuzione delle terre demaniali e del patrimonio ecclesiastico dai conquistatori piemontesi), l’agricoltura godeva della concessione delle terre demaniali di cui un terzo veniva coltivato dal contadini per uso proprio e godeva del diritto di erbatico, legnatico, pascolo su tutte le terre del Re e della Chiesa. Per chiudere si evidenzia che fino alla conquista del sud, non esisteva emigrazione. Questa inizierà alla fine dell’ottocento.
Al Sud nel 1860 si gridava: “Viva o Re”
“Il Giornale” 1 settembre 1996
Perché non chiediamo la secessione?
Chi lo dice che non l’abbiamo mai chiesta.
Noi l’abbiamo chiesta nel 1860 con la resistenza alla colonizzazione piemontese-sabauda che costò, secondo la valutazione fatta nell’agosto 1861, dal giornale fiorentino “Il contemporaneo” e riferita solo ai prime nove mesi di “libertà e unità“ 1841 fucilati “istantaneamente”, 7127 fucilati “dopo poche ore”. I feriti furono 10.604, prigionieri ed arrestati 20.000, famiglie “perquisite” 2.903, case incendiate 918, paesi incendiati 5. Furono saccheggiate 12 chiese, fucilati 54 sacerdoti e 12 frati. Insorsero 1428 comuni.
In un rapporto ufficiale del ministero degli Interni si ammetteva che nei paesi rasi al suolo per rappresaglia erano oltre 40.000 i senza tetto. Questo solo per i primi nove mesi. Si consideri che lo stato d’assedio durò circa dieci anni. E senza contare la rivoluzione del “sette e mezzo” in Sicilia, nel 1866, la nostra “liberazione” fu un Viet nam, senza vittoria.
Fu una lotta combattuta da gente che mori gridando “viva ‘o re”.
E furono detti briganti.
Quel maldestro consiglio agli studenti
Il Giornale – 11/09/96
Il nostro Presidente della Repubblica, in un altro suo esercizio oratorio, ha ancora una volta lasciato che la parola andasse più in là del limite che una saggia valutazione avrebbe potuto imporre.
Il suo consiglio agli studenti “…studiate come l’Italia diventò una..” credo nasconda un grosso azzardo.
Gli studenti potrebbero prenderlo sul serio e nella foga di studiare come avvenne l’unità d’Italia potrebbero anche consultare libri finora tenuti accuratamente fuori dai programmi ufficiali.
Ed allora leggerebbero che l’unità non fu voluta, ma imposta.
Che il Regno delle Due Sicilie fu annesso con un plebiscito farsa dopo essere stato invaso a seguito di una guerra mai dichiarata, e che l’unità fu effettuata massacrando il suo popolo e depredandolo di ogni bene e ricchezza.
Che tale conquista fu fieramente osteggiata dai sudditi del Regno, che per dieci anni dovettero per questo subire lo stato di assedio mantenuto con l’impiego di fino a 120.000 uomini fra esercito e guardia nazionale.
Lo storico inglese Denis Mack Smith sostiene che ”il numero di coloro che morirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre del Risorgimento messe assieme”.
“La retorica unitaria… tentava di soffocare i fatti nudi e crudi, esagerando l’ampiezza del consenso che il nuovo regime incontrava nel Sud gabellando per pura criminalità comune…il dissenso armato” (S. Scarpino – La mala unità).
Arabi e Spagnoli
18 Sett. 1996
Con riferimento alla lettera di un vostro lettore, sul numero del 18/09/96, pur concordando in massima parte col contenuto della sua lettera, mi sembra semplicistico il passaggio che riporta alle dominazioni spagnole e arabe una “non brillante capacità al lavoro”. Personalmente ritengo che i fattori che possono influire sulla formazione di un popolo siano tali e tanti che ricondurre il tutto a pochi motivi identificati sembra un po’ velleitario. A prescindere che la dominazione spagnola l’hanno subita pure in Lombardia (non è forse in quel periodo che sono ambientati “I Promessi sposi”)?
Per quanto riguarda quella araba, in tutte le cronache e testi di storia si trovano affermazioni del tipo “E’ incommensurabile l’apporto dato allo sviluppo economico e civile della Sicilia. Essi rivoluzionarono la produzione agricola con le nuove colture del riso e degli agrumi; incrementarono la produzione di gelsi e di conseguenza la produzione della seta, operarono una sapiente opera di canalizzazione che permise di ottimizzare le risorse idriche dell’isola e curarono lo sviluppo della piccola proprietà terriera con opportuni provvedimenti fiscali (p.e. eliminazione dell’imposta sugli animali da tiro). Resero Palermo una capitale ed il poeta Ibn Hamdis, esule dalla Sicilia a causa dell’invasione normanna disse della terra natia: “Io anelo alla mia terra, come nelle tenebre anela al suo paese natio un vecchio cammello smarrito nel deserto”.
