ANALISI DEL COMBATTIMENTO DI CALATAFIMI

Lo scontro di Calatafimi del 15 maggio 1860 fu di piccole dimensioni è non può assumere la qualifica di battaglia, per numero di uomini impiegati, per estensione del terreno occupato, per manovre svolte, per perdite. La brigata Cacciatori delle Alpi comandata da Giuseppe Garibaldi era tale solo di nome, perché era costituita da due soli striminziti battaglioni, quattro cannoni, un piccolo reparto del genio e priva della cavalleria. Aveva in forza 1089 garibaldini e circa 500 insorti agli ordini di Sant’Anna.
Si consideri che una brigata dell’esercito piemontese o di quello napolitano aveva almeno 3000 uomini, artiglieria, cavalleria e genio. La brigata del generale Francesco Landi aveva in forza tre battaglioni di fanteria, due sezioni d’artiglieria e uno squadrone di cavalleria, per un totale di 3344 uomini secondo il patriota di Calatafimi Pietro Adamo, comunque un numero verosimile considerando gli organici delle unità.[1]
Garibaldi impiegò in battaglia tutti i suoi garibaldini e solo la metà degli insorti, quelli equipaggiati con armi da fuoco, dunque in totale circa 1300 uomini. Landi inviò sul campo sei compagnie e due cannoni, poi rinforzati da quattro compagnie e, infine, da altre quattro, per un totale di 2172 uomini impegnati, sempre secondo l’Adamo.[2]
Una domanda da porsi è sul numero reale dei militari napolitani impiegati sul campo di battaglia di Pianto Romano. Furono oltre duemila come affermato dalle fonti garibaldine e riportato dallo storico Piero Pieri i circa seicento come narrano le fonti borboniche?
Il rapporto sul combattimento di Pianto Romano fu scritto dal generale Landi in tre versioni. Colpiscono le differenze della consistenza degli uomini impiegati. Nella prima bozza scrisse «sei compagnie della mia colonna sono uscite di scoverta, e giunte a portata di fuoco si sono attaccate coi rivoltosi», nella seconda scrisse «La metà della mia colonna è uscita di scoverta… (il che darebbe 10 compagnie, delle 20 che formavano la colonna), infine nella relazione definitiva diede per impegnate 14 compagnie. Si potrebbe pensare che il generale, cui specialmente il magg. Sforza imputava di non averlo abbastanza sostenuto, abbia volutamente aumentato, nei successivi suoi scritti, l’entità delle forze impegnate in combattimento.
Lo scrittore di fede borbonica Giacinto De Sivo scrisse di quattro compagnie (due di cacciatori, una di carabinieri e una di fanti del 10° di linea) per circa 500 uomini.[3]
L’ufficiale di Stato Maggiore Tommaso Cava scrisse nel suo saggio sulla campagna del 1860-61 che le compagnie impiegate furono quattro dell’8° cacciatori, spiegando che la sconfitta fu dovuta al tradimento di Landi.[4] Anche il cappellano militare del 9° battaglione cacciatori, don Giuseppe Buttà, scrisse di quattro compagnie di cacciatori e riportò la voce sul tradimento di Landi.
Si consideri che nei combattimenti di Palermo i borbonici avevano a disposizione circa ventimila uomini, contro i tremila di Garibaldi, appoggiati in parte dalla popolazione. A Milazzo si scontrarono circa cinquemila garibaldini di Medici contro oltre tremila borbonici di Bosco. A Reggio i tremila uomini di Bixio contro seicento di Dusmet. L’unico vero scontro della campagna meridionale che può definirsi battaglia fu quello del Volturno, dove trentamila napolitani del maresciallo Ritucci tentarono di sfondare le linee difese da 23 mila garibaldini. Lì Garibaldi dimostrò di non essere solo un capo guerrigliero, ma un vero e proprio generale, conoscitore di strategia, di tattica e di psicologia, e capace nell’utilizzo delle riserve.
