Anti-Risorgimento e intellettualità italiana
Una ricostruzione a grandi linee della cultura italiana che da posizioni ideali diverse e differenziate, si oppose al processo unitario e risorgimentale, così come esso veniva elaborato nei disegni ed è stato attuato nei fatti dalla minoranza liberale e democratico-sociale fra il 1800 e il 1870
In memoria di Silvio Vitale
(1928-2005)
Il processo storico che cade sotto il nome di
Risorgimento si svolge, almeno nelle sue fasi principali — includendo, quindi,
i cosiddetti «prodromi» rinvenibili nell’epoca napoleonica, che per l’Italia
coincide anche con quella «rivoluzionaria», ma escludendo le sue «adozioni a
distanza», più o meno lecite, da parte delle diverse famiglie ideologiche le
quali, nel corso del secolo XIX stesso e nel successivo, si sono rifatte ex
post al Risorgimento come fonte di auto-legittimazione —, nell’arco di un
secolo, all’incirca fra il 1770 e il 1870.
Vista l’ampiezza di questo arco temporale, non è possibile
soffermarsi in dettaglio su ogni figura e su ciascun episodio, in cui si
articola la vicenda dell’opposizione che sul piano intellettuale il
Risorgimento incontrò, ma mi devo limitare a una panoramica a grandi linee,
cercando di individuare le coordinate e, se del caso, descrivere — ancora per
sommi capi — quali nessi, categorie o linee comuni caratterizzano questo
processo storico e le forze rivelatesi in diversa misura e in diversa forma a
esso antagoniste, nonché quali siano le questioni o, comunque, i temi,
suscettibili di sviluppo.
1. Il Risorgimento: tre questioni intrecciate
Sotto la voce «Risorgimento» si possono ricomprendere tre snodi-chiave della storia italiana contemporanea.
A. L’indipendenza
Il primo è il conseguimento
dell’indipendenza della «nazione» italiana dalle dominazioni «straniere» che
l’avevano afflitta fin dalla fine del Medioevo. Uso deliberatamente le
virgolette perché il concetto di «nazione» e, quindi, di «straniero» è quanto
di più elastico e relativo esista, anche se nella mente degli uomini che fecero
l’unità italiana l’asserto precedente era quanto di più solare e meno ambiguo
pensabile.
Che questo movente fosse primo negli entusiasmi dei militanti
dell’Unità — il Quarantotto fu sostanzialmente, almeno nell’Italia
settentrionale, una vibrante domanda d’indipendenza dall’Austria —, ma l’ultimo
e il più strumentale nei progetti dei veri artefici, quelli «ideologici», del Risorgimento
lo si deduce dal fatto che l’indipendenza fu conquistata dapprima al caro
prezzo di una pluridecennale servitù alla Grand Nation napoleonica e, in
seguito, solo grazie ai buoni uffici della diplomazia britannica, della Prussia
e, ancora, della Francia neo-bonapartista.
Dopo la caduta di Napoleone (1769-1821) la Penisola è sottoposta —
come già in passato e, in specifico, durante il ventennio napoleonico — a una
pesante ingerenza politica straniera, che limita o condizione la sovranità dei
principi italiani. La creazione della Santa Alleanza nel 1815 aggiunge un
ulteriore elemento alla tradizionale pressione geopolitica delle potenze
confinanti. E questa limitazione, diretta o indiretta che fosse, riesce sempre
meno gradita agl’italiani, a causa delle limitazioni che impone ai commerci e
grazie anche al diffondersi del romanticismo e della sua riscoperta — o, nella
maggior parte dei casi, della re-invenzione — delle nazionalità, dopo
l’ubriacatura di cosmopolitismo e di individualismo settecenteschi.
Dal punto di vista austriaco va osservato che l’impero asburgico
del XIX secolo è tutt’altra cosa che una «nazione giacobina», come la Francia
di Robespierre (1758-1794) e di Napoleone, mentre assomiglia più a una via di
mezzo fra l’antico impero sacro e romano e una repubblica federale. Tuttavia,
sotto entrambi gli aspetti, anche perché pure nella monarchia danubiana in età
moderna la politica di potenza è un dato di fatto e, dopo 1866, è altrettanto
un fatto che il suo asse d’influenza si sposta dall’area germanica a quella
danubiano-balcanica-mediterranea.
