ANALISI ECONOMICA DELLA “QUESTIONE” MERIDIONALE

Il Mezzogiorno d’Italia è l’area più sottosviluppata d’Europa. Tale situazione è scaturita da oltre un secolo e mezzo di immobilismo politico ed economico, cosa che ha causato la fine delle realtà produttive che erano il vanto della nostra terra. Il Sud, aveva rappresentato non solo uno dei principali centri di produzione culturale europea, ma anche politica ed economica.
Per quanto concerne il settore industriale, era tutto il paese (nei vari stati preunitari) a trovarsi in condizioni di arretratezza rispetto alle potenze europee, si pensi ad esempio all’Inghilterra, che nel 1861 era egemone in molti campi della produzione (industria estrattiva e mineraria, trasporti, industria pesante) e avanzata in politica agraria. L’arretratezza nel settore agricolo in Italia causò, per certi versi, anche l’arretratezza nel settore industriale; infatti, l’industrializzazione italiana si ebbe molto tardi (tra il 1880 e il 1900) e, quindi, solo dopo l’Unità. Tale condizione fu uno dei freni alla crescita, a cui và aggiunta la mancanza di combustibili fossili e di capitali da investire nei settori produttivi. In ogni caso, vale la pena osservare quali fossero le differenze di base e le distanze esistenti ben prima del 1861. Nel Regno delle Due Sicilie, furono espletati vari tentativi per cercare di restare al passo con le altre capitali europee. Negli anni Quaranta, i Borbone, la cui precedente inattività lasciò che il mercato meridionale da fosse invaso da prodotti d’importazione, mutarono la loro politica, mirando alla creazione di un settore industriale non più diretto all’autoconsumo bensì all’esportazione. Vennero, infatti, innalzati dazi doganali, sulla base del modello protezionistico attuato da tutte le potenze europee in via d’industrializzazione, in modo da scoraggiare l’ingresso di beni importati nel mercato interno e diminuendo, quindi, un peso non indifferente per la bilancia commerciale. Si favorì, inoltre, la nascita di imprese con capitale sociale costituito da azioni di piccolo taglio, stimolando in tal modo l’intervento del medio ceto nell’attività produttiva. I poli industriali del Regno erano però molto limitati. La Campania non sfigurava sulla scena europea, in quanto a popolazione, con Napoli – quarta città in Europa dopo Parigi, Londra e Pietroburgo – e il suo hinterland, seguita da Terra di Lavoro. In questa regione, si trovavano numerosi centri di produzioni industriale, che trainavano l’industria pesante ed estrattiva esistente in Calabria. Per quanto concerne, invece, la Sicilia, salvo alcune realtà positive, l’isola si trovava in uno stato di forte arretratezza rispetto al resto del Regno. Le città industrialmente più attive erano Messina e Catania, nelle quali si era formato un ceto modernamente imprenditoriale ed erano sorti stabilimenti nel settore tessile, conciario, dei saponi, dei tabacchi e dei succhi d’agrumi. Per quanto concerne il resto dell’Italia, prima dell’Unità “neppure il Nord aveva un vero apparato industriale”, così come “la Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non aveva quasi che l’agricoltura”. La situazione settentrionale era molto simile a quella meridionale più di quanto sicuramente lo sia oggi. Nel Nord dominava la scena industriale il settore tessile, che trascinava con sé settori importanti dell’agricoltura. Ad esempio, furono tramutate terre di coltivazione cerealicola in terre per la bachicoltura, grazie allo sviluppo che i setifici ebbero nel contesto europeo. In Liguria fioriva la cantieristica navale, che ebbe grande sviluppo con l’avvento delle acciaierie e delle ferriere Piemontesi e Lombarde. La differenza sostanziale tra il Nord e il Sud del paese, anche nel settore industriale, era rappresentata dalla struttura e dalla composizione sociale, oltre che dalla titolarità delle iniziative: infatti, eccezion fatta per le industrie pesanti e le armerie la cui gestione era appannaggio esclusivo dello Stato, la totalità delle attività industriali erano svolte da soggetti facoltosi appartenenti alla borghesia imprenditoriale, che non disdegnavano il ricorso a capitali di rischio, magari anche stranieri, per le loro iniziative. Al Meridione, invece, l’azione dello Stato era predominante: infatti, grazie all’operato della corona fu possibile sviluppare le industrie di estrazione, lavorazione e trasporto dei metalli pesanti, così come nel caso della marina e delle ferriere, ma solo grazie alle barriere in entrata poste dai Borbone si evitò l’ingresso massiccio nel mercato meridionale di prodotti di altre nazioni, con prezzi più bassi rispetto a quelli interni. Il PIL pro capite nel 1861, come si evince dal lavoro di Daniele e Malanima, nel Nord Italia, era di 333 lire, mentre nel Sud, per il medesimo anno, era di 335 lire. Come osservano Daniele e Malanima, alla data dell’Unità, non esisteva tra Nord e Sud un vero e proprio divario economico. Le due economie, seppur differenti, riuscivano a stare sul medesimo livello di produzione. Il