Com’è possibile che oltre duemila soldati regolari ben addestrati e ben armati furono sconfitti da 1300 militi irregolari, per lo più armati di vecchi fucili ad anima liscia?
L’intera strategia del comando borbonico di Palermo fu poco chiara e confusa. Infatti, il piano di difesa deliberato dal Consiglio dei Generali del 14 maggio, notificata a Landi l’indomani, rinunciava alle colonne mobili e si affidava a una forte linea difensiva attorno a Palermo:[5]
Tattica di difesa sanzionata dal Consiglio generalizio. Giungono in Palermo da Napoli i rinforzi di regie truppe. Essendo risoluto nell’odierno consiglio di generali, attesa la compiuta rivoluzione morale dell’isola, di non convenire sperperamene di forze contro masse indisciplinate; ma invece esser utile di raccogliere un corpo di esercito imponente nelle vicinanze di Palermo, punto strategico, si fanno occupare Parco, e Villabate da forti colonne militari, cavalleria, ed artiglieria, facendo ripiegare il generale Landi a Partinico, e il generale Rivera a Caltanissetta. (Disp. Luogot. data d’oggi). Mancanza di comunicazioni; – e di undici corrieri inviati a Corleone, niuno è tornato: i distretti di Termini, e di Cefalù infestati da bande: rotti i telegrafi – (idem).
Landi ebbe ordini contraddittori e la mattina del 15 maggio effettuò delle azioni poco logiche: inviò verso Salemi una colonna troppo forte per limitarsi a una ricognizione e troppo debole (6 compagnie per circa 900 uomini) per affrontare le forze di Garibaldi. Il maggiore Michele Sforza, che comandava la colonna, sottovalutò la forza del nemico e, disobbedendo agli ordini, attaccò senza attendere rinforzi. Il primo assalto lo sviluppò con sole due compagnie, circa 300 uomini, che si vennero a trovare in netta inferiorità numerica nel primo scontro, quando cercarono di salire sul Pietralunga. Man mano giunsero i rinforzi, ma oltre mille fanti, la cavalleria e due cannoni napoletani rimasero di riserva a Calatafimi, poiché Landi temeva di essere preso alle spalle dagli insorti. Sforza, nonostante la superiorità in uomini e armi, non riuscì a sviluppare un contrattacco e si limitò a difendere i gradoni del Pianto Romano.
Lo storico Piero Pieri, nel suo ottimo e ben documentato saggio Storia militare del Risorgimento, come spiegazione della sconfitta borbonica scrisse:[6]
Da parte borbonica era mancata la necessaria azione di coordinamento degli sforzi, e ciò perché l’azione era stata concepita dal comando come una semplice ricognizione e non era poi stata adeguatamente rincalzata e sostenuta. D’altra parte il maggiore Sforza aveva iniziato l’azione partendo da una sottovalutazione quasi pazzesca dell’avversario che aveva di fronte e il combattimento poté iniziarsi da parte garibaldina come un’azione difensiva-controffensiva, la forma più forte del combattimento; e fu guidata da Garibaldi, il quale si trovò ben coadiuvato dai suoi ufficiali, ma seppe essere non solo un trascinatore e mostrare mirabile tenacia nel momento decisivo, ma portò a far gravitare molto opportunamente l’azione sulla destra, utilizzando il terreno meno ripido e l’apporto diretto di circa 200 siciliani, più la minaccia avvolgente delle bande”.