Si denigra l’esercito di Franceschiello
Gazzetta del Sud il 19/10/97 – Il Giornale: 23/8/97 – Il Mattino 1/9/1997 – Libertà 29/8/97
Il padano Bossi che con tono dispregiativo cita “l’esercito di Franceschiello”, cade, e come non potrebbe, visto il livello culturale del soggetto, nella trappola che lo porta ad indulgere, anche lui, ad un luogo comune che da 135 anni farcisce le affermazioni di molti cosiddetti storici ed opinionisti. Ancora una volta credo sia opportuno ripetere una verità che ormai comincia ad essere nota e che libera il Sud e la Dinastia Borbonica da calunnie che dal 1860 la fanno apparire come la più infame ed inetta monarchia di quei tempi quando non tentano di trascinarla nel ridicolo. L’esercito di Franceschiello era ben lungi dall’essere un esercito di fannulloni e straccioni come probabilmente se lo raffigura, e si fosse preso la briga di studiare un po’ di più la storia di quel Sud a lui così inviso, avrebbe potuto verificare che l’Esercito del Regno delle due Sicilie era alla pari dei migliori eserciti dell’epoca, e di questo poterono rendersene conto anche i Piemontesi, quando a Curtatone e Montanara, le sorti della battaglia, ormai fortemente compromesse, furono capovolte dall’intervento della cavalleria borbonica, che, pensate un po’, faceva parte di quell’esercito di Franceschiello (mi si perdoni la forzatura cronologica). Fu sconfitto poiché ebbe come nemici non solo i soldati di parte avversa, ma anche molti dei suoi ufficiali, corrotti, al pari di alcuni politici, dal Piemonte e dall’Inghilterra che da lungo tempo avevano cominciato ad ordire una rete di tradimenti. Furono questi che regalarono la vittoria al nemico. Gli altri, quando poterono combatterono, e con valore.
A Calatafimi, quattro compagnie dello 8° Cacciatori ebbero ragione di più di mille garibaldesi (1500 circa) e conquistarono pure la bandiera tricolore che Menotti Garibaldi, ferito, aveva passato ad un suo compagno. Questo fu ucciso da un soldato borbonico, Angelo de Vito, che portò la bandiera in Palermo.
La vittoria, ormai certa, non fu consolidata per il rifiuto che il Generale Landi oppose al Capitano Corso, che richiedeva aiuto e rinforzi per incalzare il nemico. Landi era stato pagato 14.000 ducati da Garibaldi.
L’esercito era quello che al comando del Colonnello Ferdinando del Bosco si batté a Milazzo, al Garigliano, al Volturno, a Gaeta. Era quello che, stanco di ritirasi senza combattere, di vedere di giorno in giorno crollare la Patria loro, seppe, quando fu ben comandato compiere prodigi di valore, mettendo molte volte in forse la vittoria delle camicie rosse e dei Piemontesi. Era quello che alla resa finale ebbe l’onore delle armi.
Per i meridionali il Nord è razzista
Gazzetta del sud il 28/11/96
E dagli, è la solita storia del pastore…
Ora ce la si prende coi “tromboni e con le mezze tacche di intellettuali meridionalisti” che accusano, udite, udite, di razzismo il nord.
Credo sia utile riportare alla memoria che il Sud nel 1860 “viveva la sua pacifica esistenza, ..non ha altra aspirazione che sottrarsi alle tempeste della politica europea e di vivere nel suo tranquillo isolamento:”
Ma il Sig. Cavour non è d’accordo e con manovre spregiudicate quanto efficaci riesce a creare le condizioni per una colonizzazione proditoria e sanguinosa.
Solo che il Sud, una volta depredato di tutti i suoi averi non ha più attrattive, oltre a tutto resiste ad oltranza e manifesta in tutti i modi il suo lealismo ed attaccamento alla corona borbonica, tanto che Cavour pensa seriamente di abbandonarlo, progetto che non si realizza per la sua prematura morte.
Il Sud diventa allora una riserva di emigrazione (cosa fino ad allora sconosciuta), di carne da cannone (prima guerra mondiale), di coloni per le terre occupate in Africa, di mano d’opera a basso livello per le industrie durante il cosiddetto “miracolo economico”. E mentre nel nord si sviluppa l’industria (anche coi macchinari asportati dalle fabbriche di Pietrarsa, San Leucio, Ferdinandea ecc.), che dà lavoro ai loro giovani i quali preferiscono il guadagno immediato allo studio, nel sud si percorre la lunga e faticosa via fatta di studi e concorsi, unica speranza di emendamento da una vita grama, e che porta i giovani lontano da casa, ad occupare quei posti di insegnante, magistrato, impiegato, funzionario o dirigente nei vari campi della pubblica amministrazione.
Ora tutto questo non va più.
Ora nel nord ad alcuni dà fastidio perfino l’accento di questi prefetti, pretori, questori, medici, avvocati, docenti. Mentre certamente risuonava dolce al cafone, in attesa della scarica mortale, l’accento piemontese o lombardo del bersagliere o del carabiniere o dell’ufficiale che lo condannava a morte solo per aver amato la sua terra ed il suo Re.
Vergogna!.
La Sicilia è creditrice di miliardi
Il Giornale 28/3/97 – Gazzetta del Sud 10/4/97
Prendiamo notizia che lo stato, al fine di limitare il flusso di denaro all’estero per acquisto di benzina ed altri generi in Slovenia, ha ridotto il prezzo della benzina nel Friuli Venezia Giulia.
In un’altra regione, la Sicilia, anch’essa a statuto speciale, che produce petrolio grezzo in quantità che si pone fra il 5 e il 10% del fabbisogno nazionale e dove si raffina circa metà del grezzo lavorato in Italia, di tutto questo resta invece solo l’inquinamento prodotto dalle raffinerie (che sono ben 5), dai campi petroliferi e dalle piattaforme, con conseguente rovina di coste fra le più belle del mondo.
