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Amore e Psiche, ovvero: l’anima innamorata dell’eterno

Posted by on Giu 11, 2019

Amore e Psiche, ovvero: l’anima innamorata dell’eterno

La celebre favola di Apuleio nasconde un profondo significato allegorico: come Lucio, anche Psiche è stata mossa da un’insana curiositas. Solo dopo un cammino difficile, costituito da prove che la portano alla purificazione, l’anima arriva a congiungersi con la divinità.

La storia di Amore e Psiche, raccontata da un’anziana custode del rifugio ove sono stati condotti da una banda di ladri prima Lucio e più tardi una ragazza di nome Carite, è collocata tra il IV e il VI libro del Metamorphoseon libri XI (“Le metamorfosi”) di Apuleio.

L’incipit è tipico di una favola per bambini:

Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat.

In traduzione italiana l’inizio suona così:

Vi erano in una città un re e una regina. Questi avevano tre bellissime figliuole. Ma le due più grandi, quantunque di aspetto leggiadrissimo, pure era possibile celebrarle degnamente con parole umane; mentre la splendida bellezza della minore non si poteva descrivere, e non esistevano parole per lodarla adeguatamente.


Un periodare semplice e paratattico introduce una vicenda ambientata in un luogo immaginario imprecisato («quadam civitate») i cui protagonisti rimangono altrettanto indeterminati, senza nome: un re, una regina e le tre figlie di notevole bellezza («forma conspicuas»), in particolare la minore («tam precipua», «tam praeclara pulchritudo»). La sua bellezza è ineffabile, non esprimibile a parole, perché il vocabolario è carente di termini.

Abitanti della città e forestieri accorrevano, alla fama della sua bellezza, per vedere la ragazza; ammutolivano e la additavano come una dea, novella Venere, generata dal mare e «nutrita dalla rugiada degli spumeggianti flutti», discesa ora dal cielo per abitare tra gli umani «adorna del fiore verginale».

Ingelosita, Venere inviò il figlio Cupido (Amore) perché Psiche si innamorasse dell’uomo più mostruoso; Cupido sbagliò, però, la mira e colpì il proprio piede e s’innamorò perdutamente della fanciulla. Intanto, il padre portò la bellissima ragazza su una rupe, perché l’oracolo di Apollo gli aveva così ordinato:

Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla ed esponila, o re, su un’alta cima brulla. Non aspettarti un genero da umana stirpe nato, ma un feroce, terribile, malvagio drago alato che volando per l’aria ogni cosa funesta e col ferro e col fuoco ogni essere molesta. Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui, orrore ne hanno i fiumi d’Averno e i regni bui (IV, 33).


Zefiro, però, la prelevò e la depose su un prato. Cupido la portò, poi, in un castello dove la incontrava e la amava tutte le notti, senza che Psiche potesse vederlo in volto. Un giorno, le sorelle, invidiose, suggerirono a Psiche di guardare in volto il suo amante.

Allora Psiche […], tratta fuori la lucerna e brandito il pugnale, diviene audacemente virile. Ma, non appena per l’apparire del lume si chiarirono i segreti del tàlamo, vide la belva più mite e più dolce fra tutte le fiere, lo stesso leggiadro dio Amore leggiadramente addormentato, per la cui sembianza gioioso si avvivò anche il lume della lucerna e balenò il pugnale della sacrilega fiamma (V, 22).


Psiche impietrì, si rese conto di aver diffidato dell’amante, avrebbe voluto pugnalarsi

e l’avrebbe fatto se il ferro, per timore di sì grave delitto, sfuggendole dalle mani temerarie non fosse balzato lontano (V, 22).

Nella favola gli oggetti sono personificati, animati, agiscono e si muovono come avessero un’intelligenza o una mente. Psiche contemplò al lume della lucerna la bellezza del dio, maneggiò le sue armi e le rimirò. Così leggiamo nel testo latino:

Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat (V, 23).


Il linguaggio è baroccheggiante ante litteram, irto di figure retoriche ardite, di poliptoti («in Amoris incidit amorem», «cupidine fraglans Cupidinis»), di anagrammi («rimatur» e «miratur»). Apuleio è un fine cesellatore del discorso e della parola. La traduzione non riesce a testimoniare adeguatamente la ricercatezza stilistica:

Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi (V, 23).


A questo punto anche la lucerna si animò, divenne personaggio negativo: mossa da invidia o perché desiderosa anch’essa di toccare il corpo di Amore, la lucerna fece cadere una stilla d’olio ardente sull’omero destro del dio. Amore si risvegliò e volò lontano dall’amata. Psiche cercò Amore, si recò in diversi templi fino a giungere a quello di Venere che la sottopose a tante prove. Psiche meditò addirittura il suicidio. Alla fine la situazione si risolse grazie all’intervento di Amore e di Giove: Psiche, assunta tra le divinità, divenne eterna sposa di Amore.

La favola nasconde un profondo significato allegorico: come Lucio, anche Psiche è stata mossa da un’«insana curiositas»; solo dopo un cammino difficile, costituito da prove che la portano alla purificazione, l’anima arriva a congiungersi con la divinità.

Nel Medioevo la storia diventa emblema dell’immortalità dell’anima, nel Rinascimento della spensieratezza, nella contemporaneità della crisi dell’uomo e del mondo antico, alla ricerca di una certezza che non si ritrovava più nella religiosità romana tramandata.

La fortuna della storia nei secoli documenta l’estrema ricchezza della favola: letterati (Chiabrera, Marino, Pascoli, ecc.), pittori (su tutti Raffaello, Giulio Romano, Correggio e Caravaggio), scultori (Canova) sono stati da sempre affascinati dalla vicenda dell’anima umana che è innamorata dell’assoluto, dell’eterno e dell’amore.

Giovanni Fighera

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