Lo storico pugliese Raffaele De Cesare[7] così scrisse nella sua opera La fine di un regno:
I due eserciti, i quali si trovavano di fronte in Sicilia, erano tanto diversi l’uno dall’altro, né solo per numero, ma per lo spirito che li animava e per la causa che difendevano. Da una parte, l’ardimento più cieco, la temerità sino all’eroismo e una fede apostolica nella causa per cui combattevano, e alla quale, salpando da Quarto, i Mille avevano fatto sacrificio della propria vita. Dall’altra, un esercito numericamente grosso, ma senza ideali, senza capi, né solida organizzazione e destinato a combattere solo per la causa del re, il quale non era più Ferdinando II. Da una parte un duce, creduto invitto dai suoi soldati e dai suoi nemici, circondato dalla leggenda e il cui nome ricordava, purtroppo, quella fatale ritirata di Velletri, che non fu una fuga, ma ne ebbe tutta l’apparenza: ritirata, la quale dié all’esercito napoletano il sentimento della propria impotenza a combattere un nemico non pauroso della morte. Dall’altra parte, vecchi generali, brontoloni e scettici, i quali non si stimavano, anzi, come napoletano costume, si diffamavano l’un l’altro, apparendo peggiori di quel che realmente fossero e repugnanti dal fuoco, anzi da ogni periglio. La volontà di Garibaldi non si discuteva dai suoi militi, i quali, pur essendo un’accolta di uomini non tutti atti alle armi, o che nelle armi facevano le prime prove, consideravano la disciplina militare come una religione. Combattevano con la certezza di avere per sé il favore delle popolazioni di tutta l’Italia, e alle loro spalle il Piemonte, nonché le simpatie dei popoli liberi del mondo. I soldati napoletani non solo erano certi del contrario, ma discutevano gli ordini; anzi ne diffidavano, e quasi ogni ufficiale, dal canto suo, cercava di non eseguirli di propria testa. Era insomma un immenso disastro morale.
Riassumendo, per De Cesare la superiorità dei garibaldini sui napolitani stava nello spirito che li animava, nelle superiori capacità e carisma di Garibaldi rispetto ai generali borbonici, nella disciplina accettata con fede dai volontari, compromessa nell’esercito di Napoli.
Bixio, l’ufficiale garibaldino più ardito, non riuscì a spiegarsi la vittoria. Così scrisse alla moglie:
Ieri combattimento d’incredibile ostinazione davanti al paese da cui ti scrivo. I Regi con 3 mila uomini, 4 pezzi, 50 uomini di cavalleria furono cacciati da cinque posizioni e finalmente dalla città. Come abbiamo potuto farlo non c’è che Garibaldi che possa immaginarlo prima ed ottenerlo dopo.
Dunque, egli motiva l’esito positivo dello scontro soprattutto con le capacità di comando di Garibaldi. Certamente le qualità strategiche, tattiche, morali e di coraggio fisico di Garibaldi sono difficilmente riscontrabili negli ufficiali borbonici che lo affrontarono, tanto meno le possedeva Landi, un vecchio malato che aveva trascorso una tranquilla carriera nelle guarnigioni del Regno.
A supportare tale tesi c’è il pensiero dell’ufficiale garibaldino Giuseppe Guerzoni, bresciano, docente di filosofia e letteratura:
Quel pugno di uomini trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovata ancora in quelle maliarde parole la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, riprese, come gli era stato ordinato, la sua salita micidiale; risoluto all’ecatombe…. e come l’eroe aveva previsto, la fortuna fu di loro. Incalzati nuovamente di fronte a quel branco di indemoniati che pareva uscissero da sottoterra, sgomenti dall’improvviso rombo dei cannoni che Orsini era finalmente riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i borbonici disperano di vincere, e voltate per la settima volta, le spalle, abbandonano il monte e si precipitano a rifugiarsi dentro Calatafimi.
Il trentino Egisto Bezzi, guida garibaldina, così spiegò in un’intervista la vittoria di Calatafimi:
I napoletani dalla cima del colle potevano sparare su di noi con un’ottima mira. E come non ci finirono tutti? Per questo: noi inseguivamo dappresso i napoletani scesi ad attaccarci, e — inseguendoli di scaglione in iscaglione — stavamo quasi avvinghiati a loro: alcuni si voltavano e tiravano a bruciapelo, ma gli altri — lassù. — non osavano sparare per non colpire con noi anche i loro che si ritiravano… Così fummo salvi.