PIL, e il PIL pro-capite erano attestati sullo stesso piano fino al 1890. Le differenze, in alcuni casi anche marcate, si notavano di più in riferimento al problema sociale. Tali indicatori mostravano, infatti, che il Settentrione, per statura media, mortalità infantile e speranze di vita alla nascita, era leggermente in vantaggio. Il divario più netto si registrava, invece, a proposito del grado di alfabetismo. Esso era molto più marcato nelle regioni del Nord Italia, Lombardia, Piemonte e Liguria su tutte, piuttosto che nel Sud del Paese, dove il problema dell’arretratezza dell’istruzione presentava punte molto elevate. A Nord come a Sud, esistevano regioni più avanzate di altre e queste distanze risultavano maggiori rispetto a quelle tra le due grandi aree del paese. Nel complesso, l’Italia era una nazione che ancora non aveva provato l’esperienza della rivoluzione industriale e il settore produttivo non riusciva a reggere il confronto con le altre potenze già sviluppate in seguito al processo di industrializzazione. Il passaggio da un’economia principalmente agraria e, talvolta, destinata all’autoconsumo ad una più sviluppata, industriale e orientata per il mercato, è identificato da molti studiosi come la fase da cui è scaturito o si è aggravato decisamente il secolare divario tra il Nord e il Sud del paese. Infatti, la comparsa delle industrie, nel senso moderno della parola, avvenne in primo luogo nel Settentrione, dove si sviluppò considerevolmente un’azione d’investimento nelle nascenti attività industriali di forti quantità di capitali, dando vita, così, al decollo produttivo del Paese. Solo dopo l’unificazione, si formò il cosiddetto “triangolo industriale” (Torino-Milano-Genova), che avrebbe portato il Nord, negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, a rappresentare l’area più industrializzata d’Italia. Alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento che ha inizio una vera e propria divergenza tra le due parti del Paese, più per il take-off industriale del Centro-Nord che per un regresso del Mezzogiorno, che, comunque, non vedeva affrontati i suoi problemi di fondo. Quindi dal 1861 al 1891 il divario in termini di PIL pro-capite era del tutto trascurabile, addirittura per certi versi si potrebbe definire fisiologico, ma dall’ultimo anno in poi il divario aumentò vertiginosamente fino al 1951, in un processo caratterizzato da un declino senza precedenti. Vennero infatti persi, da parte del Mezzogiorno, 50 punti percentuali di PIL pro-capite. In termini di ricchezza, equivaleva al dato secondo cui un lavoratore del Sud Italia guadagnava, nel 1951, la metà di un lavoratore del Nord. Le differenze, nel 1861, erano, quindi, quelle ereditate dalla situazione pre-unitaria. Mentre era ancora in fase embrionale lo sviluppo del triangolo industriale, si verificarono nel Mezzogiorno due grandi fenomeni: il brigantaggio e l’emigrazione. Il primo fu una vera e propria “guerra civile” che spaccò la popolazione, in lotte fratricide, fra i favorevoli all’Unità d’Italia e chi ne era contrario. Il brigantaggio non era una novità nella penisola. Lungo tutta l’Italia era diffuso un senso di ribellione al potere centrale, anche se con quel termine si può indicare una forma di banditismo a scopo di rapina e di estorsione. Il brigantaggio unitario scaturì senz’altro dalla situazione disperata in cui versava il Mezzogiorno dopo l’Unità. La scintilla che fece scattare sollevazioni antisabaude in tutto il Meridione ebbe origine dalla percezione che il Piemonte non era intervenuto nel Sud per fare l’Unità d’Italia, bensì per colonizzarlo o, come sottolinea Petracco “per allargare i confini sabaudi”. Venne quindi attuata una “Piemontesizzazione”, un processo di cui, addirittura, mostrarono consapevolezza gli stessi protagonisti dell’Unità. Con questo intervento vennero sostituiti tutti i validi amministratori dell’ex Regno delle Due Sicilie con quelli inviati dal Piemonte e furono messe in discussione tutte le realtà industriali del Mezzogiorno: e quando ciò non successe intenzionalmente fu a causa della concorrenza intervenuta dopo l’annullamento dei dazi protezionistici. Qualsiasi prodotto di cui il Mezzogiorno aveva bisogno veniva fatto arrivare dal Piemonte, “persino la carta dei dicasteri” come ebbe modo di dichiarare in una commissione d’inchiesta, il 20 Novembre 1861, il duca di Maddaloni Francesco Proto Carafa. Per i meridionali non vi fu più alcuna attività in grado di fruttare un reddito adeguato. La già fragile economia meridionale non seppe rispondere alle sempre più numerose azioni che miravano a renderla “subalterna” o a spostarla su un piano di concorrenza. Quando apparve chiara la natura della politica con cui fu governato il Sud, caratterizzata dalla volontà centralistica della politica sabauda, le tensioni accumulate esplosero. L’estromissione dagli impieghi, dalle magistrature, dall’insegnamento, dalle fabbriche, dall’esercito, dalle gendarmerie, dai conventi e dai servizi di una quantità enorme di