Anche se è previsto dalla Costituzione Siciliana la possibilità di far rientrare fondi in ordine alla produzione mineraria, tutto questo non è mai stato attivato e sulla carta la Sicilia è creditrice di parecchie decine di migliaia di miliardi. Continua invece ad erogare petrolio, prodotti petroliferi, salgemma ad industrie che oltretutto le tasse le pagano altrove ponendo le rispettive regioni fra i grandi contribuenti e la Sicilia fra le grandi sfruttatrici.
La Ferrovia dei Borbone
Libertà 24/08/1997 – Storia Illustrata ottobre 1998
Nel numero di Marzo 1997 di Storia Illustrata, a firma Simona Lualdi, compare, per la rubrica “Immagini per la Storia”, un articolo dal titolo “In carrozza ……”
Il suo contenuto, contraddittorio per sé stesso in più parti, mi spinge ad alcune riflessioni. L’Autrice mette tutto nel contesto di un Regno che risente delle conseguenze di una dura repressione poliziesca, che ha un popolo che vive di espedienti ed un Re che non saprà far altro che offrire “Feste, Farina e Forca”. Ci sentiamo di dissentire vivamente da tali affermazioni, riporto di notizie tratte da libelli e da libri di parte. In questo articolo, ancora una volta, dopo ben 136 anni, con riferimento ai Borbone (infatti, perché Borboni ?), convive un dualismo di realtà storica e di citazione di vecchi luoghi comuni che ormai grazie al cielo, cominciano ad essere messi in discussione. Troviamo frasi del genere: “voluta dai Sovrani per dare prestigio al loro Regno, la ferrovia contribuì al progresso della penisola italiana”, ed affermazioni del tipo: “..perché si tratta dell’ultimo capriccio di un re affascinato dalle novità e dall’idea di far apparire il suo regno come uno dei più progrediti d’Europa.”
Ed in un modo piuttosto acritico si continua a perpetuare la diffusione di notizie faziose propagate da una stampa che all’epoca aveva motivo di essere poiché bisognava esorcizzare l’aggressione proditoria ad uno stato che altro non desiderava se non vivere in pace, ad un re “..che non ha altra aspirazione che sottrarsi alle tempeste della politica europea e di vivere nel suo tranquillo isolamento”.
Bisognava giustificare, continuando in una massiccia campagna diffamatoria spregiudicata quanto efficace, e dalle lontane origini, un’annessione effettuata in seguito ad un discutibile plebiscito che chiuse una guerra mai dichiarata, ponendo la parola fine ad uno stato che nacque con Ruggiero il Normanno e che da questo e da Federico II ebbe il primo parlamento europeo.
Con ciò fu messa la parola fine alla storia di uno stato che ebbe per capitale la città terza in Europa per numero di abitanti e prima per fermenti artistici, culturali e sociali; fu messa la parola fine ad uno stato che aveva il più alto indice di industrializzazione della penisola (costruiva locomotori per Russia e America, cannoni, rotaie, macchine navali, motori elettrici … etc), che aveva le più ampie riserve di zolfo (materiale per l’epoca strategico e fortemente concupito dall’Inghilterra che per questo si adopererà per la caduta del Regno).
Avviando successivamente il processo di colonizzazione che in dieci anni di stato di assedio opporrà al Piemonte una resistenza che costerà “più morti di tutte le guerre di indipendenza messe assieme”. Tutti morti gridando “Viva ‘o Re” (non è male se si pensa alle tre F.) e che sfocerà in una emigrazione fino ad allora sconosciuta.
Settembrini, da sempre oppositore dei regnanti borbonici, e per questo considerato un eroe della libertà, diceva nel 1870, a seguito della deludente politica dei piemontesi, ai suoi studenti:” … Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di tutto questo, … poiché se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente e noi facemmo di peggio”
E fu fatto certamente peggio se si considera nel libro “Scienza delle Finanze” di F. Crispi, edizioni Pierro, del 1903, si legge che, al momento dell’annessione, il tesoro della penisola, in milioni, era così ripartito:
Regno delle Due Sicilie = 443,2; Lombardia = 8,1; Ducato di Modena = 0,4; Parma e Piacenza = 1,2; Roma = 35,3; Romagna, Marche ed Umbria = 55,3; Sardegna = 27; Toscana = 85,2; Venezia = 12,7; Totale = 668,4
In conclusione il Regno delle Due Sicilie aveva più dei doppio di tutti gli altri Stati messi assieme.
Inoltre il Regno vantava il più grande monumento alla solidarietà conosciuto: il grande albergo dei poveri, progettato dal Fuga, che ospitava nell’edificio, lungo 375 metri e largo 135, fino a 5000 diseredati offrendo letto, cibo, cure e istruzione. Completamente diretto da volontari, dopo l’unità diventa centro di lottizzazione politica, fino a morire per mancanza di fondi.
Ed è ancora strano che in uno stato che era “la negazione di Dio fatta sistema”, vivessero e venissero a operare artisti quali Paisiello, Scarlatti, Pergolesi, Bellini, Donizetti (da Bergamo), Porpora, Leo, Piccinni, Cimarosa, Giordano, Cilea, Alfano, Pacini, per la musica; letterati quali Mormile e Galiani; per la pittura Solimena, De Mura, Vaccaro, Bonito, Celebrano; per la scultura Sammartino”. E non mi pare che esistesse un solo quotidiano e per giunta governativo: il Regno godeva di una libertà di stampa sconosciuta negli altri stati.