Dunque, l’ardore dei garibaldini, capaci di avanzare alla baionetta e di tenere sempre sotto pressione il nemico fu decisivo per la vittoria.
Ebbero importanza anche le motivazioni e gli ideali dei combattenti. I garibaldini erano tutti patrioti volontari, molti dei quali reduci da altre campagne. I soldati borbonici erano in parte di leva, altri soldati di mestiere o a lunga ferma, sudditi che nell’esercito trovavano il pane e un tetto. Tennero duro sotto l’assalto dei volontari garibaldini, e nel combattimento si distinsero parecchi di essi per valore, tra i quali i tenenti Pasquale Ricottillo, Federico Scarano, Giuseppe Di Napoli e Giovanni Colucci, gli alfieri Quirino Maio, Luigi Di Jorio e Paolo Federico Corsi. Però, quando lo scontro divenne un corpo a corpo con le baionette, cedettero.
Garibaldi scrisse così nelle sue memorie:[8]
I pochi filibustieri, senza galloni o spalline, e di cui si parlava con solenne disprezzo, avevano sbaragliato più migliaia delle migliori truppe del Borbone, con artiglieria ecc., comandate da un generale di quelli, che come Lucullo, mangiano il prodotto d’una provincia in una cena.
È anche interessante conoscere il giudizio della parte avversa, in particolare di un ufficiale dello Stato maggiore borbonico come Giovanni Delli Franci, che spiega la sconfitta di Calatafimi con due cause, una l’ambiente ostile ai soldati napolitani, l’altra l’imperizia e la mancanza di decisione di Landi che non occupa la forte posizione del castello e non impiega nello scontro tutte le truppe:[9]
Di valore inimitabile, di animo maggior del cimento a fronte del nemico, si rendettero chiare le milizie Reali nella breve ma sanguinosa lotta che sostennero. E conviene por mente, che il soldato che combatte la rivoluzione è la vera vittima del sacrificio, avvegnaché tutto gli cospira intorno per abbatterlo, la forza materiale, l’odio dei rivoltosi, la terra stessa che calpesta. La giornata si decise in favore degli insorti, che si componevano di garibaldini ed indigeni insulari: tristo effetto che condannerà sempre il generale Landi, già giudicato dalla pubblica opinione. Da lui solo dipendeva salvare il Reame dalla crisi politica di cui era minacciato, ma Egli non volle, o non seppe far tesoro delle favorevoli condizioni in cui si trovava. Imperoché, mentre da un canto mise in combattimento poche forze del valoroso ottavo battaglione dei cacciatori, tenendo altre truppe inoperose, dall’altro non sapremmo dire perché non occupò il fortissimo castello che domina la via di Calatafimi, per la quale doveva passare l’avversario. E questi due errori furono la cagione dello sfavorevole esito del combattimento; dappoiché resero la soldatesca che combatteva inferiore per numero al nemico e tolsero ad essa il vantaggio d’una importante posizione, mentre si poteva agevolmente circuirlo e vincerlo nelle prime sue mosse. […] Ma ricevuto l’improvvido ordine di ritornare a Palermo, si ritirò per la via di Partinico, di che maravigliavasi lo stesso avversario, il quale ne lasciò scritto per le stampe. «Così un corpo numeroso, disciplinato ed agguerrito, fuggiva innanzi ad un pugno di gente, abbandonando una posizione pressoché invincibile.»