Per cui perdere l’Italia «austriaca» e il venir meno dell’influenza
imperiale nella Penisola non era un fatto trascurabile per Vienna. Anche in
altri paesi, per esempio negli Stati Uniti e in Svizzera, al tempo della guerra
civile, nel primo caso, e della precedente e analoga guerra del Sonderbund
nel 1848, nel secondo, la secessione di una provincia, come per l’Austria il
ricco Regno Lombardo-Veneto — o, peggio, il suo passaggio sotto la sovranità di
una corona da pochi lustri avversaria, come quella sabauda —, non era mai stata
un fatto privo di traumi ed esente da reazioni. Peraltro, l’uscire dalla
«sovranità limitata», non poteva non essere un obiettivo prioritario se si
voleva creare in Italia un soggetto politico unitario di qualche rilievo. È
noto come il distacco per via diplomatica — quindi a fronte di ben precise
contropartite internazionali — di terre italiane, dal Veneto al Trentino, al
Friuli, alla Venezia Giulia, facenti parte della Corona asburgica fu quanto
meno contemplato fra le opzioni possibili dall’Austria in più di un frangente,
dal 1859 al 1915.
Ma, ripeto, l’indipendenza era forse l’obiettivo meno lontano da
raggiungere per gl’italiani — o per molti di essi — e con il minimo di
eversione dell’assetto politico esistente nella prima metà del XIX secolo.
B. L’unità politica
Il secondo snodo è il raggiungimento
dell’unità politica: l’Italia all’inizio del secolo in cui trionferanno ovunque
gli Stati nazionali e le forti monarchie pluri-nazionali o «composite», come le
chiama la storiografia inglese, e dove si svilupperanno la rivoluzione
industriale e le prime forme di globalizzazione economica e finanziaria —
acutamente ma strumentalmente studiata da Karl Marx (1818-1883) —, non è più
pensabile che possa continuare a indossare il variopinto ed elegante abito
politico — anche se non di rado di «alta sartoria» costituzionale — delle
antiche repubbliche e dei ducati. Anche nella Penisola dovevano sorgere entità
politiche meno frammentate o, al limite, un’unica entità che estendesse i suoi
confini fino a comprendere in tesi tutte le popolazioni italofone, e che fosse
così in grado di competere economicamente e politicamente con gli altri attori
della scena mondiale o, quanto meno, se del caso, di reggerne l’urto.
Naturalmente questo sarebbe potuto avvenire con modalità diverse, a
seconda dei reali interessi e diritti in gioco, e, al limite, anche in
un’ottica di conservazione più o meno ampia di strutture di «antico regime».
Per inciso, uno dei primi progetti di unità politica italiana fu opera non di
un «giacobino» ma, negli anni Novanta del Settecento, ma di un nobile
astigiano, Gianfrancesco Galeani Napione (1748-1830), conte di Cocconato.
Per altro aspetto, a un’unità dei popoli d’Italia dalle Alpi alla
Sicilia si pensò solo molto tardi, addirittura solo quando si vennero a creare
condizioni concrete del tutto impreviste e insperate, alla vigilia del tracollo
politico e morale del Regno borbonico. Personalmente sono persuaso che agli
inizi del 1800 porsi il problema di dare una maggiore unità politica al Paese,
ivi inclusa l’unificazione completa su base nazionale, fosse a pieno titolo una
delle componenti del bene comune degli italiani, che i politici di quell’epoca
avevano non solo il diritto ma anche il dovere morale di perseguire. Il limite
di un’azione unificatrice stava evidentemente nell’obbligo di salvaguardare i
diritti acquisiti e di ottenere il risultato a costi «sostenibili», ovvero non
creando ex post una condizione generale peggiore della precedente.
C. La «risurrezione»
Il terzo passaggio — che sottintende la
decisiva questione, che fa cambiare completamente volto ai primi due — consiste
nella tesi asserita che l’Italia avesse bisogno di «risorgere».