Ritornando all’articolo in oggetto, per concludere, riconsidererei l’affermazione “ma in realtà sarà Cavour il primo a capire la necessità di organizzare il primo trasporto ferroviario…”, quando nell’elenco degli stati che si dotarono di ferrovia il Piemonte nemmeno compare..
Coi Borbone l’opinione era “pro reo”
31/08/1997
Relativamente all’attuale gestione della Giustizia in Italia, vorrei fare due citazioni che si riferiscono al Governo “Forcaiolo” dei Borbone.
Si riporta da: “L’Ordinamento giudiziario nel Regno delle due Sicilie” di D. Coppola, nella parte che si riferisce alla Gran Corte Criminale,: ”A parità di voti, veniva adottata l’opinione favorevole al reo”.
E sullo scottante argomento dei pentiti, al ministro di polizia Intonti che proponeva di compensare un delatore, Ferdinando II rispose: “ccà si dammo ‘na cosa ‘e solde a chi ha ‘nventato ‘na riunione ‘e giacubbini nun se fernesce cchiù; nce zeffonnano sotto ‘e denunzie fauze”.
E’ il nord che ha imposto al sud l’unità
Libertà 21/9/97 – Il Giornale 22/9/97
Leggo su un quotidiano a tiratura nazionale, un articolo dal titolo: “E’ il nord che ha imposto al sud l’unità d’Italia”.
Personalmente, concordo appieno con questo titolo.
Anzi, vorrei ricordare, che quando venne iniziata l’opera che doveva concludersi con l’unità di cui avrebbe sofferto il sud, nel nord non era ancora nemmeno unità, in quanto mancava tutto il Veneto, il Trentino Alto Adige, il Friuli, e più giù, gli Stati della Chiesa. Non solo un Regno di Sardegna, sabaudo, espansionista e guerrafondaio che vedeva nelle ricchezze del Sud e subito dopo in quelle dello Stato della Chiesa un modo di pagare i grandi debiti di guerra fino ad allora contratti. Ed anche l’adesione degli altri stati, ampiamente celebrate su lapidi con prosa retorica magniloquente ed enfatica, fu frutto del solito, sordido, manipolato plebiscito, frutto delle trame di pochi, simile a quello che pose il sud nelle mani del nord.
Ricordiamo le parole che Don Ciccio Tomeo dice al Principe di Salina nel “Gattopardo”: ” Io, Eccellenza, avevo votato no. No, cento volte no. …..in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! …..Il mio no diventa un si. Ero un fedele suddito, sono diventato un borbonico schifoso…”.
Si potrebbe parlare a buon titolo di colonizzazione piuttosto che di unificazione. Il sud fu aggregato al nord suo malgrado, con la forza e con la forza si operò la reazione contro chi non accettava di essere governato da sovrani stranieri, lontano da loro per lingua e per cultura. Le grandi capitali del Regno divennero lontane provincie di uno stato gretto e razzista. Ora il bel gioco è finito!
Gli stessi che causarono tanta perdita di sangue nostro e loro, sull’onda di un improvviso, anche se faticato benessere, si sentono defraudati dei loro beni, non vogliono spartirli con nessuno.
Come in una commedia, all’italiana, per l’appunto, dopo aver sedotto con la forza (o violentata? ..o stuprata?), la donna, oggetto dei suoi lascivi desideri di piacere, dopo averne goduto la giovinezza, dopo essersi appropriato delle sue ricchezze, ad un certo punto ce ne si stanca. Non la si vuole più, la si vuole rimandare indietro, immemore dei sacrifici, del lavoro fatto insieme, delle difficoltà superate assieme, dei figli avuti in questi anni di sofferta unione
E la si vuole rimandare ai suoi, nuda, dopo averla depredata delle sue ricchezze, dopo averla ridotta da donna bella e orgogliosa in una timida ed esausta. Anche in una commedia all’italiana una situazione del genere diventa paradossale. Da commedia, appunto. Ma la vita è purtroppo una cosa seria. Non possiamo giocare coi Bossi di turno. Vogliono la separazione, ebbene, che sia!
Venga prima restituito il mal tolto, anche se tante vite, oltre cinquecentomila uccisi e deportati nei dieci anni di lotta al “brigantaggio”, i morti sui confini del nord per difendere soprattutto la loro terra, i cinque milioni che emigrarono fra la fine e l’inizio del secolo e le relative rimesse consumate da uno stato sempre più avido e gretto, i milioni di coloni inviati a popolare le terre d’oltremare, non potranno essere più restituite.
Che vengano restituiti, debitamente rivalutati i 443,2 milioni di lire oro che fu il nostro contributo all’unifi-cazione (altri 200 milioni furono rastrellati con la vendita dei beni ex della chiesa), mentre gli altri stati pagarono: Lombardia 8,2 ml, Ducato di Modena 0,4 ml, Parma e Piacenza 1,2 ml, Roma 35,3 ml, Romagna, Marche ed Umbria 55,3 ml, Sardegna
27 ml, Toscana 85,2 ml, Venezia 12,7.
Vengano restituite le nostre opere d’arte confiscate e deportate, appartenenti ai Farnese e Borbone e per essi al popolo del sud.