Volendo sintetizzare le motivazioni sull’inaspettata sconfitta borbonica di Calatafimi appena analizzate, si potrebbe dire che i militi dei due contendenti partivano da motivazioni molto diverse; che profondamente diversi erano i loro condottieri, Garibaldi e Landi, per capacità tattiche, per temperamento, per coraggio, per personalità; che i garibaldini erano appoggiati dalla popolazione, mentre i borbonici erano ostacolati e aggrediti; che il comando borbonico di Palermo non aveva le idee chiare su come combattere lo sbarco nemico e gli insorti, emanando, di conseguenza, ordini contraddittori e inadeguati. Aggiungerei che preambolo alla crisi militare del 1860 fu la crisi politico-economica del Regno, amministrato in quella fase dal governo dell’anziano principe siciliano Antonio Statella, il quale dimostrò di non avere né la forza né la capacità di affrontare quella difficile situazione.
Pur non essendo stato uno scontro di grosse proporzioni, Calatafimi ebbe un valore strategico, morale, psicologico e politico decisivo per tutta la campagna e per la fine del Regno delle Due Sicilie. La vittoria ebbe i seguenti effetti: incoraggiò gli insorti siciliani che attaccarono le colonne e le guarnigioni borboniche in diversi punti; nacque il mito dell’imbattibilità di Garibaldi; provocò il panico nel comando militare di Palermo e nelle istituzioni borboniche dell’isola; spinse il governo piemontese ad aiutare la spedizione e a permettere la partenza di armi e rinforzi verso la Sicilia.
Sugli effetti della vittoria di Garibaldi a Calatafimi, lo storico Piero Pieri scrisse:[10]
La sua non fu come suol dirsi una battaglia d’annientamento; il nemico poté ritirarsi con perdite relativamente lievi e senza essere molestato. Ma non era una guerra regolare: questa era una guerra in cui importava soprattutto non l’annientamento di tre o quattro battaglioni nemici, sopra una trentina a disposizione del Comando avversario in Palermo, ma un successo morale tale da rianimare veramente tutta l’insurrezione della Sicilia occidentale e da permettere un coordinamento fra l’azione del corpo scelto dei Mille, l’azione delle bande e quella immancabile ormai della capitale.
La colonna Landi, lasciata Calatafimi prima della mezzanotte del 15, entrava in Alcamo alle 2 a.m. del 16 maggio e ripartiva tre ore dopo per Partinico. Il vecchio generale borbonico fu incapace a eseguire una ritirata ordinata. I reparti ippotrainati di carriaggi e artiglieria si mischiarono con la fanteria, poi la superarono, lasciando i soldati senza viveri. Ciò obbligò i regi a compiere requisizioni forzate ai danni della popolazione, spesso usando la violenza. Appena si sparse la voce della sconfitta borbonica e delle requisizioni, la popolazione si preparò alla rivolta.
Quando la colonna Landi giunse a Partinico, cittadina a una cinquantina di chilometri a ovest di Palermo, la gente era pronta a difendere le loro scorte alimentari e iniziò un tiro di fucileria contro i regi[11], i quali reagirono con estrema violenza, appiccando il fuoco alle case con le persone all’interno. Per sganciarsi, Landi usò anche i cannoni e la cavalleria, riuscendo a ritirarsi verso Montelepre, dove fu nuovamente attaccato dagli insorti. La colonna, con gravi vuoti, molti feriti, soldati laceri, affamati e demoralizzati, entrò a Palermo all’alba del 17 maggio, precipitando nello sgomento le autorità.
A Partinico erano rimasti indietro dei soldati borbonici, alcuni dei quali feriti. Molti di essi furono torturati e bruciati dalla popolazione, poi dati in pasto ai cani. Quindici furono imprigionati da qualche paesano più pietoso e furono consegnati a Garibaldi il 18 maggio. Il bilancio finale dello scontro di Partinico per i regi fu di 40 caduti e 15 prigionieri.