Non è difficile dimostrare — anzi, in sede di ricerca, la tesi
«resurrezionale» è ormai patrimonio di pochi, e sorprende come essa sia
tenacemente ossificata nella cultura istituzionale e nei canali della pedagogia
nazionale — che l’Italia a quell’epoca era tutt’altro che «morta» e che solo
una cultura politica ben precisa poteva formulare una valutazione del genere. E
si trattava di quella cultura che aveva assimilato una ben precisa declinazione
della modernità, che aveva trovato la sua formulazione più esemplare nel
pensiero di Niccolò Machiavelli (1469-1527), che si esprimeva in un disegno
culturale ed etico-politico, fitto di altere pregiudiziali — non aliene da
venature gnostiche e da suggestioni protestantiche — nei confronti del pensiero
politico e delle realtà storico-politiche tradizionali.
L’Italia era viva sia sotto il profilo della sua cultura
intellettuale classica, sia se si considera la ricca e policroma cultura
popolare, entrambe fecondate in maniera determinante dal senso comune e dalla
cultura cattolica post-tridentina. Né si può parlare di assenza di un
sentimento collettivo di appartenenza a una nazionalità, pur con tutte la
cautele che questo termine assai abusato impone. Anzi, la civiltà italiana, il
gusto italiano, il costume e le belle maniere italiani esercitavano ancora — in
epoca di imperio dei modi francesi — una vera e propria egemonia sulle arti,
sulla moda, sul teatro e sul bel canto, godendo di un primato indiscusso dal
Nuovo Mondo alle rive della Moscova e della Neva.
Viceversa, questa Italia fortemente ancorata una radice
plurisecolare e tuttora vitale, questo vetusto tronco dai frutti ancora
numerosi e gradevoli, non si conciliava con l’idea d’Italia che coltivavano
determinate minoranze. Ma la «nuova Italia», libera da ingerenze esterne,
emancipata da ogni soggezione politica che contrastasse il principio di
nazionalità e libera e moderna nei suoi ordinamenti, come doveva essere?
Nell’aula della Camera a Palazzo Montecitorio si trova una targa
marmorea che ricorda ai posteri — e soprattutto ai rappresentanti della nazione
— le parole che Re Vittorio Emanuele II (1820-1878) pronunciò il 27 novembre
1871, quando inaugurò la XI legislatura del parlamento sabaudo-italiano, la
prima che si svolgesse a Roma. Nella targa si legge che, con la conquista della
Capitale, l’Italia «è stata restituita a sé stessa e a Roma» e
finalmente Vittorio Emanuele, unitamente agli altri artefici della nuova
Patria, può proclamare: «qui […] riconosciamo la Patria dei nostri
pensieri».
Ora, presumere che la «vera» Italia fosse stata «scippata» da
qualcuno — e, anche a non essere maliziosi, si capisce subito chi sia questo
«qualcuno» —, e che se ne dovesse esigere in ogni modo e a qualunque costo la
restituzione è già una tesi che non esiterei a definire «da brivido». Ma che
poi tale obbligatoria restituzione e ricupero di un’identità negata dovesse
avvenire instaurando «la Patria dei nostri pensieri» è fin troppo eloquente. Si
chiede infatti a un corpo sociale antico e storicamente ricco come l’Italia di
abbandonare un’eredità pluri-secolare, articolatasi spontaneamente intorno al
cardine costituito dalla cultura romana e dal cristianesimo, e di piegarsi ad
adottare in maniera acritica e indotta «a freddo», come risultato di un gesto
di forza, un parto della mente, un’idea di patria non verificata dalla storia
ma solo consonante con principi teorici e con l’anelito intellettuale di poeti
e letterati.
D. Modernità e identità nazionale
L’idea-forza usata per imporre tali
schemi, non nati al calore della vita storica dei corpi della società, ma
dedotti da cattive filosofie anti-metafisiche e auto-referenziali, è quella di
modernità. Il fattore vincente, quello che portò in certi frangenti a imporre
le nuove idee in maniera fanatica e intollerante, è che gli schemi sono
conformi a ciò che è «recente», alla moda, a ciò che è «moderno», che ripropone
quelle forme politiche ed etico-politiche, non proprie in essenza della
modernità, quanto derivanti da una sua specifica lettura, quella ideologica a preferenza
rivoluzionaria. Assume così ragion d’essere e validità per gl’italiani solo il
percorso di cui sono artefici i cosiddetti «giacobini», poi carbonari, i
liberali e i mazziniani e, infine, la generazione che «fece» la nazione,
emblematizzata dall’«apostolo», dal «tessitore», dall’«eroe» e dal «re
galantuomo».
