Alle origini di mafia e camorra
Tre uomini, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, il 25 giugno 1857, insieme ad altri ventiquattro compagni rivoluzionari, si imbarcarono su un piroscafo di linea diretto a Cagliari; lo scopo era quello di prenderne il comando e liberare i detenuti del carcere di Ponza, per creare un esercito in grado di liberare il Sud dalla dinastia dei Borbone. Rinchiusero il capitano della nave a vapore nella sua cabina e si armarono coi fucili e le munizioni che trovarono nella stiva. Giunti sull’isola laziale, liberarono i 323 detenuti che, impugnando le armi, si diressero verso Sapri. Allertati dal governo di Napoli, il quale aveva sparso la notizia che quella di Pisacane era una banda di delinquenti e assassini evasa da Ponza, i sapresi si schierarono dalla parte del Re. Deluso, il napoletano di idee mazziniane decise di puntare verso Napoli, mentre stanco e sfiduciato ripensava al suo testamento, composto alla viglia della spedizione: “Il primo dovere di un patriota è quello di agire. Se non riesco, disprezzo profondamente l’uomo ignobile e volgare che mi condannerà. Se riesco, apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza”.
Il 1° luglio, mentre era in marcia verso il Cilento, il piccolo esercito rivoluzionario che intendeva liberare quelle povere e analfabete masse contadine dal Regno dei Borbone, venne attaccato da quegli stessi uomini che intendeva sollevare contro Ferdinando II. Pisacane fu gravemente ferito e, con le ultime forze, si diresse dietro a un albero, dove si uccise con un colpo di pistola. Tre anni dopo, Giuseppe Garibaldi venne accolto trionfante da quegli stessi contadini e l’impresa dell’esercito di Pisacane fu dimenticata. Nel libro “La mala setta” di Francesco Benigno, edito da Einaudi, l’autore racconta come da quell’insurrezione nacquero, o meglio, si rafforzarono quelle organizzazioni criminali che oggi prendono il nome di cosa nostra. “Non bisogna credere che un bel giorno nei vicoli di Napoli sia nata spontaneamente la camorra, e si sia data un’organizzazione. Non è la storia. La sua nascita e la sua crescita sono intrecciate alla nascita e al formarsi dello Stato unitario”, dichiara Benigno in un’intervista rilasciata a Vincenzo Esposito.
Nel dicembre del ’61, a nove mesi dall’unità d’Italia e dopo la morte di Cavour, il deputato Angelo Brofferio alla Camera fece scoppiare un caso, accusando le forze di pubblica sicurezza, e che “la maggior parte dei disordini che succedono in Italia si devono attribuire a costoro”. E aggiunge: “Il governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie. Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l’impunità, dividendo colla polizia l’infame bottino”. Nei giorni convulsi della transizione dal regime borbonico a quello sabaudo, Garibaldi affidò l’ordine pubblico a un uomo di fiducia di Francesco II, Liborio Romano. Spregiudicato, costituì una guardia in grado di mantenere l’ordine in quella situazione di emergenza e arruolò gente del popolo, uomini d’azione abili nell’esercizio delle armi e abituati all’uso della violenza; tra questi vi erano i più rinomati caporioni, cinici vessatori identificati dall’appellativo comune di camorristi. E, cosa fosse questa camorra, lo scrisse in quei giorni Silvio Spaventa, responsabile della polizia: “La camorra è una setta di birboni, che ha capi, gerarchia, affiliati, mezzi e titoli d’ammissione, gli atti di ferocia, di bravura, il disprezzo delle leggi, delle pene, dell’infamia. La trovi nelle prigioni, nelle case di prostituzione, di giuoco; era organizzata in tutti i reggimenti dell’esercito borbonico, dovunque regna il vizio e la corruzione”.
Col tempo, i camorristi occuparono sempre più cariche nei grandi ingranaggi della macchina amministrativa sabauda e i giornali del Regno guardarono positivamente all’evento, come un segnale di mutamento della contadina e povera plebe partenopea. Gli accordi tra Stato e capi della malavita risultavano sempre più frequenti e qualcuno, come l’ex procuratore borbonico a Palermo Diego Tajani, mise in guardia dal fenomeno: “Il negare che la mafia non esista significa negare il sole; è qualche cosa che si vede, che si sente, che si tocca pure troppo. I mafiosi non sono altro che oziosi i quali non hanno mestiere di sorta ed intendono di vivere e talora anche di arricchire per mezzo del delitto”. Sorde dinnanzi al pericoloso fenomeno, Destra e Sinistra continuavano a trattare mentre la situazione si aggravava. E quegli uomini, descritti da Brofferio come assassini, misero momentaneamente da parte le bombe, per poi rispolverarle quando un affare, una concessione o un favore veniva loro negato da parte degli uomini dello Stato italiano.
Stefano Poma
fonte
luniversaleditore.it