Abba giunse a Partinico con la colonna garibaldina e questo è l’atroce spettacolo che vide e che scrisse:[12]
Era meglio rompersi il petto, ma varcare la montagna, scansare Partinico. Si saliva l’erta su cui sorge il villaggio, e il po’ di vento che rinfresca l’aria ci portava già a ondate un fetore insopportabile. Appena in cima, ci affacciammo alla vista della città, arsa gran parte e fumante ancora dalle rovine. La colonna da noi battuta a Calatafimi s’azzuffò cogli insorti di Partinico, gente eroica davvero. Incendiato il villaggio, i borbonici fecero strage di donne e di inermi d’ogni età. Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani morti e squarciati fra quelli. Al nostro arrivo, le campane suonavano non so se a gloria o a furia; le case fumavano ancora; il popolo esultava tra quelle ruine; preti e frati urlavano frenetici evviva. Le donne si torcevano le braccia furenti; e intorno a sette od otto morti, rigonfi e bruciacchiati, molte fanciulle danzavano come forsennate a cerchio, tenendosi per le mani e cantando. Quei morti erano soldati. Il Generale spronò tirando via e calandosi il cappello sugli occhi. Noi tutti dietro lui, assordati e scontenti. Ora siamo lontani, ma le campane suonano ancora. Sono le quattro e mezzo.
Il tragico scenario offerto a Garibaldi a Partinico, fu così da lui commentato:[13]
A Partinico il popolo era frenetico. Molto maltrattato dai soldati borbonici, anteriormente alla pugna di Calatafimi, quando questi tornarono fuggendo e sbandati, la popolazione di Partinico diede loro addosso, massacrando quanti potevano e perseguendo il resto verso Palermo. Miserabile spettacolo! Noi trovammo i cadaveri dei soldati borbonici, per le vie, divorati dai cani! Eran cadaveri d’italiani da italiani sgozzati, che, se cresciuti alla vita dei liberi cittadini, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese; ed invece, come frutto dell’odio, suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati, sbranati dai loro propri fratelli, con tal rabbia da far inorridire le jene!
Nelle memorie Garibaldi espresse la sua idea sull’importanza morale della vittoria di Calatafimi:[14]
La vittoria di Calatafimi, benché di poca importanza per ciò che riguarda gli acquisti, avendo noi conquistato un cannone, pochi fucili e pochi prigionieri, fu d’un risultato immenso per l’effetto morale, incoraggiando le popolazioni, e demoralizzando l’esercito nemico. […]
Un corpo di borghesi, ancorché filibustieri, animati da amor di patria, ponno dunque vincere anch’essi, senza bisogno di tante dorature.
Il primo risultato importante fu la ritirata del nemico da Calatafimi, che noi occupammo nella mattina seguente: 16 maggio 1860.
Il secondo risultato, molto valevole, fu l’assalto dato dalle popolazioni di Partinico, Borgetto, Montelepre ed altre sul nemico che si ritirava.
In ogni parte, poi, si formarono squadre, si riunirono a noi, e l’entusiasmo in tutti i paesi circonvicini giunse veramente al colmo.
Il nemico, sbandato, non si fermò fino a Palermo, ove portò lo sgomento nei borbonici, e la fiducia nei patrioti.
I nostri feriti e del nemico furono raccolti in Vita e Calatafimi. Noi contammo tra i nostri delle perdite ben preziose. Non pochi dell’eletta schiera dei Mille caddero a Calatafimi, come cadevano i nostri padri di Roma, incalzando i nemici a ferro freddo e colpiti per davanti, senza un lamento, senza un grido, che non fosse quello di viva l’Italia!
Ho già veduto alcune pugne, forse più accanite, e più disperate; ma in nessuna ho veduto militi più brillanti dei miei borghesi filibustieri di Calatafimi.
La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del ’60. Era un vero bisogno iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari, che colla loro fervida immaginazione meridionale raccontavan portenti sul valore dei Mille: v’eran tra loro quei che avean veduto le palle delle loro carabine, dai petti dei militi della libertà repulse, come se avessero colpito una lastra di bronzo, e rinfrancò i prodi siciliani, anteriormente scossi dall’imponenza degli armamenti borbonici, e dal gran numero delle loro truppe. Palermo, Milazzo, il Volturno videro molti più feriti e cadaveri. Secondo me, però, la pugna decisiva fu Calatafimi. Dopo un combattimento come cotesto, i nostri sapevano che dovevano vincere. E quando s’inizia una pugna con quel prestigio, con quel vaticinio, si vince!