Siamo d’accordo per la separazione, nel corso della nostra lunga storia siamo stati capaci di affrontare e risolvere situazioni ben più critiche.
Al riparo da uno stato falsamente assistenzialista, sapendo di dover contare sui nostri mezzi, sapremo ribaltare la situazione, e rendere il nostro sud, vera nazione fin dal tempo dei Conti Normanni, nella memoria del suo grande passato, centro dell’antico Mediterraneo e suo punto di riferimento politico e culturale, ancorchè economico.
I Savoia aiutarono il Sud????
Nazione Napoletana 5/98 – Libertà 26/5/98
Un lettore (ed accademico dei Lincei) in una sua lettera pubblicata da un quotidiano a tiratura nazionale, trova facile trasformare in uno sciocchezzaio tutto quanto non lo trova d’accordo ed in maniera delirante riconduce semplicisticamente ad un solo fattore le numerose, com-plesse, cause che determinarono la grande emigrazione della gente del Sud iniziata dopo la colonizzazione savoiarda e che ebbe il suo massimo a cavallo del secolo.
Trova sciocche le critiche ai Savoia, trova sciocche le esaltazioni dei Borbone (non Borboni), e non trova, invece, sciocco, né ritrovare “…in un po’ d’igiene…” il fattore scatenante il sovrappopolamento delle regioni del Sud, né le sue arzigogolate conclusioni del tipo “Donde, necessariamente, l’emigrazione”.
Se, invece di pavoneggiarsi beandosi della sua partigiana ed approssimativa conoscenza della storia, avesse avuto l’umiltà di leggere i documenti (dico documenti) relativi al periodo che pretende di discutere, non avrebbe avuto la necessità di ricorrere ai luoghi comuni che, diffusi con abbondanza di mezzi e proterva costanza da massoni, inglesi, piemontesi e fuoriusciti, hanno sistematicamente gabellato i Savoia vincitori “santi” ed i Borbone vinti “diavoli”.
Avrebbe potuto cogliere che le grandi emigrazioni furono l’unica e dolorosa soluzione di vita per un popolo che da un momento all’altro si vide privato del Regno e delle capitali e predato dei capitali, delle industrie, dei commerci, delle provvidenze con cui uno stato già allora sociale veniva incontro ai bisogni del suo popolo e che ebbe in cambio nuove tasse ed un impoverimento generale e diffuso.
Esse non furono il frutto della “nuova igiene” nata da un nuovo senso della pulizia (dalla pulizia etnica, poi liquidata come lotta al brigantaggio, forse si) e portata da quei nuovi alfieri della civiltà che depredarono ad oltranza tutto il Sud. E mi pare inopportuno attribuire grandi meriti di civiltà a chi avvallò e premiò (con la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare dei Savoia, ed in seguito con la nomina a senatore) il Gen. Fiorenzo Bava Beccaris, autore dell’eccidio che costò la vita a 80 operai manifestanti (e con oltre 450 feriti. Ma pare che i numeri fossero più elevati).
I Campani, stranieri.
Libertà 28/05/98 – Roma 28/05/98 – Il mattino 29/05/98 – Il Giornale 27/05/98
Prendo spunto da una lettera con la quale un lettore su un quotidiano a tiratura nazionale, stigmatizza il comportamento dei leghisti, che, se pronti ad accorrere in difesa dei minacciati dal misterioso assassino sui treni liguri, non lo sono stati altrettanto a soccorrere i paesi inondati nel salernitano. Si evidenzia così un comportamento da stranieri verso gli Italiani, anzi, si fa risaltare che una parte di aiuti, anche in veste di soccorritori, sono stati forniti dai soldati americani, mentre non una parola di solidarietà è stata udita uscire da bocca leghista. Questo loro estraniarsi è un ennesimo atto di insofferenza da parte di un nord che appena si è visto gratificato da circostanze favorevoli che li ha messo in condizione di poter lavorare e produrre, non ha più tollerato la presenza della gente del sud (forzosamente fratelli poveri) nella stessa nazione che loro hanno voluto. Ci rimproverano di esistere: e si dimenticano che la nostra esistenza, almeno nei termini di Italiani, a loro legati, loro malgrado, nel concetto e nella sostanza di Patria, è stretta conseguenza di quel processo di colonizzazione, millantata come unione, che ebbe inizio nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. I 1089 volontari che seguirono Garibaldi e diretti a compiere l’ultimo atto, frutto e compimento delle manovre che i savoiardi avevano già iniziato da alcuni anni di concerto con gli Inglesi, i Francesi ed i fuoriusciti, erano in maggioranza settentrionali. Per curiosità riportiamo alcune cifre: centosessanta erano bergamaschi, centocinquantasei genovesi, settantadue milanesi e undici degli Stati pontifici, più alcuni veneti; diciotto erano stranieri, fra cui gli ungheresi Eber, Erbhardt, Magyarody, Túrr, Túchkory; i polacchi Laugò e Milbitz; il turco Kadir Bey; il francese Maxime du Camp; gli inglesi Forbes, Speeche e Peard. I napoletani erano oltre quaranta, i siciliani, una cinquantina. I volontari, erano quasi tutti giovani, molti al di sotto dei vent’anni, non c’era un solo contadino; provenivano per circa la metà, dal proletariato urbano; l’altra metà comprendeva soprattutto studenti che in seguito divennero professionisti, e cioè medici, ingegneri, avvocati, professori, artisti, giornalisti. Sono venuti e ci hanno portato la “libertà”; ci hanno imposto (con le armi, sanguinosamente) la loro presenza. Ora il frutto della loro “bravata” non li soddisfa più e vogliono buttarlo. Per motivi diversi e secondo una ottica diversa concordo con loro, ma non esistono più, purtroppo, le condizioni o sarebbero troppo aleatori i risultati di una divisione. Poiché se è questo che si vuole, io penso che il maggior vantaggio l’avremmo noi. Intanto avremmo già uno Stato a cui far riferimento; un Regno delle Due Sicilie è esistito, era grande, era importante, era ricco, e relativamente alla sua epoca, era giusto. Non dovremmo inventare niente, né territori mitici, né deliranti cerimoniali, né popoli uniti solo dall’insofferenza, dall’egoismo e dal razzismo. Abbiamo vissuto e potremmo ancora insegnare la pacifica convivenza fra popoli. La contemporanea presenza sul nostro territorio di bizantini, arabi e normanni è storia ed è storia la grande eredità di cultura e di pacifismo nato e sviluppato da queste grandi irripetibili esperienze.