Il problema era che questo percorso, portato avanti con sforzo
spesso sincero e disinteressato ma elitario e spregiudicato, in altre parole,
veniva a coartare l’anima storica di un popolo, erede primo della romanità,
«giardino» del Sacro Romano Impero e figlio primogenito della Chiesa,
all’interno di forme ideologiche astratte, «elaborate a tavolino» — come si
dice — e in larga misura antitetiche con il suo vissuto culturale e storico più
profondo.
Non ho scrupolo di affermare che per la minoranza illuminata che
edificò — pur attraverso non piccole divergenze e feroci lotte su come essa
dovesse essere — l’Italia, avviandola su binari etico-politici dai tenui
agganci morali seri — cioè religiosi — e alle cui ultime evoluzioni — o
convulsioni — stiamo assistendo al giorno d’oggi, il problema non era in fin
dei conti né l’indipendenza, né quello di unificare un «popol disperso»,
bensì di «modernizzare» gl’italiani «nazionalizzandoli». Se il problema fosse
consistito semplicemente nel liberarsi dal controllo straniero, perché si
continua a celebrare Napoleone come liberatore e perché ancora tanta
apologetica sopra le righe nei confronti dell’assolutismo «illuminato» degli
Asburgo settecenteschi? Non è che il dispotismo andava bene quando era
«progressista» e andava male quando si trattava di qualcosa di molto diverso
dal dispotismo, ma che aveva il difetto di difendere il cattolicesimo, come la
Santa Alleanza? E se si lamentava l’esistenza di italiani irredenti, come si
spiega allora che si siano lasciati fuori dal nuovo Stato i ticinesi, i côrsi,
i nizzardi, i maltesi, i dalmati, anzi che questo sia accaduto quando alcuni
erano già «dentro», come i nizzardi — e la sensibilità del nizzardo Giuseppe Garibaldi
(1807-1882) ai problemi dei popoli oppressi dei Due Mondi come mai si spense di
fronte al baratto della sua patria con qualche fucile francese? — e i côrsi.
E. La Rivoluzione italiana
La realtà è che per il movimento
risorgimentale si trattava in essenza di tradurre in realtà anche nella
Penisola i teoremi libertari ed egualitari nati Oltralpe nel secolo precedente,
eventualmente temperandoli con qualche iniezione di romanticismo e di
storicismo hegeliano. In questo senso mi sembra più opportuno parlare,
piuttosto che di «Risorgimento», di «Rivoluzione italiana», usando un termine,
«Rivoluzione», che meglio individua questo sforzo organizzato ed eversivo, teso
a impiantare in Italia, dopo le prime esperienze dell’epoca «giacobina» e
napoleonica — e con tutti gli aggiornamenti e gli «ammorbidenti», ma anche con
tutti i peggiorativi maturati nel frattempo —, l’ideologia dell’Ottantanove,
quell’ideologia che si svilupperà dialetticamente nel tempo attraverso il
liberalismo e il socialismo, in tutte le loro possibili forme, e che nel cuore
del XIX secolo non ha ancora il volto dell’ideologia che trionferà nel 1917 a
San Pietroburgo, per diffondersi da lì in tutto il mondo, anche se qualcuno,
come il visconte Charles Victor Prévot D’Arlincourt (1788-1856), già leggerà
nei fatti del 1848-1849 il progetto di un’«Italia rossa» (1).
E il disegno che, con questa ottica «risorgimentale» — almeno
secondo alcune delle sue declinazioni, ma non certo le più secondarie —
preparava l’Italia futura, si fondava su un presupposto, fatto troppo spesso
passare per un corollario: eliminare il potere temporale della Sede Apostolica.