Vinta la battaglia di Pianto Romano, l’indomani mattina Garibaldi entrò a Calatafimi e volle dedicare un proclama ai combattenti per la libertà del 15 maggio:[15]
Soldati della libertà Italiana!
Con compagni come voi io posso tentare ogni cosa e ve l’ho provato ieri portandovi ad un’impresa ben ardua per il numero di nemici e per le loro forti posizioni.
Io contavo sulla fatale vostra baionetta e vedete che non mi sono ingannato.
Deplorando di dovere combattere soldati italiani, noi dobbiamo confessare che trovammo una resistenza degna di uomini appartenenti ad una causa migliore e ciò conferma quanto saremo capaci di fare nel giorno in cui l’italiana famiglia sia serrata tutta intorno al vessillo glorioso della redenzione.
Domani il continente italiano sarà parato a festa per la vittoria riportata dai suoi liberi figli e dai prodi siciliani.
Le vostre madri, le vostre amanti superbe di voi usciranno sulle vie colla fronte alta e radiante.
Il combattimento ci costa la vita di cari fratelli! Morti nelle prime file quei martiri della santa Causa Italiana saranno ricordati nei fasti della gloria italiana.
Io segnalerò al nostro paese il nome dei prodi che sì valorosamente condussero alla pugna i più giovani ed inesperti militi e che condurranno domani alla vittoria sui campi maggiori di battaglia i militi che devono rompere gli ultimi anelli di catene con cui fu avvinta la nostra Italia carissima. G. GARIBALDI”.
Come sarebbe cambiata la storia d’Italia se i Mille non avessero vinto a Calatafimi?
[1] Calatafimi in camicia rossa, Numero unico edito per la commemorazione del 1° centenario della battaglia di Pianto Romano a cura del Comitato Cittadino, Calatafimi 15 maggio 1860, pag. 32.
[2] Ivi.
[3] V. De Sivo Giacinto, Storia delle Due Sicilie (1847-1861), Edizioni Trabant, 2009, pp.72-73.
[4] V. Cava Tommaso (capitano di S.M. dell’esercito delle Due Sicilie), Difesa nazionale napolitana, Napoli 1863, pp.79-80.
[5] Cronaca degli avvenimenti di Sicilia – da’ 4 aprile a’ principii d’agosto 1860 con l’aggiunta de’ fatti posteriori fino a marzo 1861 (tratto da documenti), Italia 1863, lunedì 14 maggio, punto 1.
[6] Pieri P., Storia militare del Risorgimento, Einaudi 1962, pag. 662.
[7] De Cesare R. nacque a Spinazzola (BA) l’11 novembre 1845. E’ stato uno storico, giornalista e politico italiano, profondo conoscitore della storia del Meridione. Morì a Roma nel 1918.
[8] Garibaldi G., Memorie – con un appendice di scritti politici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1998, pagg. 257-258.
[9] Delli Franci G., Cronica della campagna d’autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano dall’Esercito Napoletano, Napoli 1870, pagg. 45-46.
[10] Pieri P., Storia militare del Risorgimento, Einaudi 1962, pag. 662.
[11] La rivolta di Partinico era guidata da Ercole Scalia e con lui c’erano il prete Salvatore Conti, Luigi Nicoletti, Nicolò Sansone e i fratelli Patti.
[12] Abba G.C., Da Quarto al Volturno – Noterelle di uno dei Mille, Garzanti, Milano 1991, pagg. 41-42.
[13] Garibaldi G., Memorie – con un appendice di scritti politici, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1998, pag. 259.
[14] Ibid., pagg. 257-258.
[15] C. Cataldo, op. cit., pagg. 294.
Domenico Anfora