Le camicie verdi meditino ed imparino.
Feste Farina e Forca???
A 135 anni dalla caduta del Regno delle Due Sicilie e dalla partenza dell’ultimo Re Borbone, ancora taluni citano quei Re e quel Regno quando vogliono evidenziare fatti e similitudini negative.
Sul numero 1 del 1997 della rivista “Sorrisi e Canzoni TV” a pag. 7 una finestra titola: “1997: Diamoci da fare – Ma tutto è già accaduto”. A fianco di una romantica figura in divisa (che non rappresenta certamente Ferdinando II delle Due Sicilie, come dal testo si potrebbe interpretare, bensi forse lo zar Nicola) si legge fra l’altro, “Ferdinando II, il Borbone, per tenere tranquilli i napoletani ricorreva, come è noto, a tre F: forca, festa, farina.” Certamente su questo l’unica cosa vera è che “è noto”, infatti, ripeto, da 135 anni non si tralascia occasione per ripetere e diffondere ingiurie, calunnie, menzogne sul Governo e sulla Dinastia Borbonica. E se mentre questo esercizio aveva una ragione nell’immediata post-unità in quanto doveva giustificare un’aggressione ed un’annessione proditoria e non voluta, conclusione di una guerra mai dichiarata, seguito di una preliminare campagna diffamatoria, non vedo oggi, ripeto a 135 anni di distanza, come uomini di cultura si adagino ancora su frasi fatte ed aneddoti che molte volte non hanno alcuna validità storica.
Riguardo alla Forca, “il numero di grazie concesse da Ferdinando II rispetto all’esiguo numero di esecuzioni fu incredibilmente grande ed è ancora più sorprendente se raffrontato al medesimo argomento in casa piemontese”. Ricordiamo che allora ed in tutta Europa, l’opposizione politica era sistemata con la forca, la mannaia o la fucilazione. Luigi Settembrini, “patriota e perseguitato politico”, che nelle carceri borboniche scrisse le sue “Ricordanze” diceva, dopo l’unificazione, verso il 1870, in una lezione agli studenti: “Figli miei, bestemmiate la memoria di Ferdinando II, è sua la colpa di questo” ed allo stupore di questi, aggiungeva:” Se egli avesse impiccato noi altri, oggi non si starebbe a questo; fu clemente e noi facemmo peggio”. Per il resto citeremo ancora Settebrini: ”Tre cose belle furono in quell’anno (1839), le ferrovie, l’illuminazione a gas, e te voglio bene assaje(la canzone) ”.
Ameremmo che fossero qualche volta menzionati riferendosi ai Borbone Due Sicilie i fatti positivi ad essi legati: Al ministro di polizia Intonti che proponeva di compensare un delatore rispose: “ccà si dammo ‘na cosa ‘e solde a chi ha ‘nventato ‘na riunione ‘e giacubbini nun se fernesce cchiù; nce zeffonnano sotto ‘e denunzie fauze”.
Realizzò mirabili ed imponenti opere pubbliche, fece costruire scuole, accademie, porti, ospizi, fu liberale protettore delle arti. Assieme a comprensibili reazioni (sempre riferite al tempo) che manifestò negli ultimi anni del suo regno, egli per il suo popolo fece così tanto da restare nella storia, e non per le tre F.
Ritorno agli “Staterelli?”
La stampa di questi ultimi giorni riporta, con sempre maggior frequenza, notizie che confermano quanto da lungo tempo penso e dico, e cioè che da sempre l’Italia è un coacervo di stati “appiccicati” fra loro con l’inganno e con la forza e con l’inganno e la forza mantenuti insieme. E’ nota oramai la spinta restauratrice di alcune associazioni cultural politiche che auspicano il ripristino degli “staterelli” ante unità. E non so quanto valida sia l’iniziativa presa proprio in questo momento storico di riesaminare la possibilità del rientro in Italia dei Savoia, artefici di questa artefatta unità, visto che da più parti arrivano spinte separazioniste e restauratrici di, e cito solo alcune, “Serenissima Repubblica Veneta”, “Regno delle due Sicilie”, “Granducato di Toscana”, “Ducato di Parma Piacenza e Guastalla”, “Stato Pontificio” e mettendo addirittura in forse, dandone una diversa e più giusta interpretazione, il pensiero di Cattaneo che auspica una libera federazione di Stati, collegati non al Piemonte, ma all’Austria. D’altronde la notizia dell’ultimo giorno, relativa alla “dichiarazione di indipendenza” con le sue più che legittime motivazioni, presentata dalla Provincia di Ragusa, la dice lunga sullo stato di malessere che questo mosaico di cultura, storia, usi, costumi, per tanti versi eterogeneo, ha nei confronti della “Nazione Italia”.