E questo, non solo perché, in una prospettiva nazionalistica — che ha trovato
epigoni fino a oggi, fino alle «storie» montanelliane o alle «omelie»
domenicali di Eugenio Scalfari — il papa-re rappresentava tradizionalmente un
ostacolo politico per l’unità, ma soprattutto per colpire in radice la libertas
Ecclesiae e per limitare l’influenza della Sede di Pietro fra le nazioni,
indebolendo nel contempo l’influsso della cultura cattolica sull’ethos degli
italiani. Un sogno, questo, coltivato da tutti i nemici della Chiesa, quanto
meno dagli esordi dell’età moderna. Oggi, quando pure, grazie alla
Conciliazione del 1929, uno Stato della Chiesa, anche se come puro simbolo,
tuttora esiste, può far sorridere pensare che il Papa avesse bisogno di
prefetti, di generali e di poliziotti. Ma nel quadro internazionale del cuore
del secolo XIX non era ancora così irrilevante, ai fini della libertà concreta
di azione della Sede di Pietro, possedere uno Stato nel cuore della Penisola
italiana, affacciato per di più su due mari. Inoltre, come ricorda Papa Leone
XIII (1810; 1878-1903) nella sua lettera del 1883 Saepenumero considerantes,
una presenza politica della Santa Sede nella Penisola non era ridondata se non
in bene per i popoli che l’abitavano, soprattutto perché aveva contribuito a
contenere l’espansione delle potenze circonvicine all’Italia.
2. La monarchia nazionale
Così, il Risorgimento, soprattutto alla
luce della «lezione» ricavabile delle insorgenze popolari anti-napoleoniche, si
servì dei legittimi e diffusi entusiasmi indipendentistici e unitari, che
infiammarono romanticamente tanti giovani italiani, per edificare, grazie anche
a un quadro internazionale, soprattutto dal lato britannico, favorevole e a una
serie di irripetibili occasioni offerte dalla sorte, uno Stato «nuovo».
Il nazionalismo non è una scelta casuale, ma non sarà lo strumento
che realmente determinerà il successo del disegno risorgimentale.
Semplificando, si potrebbe dire che il tentativo di «replicare» in Italia la
Rivoluzione francese tout-court fallisce nel 1799 grazie anche alle
insorgenze popolari; quello di dar vita all’Impero della Rivoluzione in Europa
attraverso i fasti e il cesarismo militarista e borghese di Bonaparte crolla a
Waterloo nel 1815; lo sforzo di risuscitare in forme più liberali e con
modalità cospirative il napoleonismo s’infrange fra il 1820 e il 1831 contro le
polizie dei governi restaurati.
Viene allora giocata la carta del romanticismo nazionalistico e del
riscatto delle nazioni «dal basso» che però viene anch’essa «contrata» nel
1848.
Alla fine il disegno che prevale è quello «dall’alto», di tipo
nazional-dinastico, che — in Italia, come poco dopo in Prussia e in Germania —
fa ancora leva sull’indipendentismo e sull’unitarismo, ma, in ultima analisi,
come mera giustificazione di una iniziativa di «poteri forti», che sceglie di
agire sul piano diplomatico, militare e del’«intelligence» e riesce infine
a far sorgere con la forza dalle ceneri dei principati italiani una monarchia
nazionale e costituzionale.
Una forma di Stato, tuttavia, che rompeva con la tradizione
italiana, che godeva di una legittimità — tanto di origine, quanto di esercizio
— discutibile, e che, infine, apponeva sugl’italiani un imprinting nazionale
— cosa di suo non illegittima e, anzi, inevitabile se si voleva passare dalla
«piccola» alla «grande patria» — difforme da quello di sempre, che saltava a
piè pari i secoli della cristianità per rifarsi, soprattutto nel suo
armamentario ideale e simbolico a una classicità «alla giacobina» ormai
estinta, una classicità filtrata attraverso gli stereotipi simbolici della
Rivoluzione francese che il fascismo, tanto il fascismo-regime, quanto quello
repubblicano, esalterà fino al parossismo.
Uno Stato finalmente indipendente dall’Austria — con la quale
peraltro tornerà ad allearsi un ventennio dopo il 1859 —, il quale non cesserà
di rivendicare dal potente vicino — ma non dalla Svizzera o dalla Francia —
fino all’ultimo frammento di sovranità su popolazioni «italiane» —, ma che
finirà in seguito per inglobare il Tirolo del Sud e consistenti minoranze
slave.
