Anna Maria Ortese, l’utopìa senza speranza di Alfredo Saccoccio

Anna Maria Ortese è morta ventitré anni fa, poco prima della fine del XX secolo. La maggior parte dei suoi libri è tradotta e disponibile in francese. E’ una ventina di titoli, editati da Gallimard, Actes Sud, Joelle Losfeld. Un lettore curioso può formarsi, ormai, un’idea giusta di questa opera e constatare che essa si divide in testi autobiografici, in romanzi fantastici o, se si può dirlo, onirico-politici – genere che lei ha inventato senza dargli nome- in poemi e in cronache di viaggio.”
La Lente scura” appartiene, beninteso, a questa quarta categoria, Questo lettore curioso, se ha letto i contemporanei italiani di Anna Maria Ortese, nata a Roma nel 1914, non tarderà probabilmente a concludere che klei potrebbe essere la più grande di tutti. La più grande se si misura la grandezza alla libertà acquisita, alla capacità d’umanità, all’acutezza e all’onestà dell’intelligenza. Però forse non all’ambizione né alla sicurezza. Anna Maria Ortese dubitava di se stessa, dubitava della letteratura, dubitava dell’Italia, dubitava dell’umanità. I suoi ultimi libri sembravano rompere con il reale. Uniguana, un cardellino, un puma, delle allucinazioni notturne e talvolta diurne venivano ad intorbidire la narrazione, che tuttavia era ancorata ad un paesaggio realistico, in uno scenario politico dai punti di riferimento solidi,, identificabili, in un sistema psicologico piuttosto razionale. Ella descriveva un mondo internazionale su cui posava uno sguardo politico, ma “letterariamente politico”, cioè, come lo diceva Pasolini, “con le armi della poesia”.Non si comprendeva totalmente questi ultimi romanzi di Ortese, se non si sapeva che lei era stata una giornalista sociale molto singolare, che lei si era impegnata nell’osservazione dell’Italia tra l’ambiente degli anni 1930 e l’ambiente degli anni 1960, che lei aveva molto viaggiato e che dai suoi viaggi lei era ritornata con racconti ad un tempo oggettivi ed interiori.
Anna Maria aveva ottenuto il premio Viareggio nel 1953 per una raccolta che stabilisce la sua rinomanza in Italia, “Il mare non bagna Napoli”, tradotto solo quarant’anni oiù tardi da Gallimard. In questo libro erano riuniti due brevi fictions e articoli che appartengono alla stessa categoria e che hanno lo stesso stile di quelli di “La Lente scura”
Costante aggiustamento
Lo scopo primario è quello di determinare le regole del linguaggio e di aggiustare l’obiettivo (come un direttore della fotografia deciderebbe della grana, della luce, della focale, dell’inquadratura e ne cambierebbe per ogni scena di un film). E’ a questo costante aggiustamento che si assiste nel viaggio di Anna Maria Ortese, che non usa la stessa grammatica stilistica per parlare di Milano, Palermo, Venezia, Napoli, Genova, Firenze o Roma. Anche se l’Italia intera è l’oggetto di generalità e se l’autore può definire, in maniera globale, il proprio progetto, ogni città ha il suo tono.
Anna Maria Ortese ha una tristezza naturale, ciò che lei chiama qui leggiadramente “la lente scura”. Però questa malinconìa è immediatamente emendata da una combattività che le vieterà, malgrado una progressiva selvatichezza (poiché non si può mai parlare nel suo caso di reale misantropia), il disfattismo. “E’ a questa percezione io devo dire che è forse dovuta la mia propensione al poco – o al niente – e il mio rispetto per l’Utopìa – sempre alta e presente come una luce bianca tra le nubi basse, nella vita senza speranza”. Nel corso dei suoi viaggi, Anna Maria non è avara di confidenze sulle sue angosce, Però non si tratta mai di inquietudini circostanziali. Piuttosto di “paura quasi metafisica”: “Come se io non fossi più su questa terra, ma in un luogo dove regnavano altre dimensioni:”
Le persone che lei ha incontrato e delle quali fa il ritratto hanno tratti comuni con lei. Si tratta spesso di idealisti, socialisti o cristiani, che portano sull’umanità uno sguardo compassionevole, ma anche violento, disperato e pieno di vitalità. Tutti dovrebbe spingerli ad abbassare le braccia, ma essi non lo fanno. Così quel prete: “Mettermi al servizio del mondo. Ho detto “del mondo”, non di Dio che Lui, laddove Egli si trovava, non aveva sicuramente bisogno di me. Il mondo, sfortunatamente, aveva anche bisogno dei cani, dei rospi, delle immondizie. Egli era triste, con una fame enorme, uno stomaco come una voragine, egli non era che disordine e malinconia, dietro l’apparenza del grano, del sole, della salute, delle città ben tenute, con le carrozze, i principi e la polizia.”
E’ Napoli e la Sicilia che ispirano a Ortese le più belle pagine. Che lei faccia della prima “una donna che si tiene rovesciata sulla sabbia, il suo grande corpo sfiorante l’acqua, le braccia indolentemente incrociate dietro la nuca, e fissa il cielo, con occhi che sembrano vuoti” o che descriva il paesaggio siciliano “come il tempio dell’Europa”, di cui lei vorrebbe calpestare il suolo, a piedi nudi, “come gli Arabi quando varcano una moschea”, sapeva porre la sua voce, trovare la nota giusta, che fa che si legga la sua prosa come una lirica, raffinata, sapiente, ostinata, naturale.
In ultima analisi, possiamo dire che “La Lente oscura, una sorta di “Tour d’Italia”, è l’occasione di scoprire una delle figure maggiori della letteratura italiana.