Credo che tutto questo dovrebbe farci riflettere.
La grande intuizione di Garibaldi
Nella rubrica “Lettere al Direttore” di un quotidiano a tiratura nazionale, leggo a proposito della “Grande intuizione di Garibaldi” la frase ” ..per liberare la Sicilia dai Borboni…”detta da un lettore e ripetuta poi nella risposta a proposito dell’intendimento di Crispi di “liberare la Sicilia dalla tirannide borbonica..”. Intanto mi pare che Borbone sia nome di una famiglia, come Farnese, Savoia, Colonna, e non mi risulta che riferendosi a queste ultime si dica Farnesi, Savoi, o Colonni etc.
Entrando più nello specifico, come più volte ho avuto opportunità di dire, la liberazione è un concetto del tutto opinabile poiché si libera uno stato da una dittatura o da una occupazione conseguente ad un’invasione straniera. Per quanto mi risulta il regno delle Due Sicilie, e la Sicilia per esso, non soffriva di quest’ultima, poiché il Regno, risalente al Gran Conte Ruggiero che nel 1130 ne unificò le terre ponendo i confini che si mantennero fino al 1860, ebbe sempre un continuum organico di Governo che passò dai Normanni agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi, – quindi alla Spagna – e per essa al governo dei Vicerè, fino a quando, nel 1734, dopo un breve vicereame austriaco che nessun riflesso lasciò nella storia plurisecolare del Regno, ebbe finalmente un nuovo Re nella persona di Carlo III, iniziatore della Dinastia Borbone due Sicilie. I Borbone, come tali, governarono per circa 130 anni. Non si può, certo, di fronte alla storia, pensarli come occupanti occasionali.
E per quanto riguarda la dittatura, il periodo in cui i Borbone governarono era un periodo – malgrado i grandi fermenti che già iniziavano – in cui quasi tutti i governi, monarchici, erano assolutisti. La liberalizzazione con un Governo Costituzionale era già frutto in maturazione, ovviamente fra mille difficoltà, tentennamenti, ripensamenti.
La storia comunque avrebbe seguito il suo corso.
In ogni caso non fu mai il popolo che si sollevò, ma solo una parte di quell’intellighenzia e nobiltà che già mirava alle nuove poltrone da occupare, come di fatto poi avvenne, delusa dai ridimensionamenti che il Re aveva avviato e che li riguardava.
La grande intuizione di Garibaldi
Nella rubrica “Lettere al Direttore” di un quotidiano a tiratura nazionale, leggo a proposito della “Grande intuizione di Garibaldi” la frase ” ..per liberare la Sicilia dai Borboni…”detta da un lettore e ripetuta poi nella risposta a proposito dell’intendimento di Crispi di “liberare la Sicilia dalla tirannide borbonica..”. Intanto mi pare che Borbone sia nome di una famiglia, come Farnese, Savoia, Colonna, e non mi risulta che riferendosi a queste ultime si dica Farnesi, Savoi, o Colonni etc.
Entrando più nello specifico, come più volte ho avuto opportunità di dire, la liberazione è un concetto del tutto opinabile poiché si libera uno stato da una dittatura o da una occupazione conseguente ad un’invasione straniera. Per quanto mi risulta il regno delle Due Sicilie, e la Sicilia per esso, non soffriva di quest’ultima, poiché il Regno, risalente al Gran Conte Ruggiero che nel 1130 ne unificò le terre ponendo i confini che si mantennero fino al 1860, ebbe sempre un continuum organico di Governo che passò dai Normanni agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi, – quindi alla Spagna – e per essa al governo dei Vicerè, fino a quando, nel 1734, dopo un breve vicereame austriaco che nessun riflesso lasciò nella storia plurisecolare del Regno, ebbe finalmente un nuovo Re nella persona di Carlo III, iniziatore della Dinastia Borbone due Sicilie. I Borbone, come tali, governarono per circa 130 anni. Non si può, certo, di fronte alla storia, pensarli come occupanti occasionali.
E per quanto riguarda la dittatura, il periodo in cui i Borbone governarono era un periodo – malgrado i grandi fermenti che già iniziavano – in cui quasi tutti i governi, monarchici, erano assolutisti. La liberalizzazione con un Governo Costituzionale era già frutto in maturazione, ovviamente fra mille difficoltà, tentennamenti, ripensamenti.
La storia comunque avrebbe seguito il suo corso.
In ogni caso non fu mai il popolo che si sollevò, ma solo una parte di quell’intellighenzia e nobiltà che già mirava alle nuove poltrone da occupare, come di fatto poi avvenne, delusa dai ridimensionamenti che il Re aveva avviato e che li riguardava.
