AL SUD FU UNA VERA E PROPRIA PULIZIA ETNICA E I CAMORRISTI DIVENTANO POLIZIOTTI
Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all’indomani dell’Unità d’Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 “per la repressione del brigantaggio nel Meridione”.
Questa legge istituiva, sotto l’egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca: le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall’emigrazione forzata, nell’inesorabile comandamento di destino: “O briganti, o emigranti”.Deportazioni, l’incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di “briganti”) costretti ai ferri carcerari. Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati “vinti”. Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell’esercito borbonico (su un giornale satirico dell’epoca era rappresentata la caricatura dell’esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l’ufficiale con la testa d’asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì “Depositi d’uffiziali d’ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie”. La Marmora ordinò ai procuratori di «non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l’assenso dell’esercito». Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l’intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S.Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S.Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.
In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di “correzione ed idoneità al servizio”, i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.
Come in Sicilia con alcuni mafiosi , anche a Napoli i dodici capi quartiere della camorra assicurarono a Garibaldi un ingresso tranquillo in città, poi alcuni di loro furono ricompensati ottenendo un incarico nella polizia o nella guardia nazionale.
Nel loro innovativo ruolo di “tutori dell’ordine”, i camorristi furono stati dotati di una coccarda tricolore come segno di riconoscimento.
Quando Garibaldi arrivo in treno alla stazione di Napoli Garibaldi lo salutarono Liborio Romano, nella sua nuova veste di ministro garibaldino (è stato il ribaltone più fulmineo della storia italiana) davanti a una folla enorme. il Generale sale su una carrozza assieme a fra’ Giovanni Pantaleo (lo stravagante cappellano dei Mille), Agostino Bertani (il medico che, alla fine dell’avventura, sarà uno degli uomini più ricchi di Lombardia), il conte Giuseppe Ricciardi e il patriota calabrese Demetrio Salazaro.
Con loro ci sono, in posizione di evidente privilegio, anche i nuovi amici: Tore ‘e Criscienzo
e i suoi luogotenenti Michele ”’O chiazziere” (il collettore delle tangenti) e “O schiavuttiello”. La presenza del “capo” e dei “capipanza” garantisce a Garibaldi l’incolumità e alla Camorra una nuova autorevolezza
Nei giorni seguenti Garibaldi assegna riconoscente alla Camorra un contributo di 75.000 ducati (circa 17 milioni di Euro) da “distribuire ai bisognosi del popolino” e poi attribuisce una pensione vitalizia di 12 ducati mensili (circa 2.700 Euro) a Marianna de Crescenzo (pudicamente indicata sulla delibera come Marianna la Sangiovannara, sorella di Tore e proprietaria della bettola dove si riuniva il vertice malavitoso), Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher e Pasquarella Proto, e cioè all’intero gotha femminile del simpatico sodalizio partenopeo.
Ma quel che è peggio, Garibaldi “sdogana” la Camorra e ne consacra l’autorità e l’immagine di fronte al popolo umiliando l’autorevolezza delle forze di polizia. Aveva fatto lo stesso in Sicilia con la Mafia, in una disinvolta e patriottica interpretazione del “fine che giustifica i mezzi”. Ed è stato solo il primo di una lunga lista di potenti che hanno avuto strani compagni di merende.
Quando si invoca oggi il ritorno dell’autorità dello Stato nella Napoli devastata dalla Camorra, si dimentica che la prima (e sempre esaltata) apparizione locale dello Stato italiano ha avuto il volto strafottente dei camorristi, con coccarda tricolore e un dito alzato. Allora era l’Indice.
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