persone; l’aumento delle imposte e l’introduzione di nuovi pesanti tributi; la chiusura degli opifici e dei cantieri; l’esclusione delle imprese meridionali dalle commesse di Stato con la conseguente disoccupazione; l’ imposizione della circoscrizione obbligatoria, che privava delle braccia da lavoro migliaia di famiglie rurali, furono solo alcuni dei provvedimenti che colpirono i territori meridionali e che favorirono la formazione di un numero considerevole di briganti, che combattevano per il ritorno sul trono del buon Re Francesco II di Borbone, la cui repressione violenta ebbe come protagonisti Cialdini, la Marmora e Cadorna. La seconda grande questione che scaturì da quel periodo fu l’emigrazione, che si acutizzò proprio a causa del divario nord/sud. Nel primo quindicennio successivo l’Unità, gli espatri, per lo più transoceanici, dal Mezzogiorno e dalla Sicilia, furono circa di quattro milioni di persone, tanto da portare alcuni autori a definire questo fenomeno come una vera e propria “fuga di popolo”. Il governo appena nato non provò ad arginare questo processo, anzi favorì il perdurare di un’emigrazione massiccia. Da uno studio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, guidata da De Meo, risulta che con l’azione combinata dei proventi delle tasse sulle migrazioni e delle rimesse dei meridionali all’estero, entrarono nel nuovo Stato italiano 3 milioni e 300 mila miliardi di lire, nel corso di trent’anni. Tale somma costituì uno strumento di un certo rilievo per finanziare l’industrializzazione italiana, permettendo la nascita del settore produttivo nel Nord Italia, nonché il suo repentino sviluppo. Le correnti migratorie divennero, col tempo, una consuetudine: l’annuario statistico di Correnti-Maestri del 1876 riportava che gli italiani che lasciavano il suolo patrio erano circa 100 mila all’anno; mentre nel 1901 furono circa mezzo milione, e nel solo anno 1913 furono 872 mila, ossia un italiano su quaranta. Com’è stato osservato: “l’Italia dalla metà degli anni Novanta è già un paese che aveva scelto di esportare in massa forza-lavoro, trasformando così in emigranti produttori di reddito all’estero quelli che potevano essere una massa di produttori-consumatori all’interno”. Si può capire l’importanza delle rimesse degli italiani all’estero, prendendo in considerazione il fatto che nel 1907 la FIAT fu colpita da una forte crisi di liquidità. La Banca d’Italia intervenne in aiuto dell’industria piemontese utilizzando il Banco di Napoli, la banca che all’epoca era dotata di maggiore liquidità, proprio grazie alle rimesse degli emigranti. “Le rimesse non costituiscono solo un importantissimo apporto finanziario per le famiglie e per gli Stati di provenienza degli espatriati ma anche uno strumento di crescita e progresso divenendo una fonte primaria per la crescita dell’ economia nazionale”. Gli studiosi del fenomeno spiegano che a livello macroeconomico, l’afflusso delle rimesse rafforza la bilancia nazionale dei pagamenti dei paesi più poveri riducendo il loro debito nei confronti dei paesi più ricchi. L’Italia, è cresciuta con le rimesse degli emigranti. Interi paesi del sud sono sopravvissuti esclusivamente grazie alle rimesse. Fino agli anni Ottanta i soldi erano canalizzati principalmente nella costruzione della casa o nell’avviamento di un’attività autonoma. Oggi, invece, nessuno sogna di rientrare in patria, se non per situazioni particolari, e le rimesse rappresentano soltanto il 10% di quello che erano fino a 30 anni fa. A conferma che l’Unità fu il frutto della volontà di unificare i confini territoriali del Paese sulla base di istituzioni preesistenti nel Regno sabaudo, Cavour, primo ministro del nuovo Stato, decise che il debito pubblico del Piemonte, che nel 1860 aveva un passivo di ben 91.010.834 lire e che nel 1861, in base a quanto dichiarò il ministro Bastogi alla Camera, era caratterizzato da uno spaventoso deficit di 314 milioni di lire, dovesse essere completamente assimilato a quello del nuovo Regno d’Italia, nonostante il fatto che il Mezzogiorno con un territorio di gran lunga più vasto, apportava allo Stato solo 42 milioni di deficit. Bisogna ricordare che il Piemonte fu più volte salvato grazie la liquidità delle Banche meridionali, il cui stato di salute derivava, prima, dalla gestione Bernardo Tanucci e, poi, dalle rimesse dei meridionali all’estero. L’Italia meridionale, finì per partecipare al pagamento dei debiti che appartenevano agli Stati dell’Italia del Centro-Nord con una quota ben più grande di quella che rappresentava. Ciò contribuì alla crescita di un dislivello economico tra le due parti del Paese. Le dinamiche della rivoluzione industriale segnarono una frattura definitiva all’interno dell’Italia, cristallizzando i rapporti tra Nord e Sud. E’ nel primo decennio del Novecento che cominciano a delinearsi i contorni di una nuova geografia economica, dando inizio all’andamento dualistico dell’economia italiana e alla recessione del Sud.
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