Damnatio Memoriae
Caro Direttore, la conquista del Sud, oltre ad operare tabula rasa sulla toponomastica borbonica, ha cancellato ogni ricordo anche nel confronti del patrimonio artistico, museale e teatrale del Regno. Oggi esistono gli attributi “Farnese” “d’Este” “Sforzesco” “Gonzaga” etc. riferiti a teatri, palazzi, gallerie mentre p.e. “Borbonico” è stato cancellato dal “Regio Museo” di Napoli che è diventato “Museo Nazionale”, rimanendo però pervicacemente attaccato ad indicare alcune carceri (Catania, Siracusa, Caltagirone, Porto Santo Stefano). E’ impressionante come tale aggettivo continui ad essere utilizzato solo in chiave negativa anche quando ci si riferisce all’operato di uomini che fanno parte di una burocrazia che tutto è fuorché borbonica. Su “Il Giornale” di oggi si legge: “A Bolzano e dintorni abbiamo impiantato una burocrazia borbonica…). Non ci risulta che lo Stato Borbonico abbia mai svolto politica colonizzatrice. Ci si potrebbe riferire con più ragione a quella burocrazia piemontese profetizzata da Francesco Il nel suo ultimo proclama: “Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e Carlo III, le Due Sicilie sono state dichiarate provincie di un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Torino”. Della burocrazia napoletana dice Giovanni Nicotera, uno dei sopravissuti di Sapri: “Il governo borbonico manteneva la legalità ed il rispetto della magistratura e nei processi politici hanno mostrato maggiore indipendenza gli antichi tribunali rispetto ai nuovi:”
Chiudo citando ancora Savarese: “da Garibaldi in poi si è pensato a distruggere e non già ad edificare” riferito naturalmente al modo di governare.
Economia nel Regno
Caro Direttore, ho visto utilizzare, in un articolo comparso sul vostro quotidiano, per definire il basso profilo dell’amministrazione fiscale italiana, l’aggettivo “Borbonico”. Mi chiedo se non sia arrivato il momento di dismettere tali luoghi comuni anche alla luce di verità storiche per troppo tempo ormai taciute.
A parte i vari meriti che l’amministrazione borbonica poteva vantare nel campo dell’economia, dell’industria, del sociale etc. – dice Giacomo Savarese, liberale economista insigne, in un libro pubblicato nel 1862 sullo stato della finanza napoletana: “Il principio governativo … è stato costantemente quello di non gravare i popoli di nuovi tributi, ma al contrario di scemare gli antichi … che la stabilità dei governi riposasse principalmente sul rispetto della proprietà privata; … per domandare al cittadini i minori sacrifizii possibili a nome dello stato. Or se vi è un paese dove questa regola sia stata sempre applicata, noi non temiamo di affermare che questo paese è stato il Regno delle due Sicilie, la cui amministrazione per questa parte, noi possiamo avere il legittimo orgoglio di citare come esempio degno di essere imitato.”
A completamento di informazione diremo che soltanto cinque erano le tasse che si pagavano nel Regno: Contribuzione fondiaria, Dazi indiretti, Registro e bollo, Lotterie, Poste e procacci. Va da sé che i meno abbienti non erano tassati. In un solo anno, nel 1861 (dopo la conquista piemontese) le tasse aumentarono con l’introduzione di altre 36 .. e da allora non si è più smesso.
Antonio Nicoletta
E se l’unità fosse venuta dal Sud?
Ad un lettore di Treviso che su un quotidiano nazionale rimbecca un lettore di Palermo asserendo che se anche è vero che nel sud della Magna Grecia le donne vestivano di seta mentre nel nord si abitava in caverne e si vestiva di pelli, ora il nord (grazie tante) sovrasta il sud per presenza di teatri, stilisti di moda, attività lavorative etc.
Avrei voluto vedere se la cosiddetta unità di Italia fosse stata realizzata al contrario, anzi, meglio, se il Sud, quello della Magna Grecia, quello degli Arabi, quello dei Normanni e degli Svevi, quello di Federico II, quello che aveva il primo parlamento mentre nel nord ancora si andava in giro coperti di pelli e si abitava in grotte, fosse stato lasciato libero di vivere la sua vita, di seguire il suo percorso di civiltà, di continuare la sua storia senza aver dovuto pagare il suo tributo di denaro e di sangue ad un’unità certamente non voluta dalla maggioranza del popolo, e che è servita solo a camuffare spoliazioni in termine di denaro, opere d’arte, macchinari, intelligenze.
Vorrei vedere dicevo, se il nord potrebbe ancora vantare con tanta sicumera e leggerezza il primato nei teatri (ricordatevi che il San Carlo di Napoli (costruito nel 1737) era conosciuto in tutto il mondo quando ancora la Scala nemmeno esisteva (nasce nel 1778), nelle industrie, nate anche grazie alla spoliazione delle fabbriche di Pietrarsa, San Leucio, Ferdinandea, e grazie alle commesse privilegiate e della protezione del nuovo stato unitario a tutto svantaggio del meridione. Per quanto riguarda la moda, le stesse industrie e tutto quanto costituisce motivo di vanto dell’amico di Treviso, è certo che tutto è solo frutto del lavoro e delle intelligenze padane? Ci pensi, e pensi che non tutta la mafia nasce e vive nel meridione, ma esistono tanti altri tipi di mafia in colletto bianco e in doppio petto, anche nel nord, che consente l’esistenza e lo sviluppo di quella del sud.
Antonio Nicoletta
fonte
http://www.adsic.it/2003/07/18/lettere-ai-giornali/#more-174