Uno Stato finalmente unico e «di tutti gl’italiani», che si
trasformerà ben presto in un nuovo e dinamico soggetto in aggressiva ricerca di
spazio nello scacchiere europeo e nei teatri di conquista coloniale; che nel
1915 vorrà a tutti i costi partecipare all’esplosione di sanguinosa follia
collettiva rappresentata dalla guerra mondiale; che, infine, pur di
perpetuarsi, non esiterà ad adottare forme autoritarie e semi-totalitarie con
il regime mussoliniano.
Ma, al crollo del fascismo sotto il peso della sconfitta dell’Italia nel nuovo
sanguinoso conflitto mondiale, i nodi di fondo della costruzione unitaria — al
di là di tanti, troppi generosi entusiasmi e sacrifici — riaffioreranno
prepotentemente e l’Italia vivrà quella drammatica e poco dignitosa pagina
storica che è stata anche chiamata «morte della patria», ma che è piuttosto la defaillance
dell’edificio politico risorgimentale — anche se temporanea, — e il
fallimento di una classe dirigente nazionale troppo a lungo vissuta «al di
sopra» e non «accanto» alla nazione. Il disastro dell’8 settembre 1943, oltre
ad aggiungere ulteriori lutti a quelli già prodotti dalla guerra in atto,
infliggerà alla dignità nazionale una ferita profonda, la quale offuscherà per
lungo tempo l’orgoglio di essere e di dichiararsi italiani.
3. «Fare gl’italiani»
Nelle considerazioni precedenti ho messo in luce come in Italia — come peraltro un po’ in tutti gli Stati nazionali formatisi nel corso del secolo XIX — abbia avuto luogo la costruzione di un’identità nazionale nuova e disarmonica rispetto al passato. Uno dei molteplici aspetti di questa operazione — oltre alla pedagogia nazionale di massa, oltre alla costruzione dei «luoghi della memoria», oltre alla elaborazione di una vera e propria liturgia patriottica —, è stata una energica azione propedeutica di manipolazione e di invenzione della memoria: non si poteva pensare di creare l’italiano nuovo, scettico, liberale, secolarizzato, tutt’uno con l’ordine civile, senza intervenire sulla memoria comune, rimodellandola secondo i nuovi canoni ideali.
L’elaborazione di una lettura della
vicenda dei popoli della Penisola in linea con i capisaldi di quella modernità
politica che ho evocato e la sua capillare veicolazione in forma degradata
attraverso i canali della formazione civile a generazioni di cittadini che a
mano a mano si affacciavano alla ribalta della vita sociale, ha fatto sì che la
storia italiana dei secoli che io — ma anche non pochi altri — considero, non a
torto, aurei, da Dante Alighieri alla cultura del Barocco, è stata o confinata
in un limbo oleografico, stereotipata e neutralizzata nelle sue valenze civili,
oppure è stata letta — sezionandola, intercettandone le venature più idonee e
riducendo il corpo alla vena — meramente in chiave di «preparazione» al
Risorgimento stesso. Parallelamente, la storia «corretta» e «presentabile» è
stata accuratamente epurata da ogni scoria che potesse offuscare l’asserita
limpidezza sorgiva della vocazione unitaria ed eversiva dell’ordine fermentato
nei secoli, oppure anche soltanto ridimensionare la nobiltà e l’eroismo degli
artefici — i già ricordati apostoli, tessitori, spade e galantuomini — della
nuova Italia, oppure, ancora, mettere in discussione la pretesa che l’Italia
unificata sotto la dinastia sabauda fosse il frutto più maturo, il distillato
più squisito, il precipitato più puro e genuino dell’italianità, nonché il più
bel premio dell’afflato, delle speranze e delle sofferenze di intere
generazioni del popolo della Penisola.
Questa operazione d’ingegneria culturale appoggiata da un potere
dotato di una base di suffragio così esigua da assimilarlo a una striminzita —
ma onnipotente — oligarchia, imponeva dunque di dar vita a tutta una serie di
luoghi comuni e di mitologie, la cui condizione previa era la demolizione di
altre mitologie, l’alterazione o la selezione dei fatti, la tacitazione delle letture
dissonanti.
4. La battaglia delle idee
Fra le prime vittime di questa impresa si
situano quei filoni della cultura italiana che a diverso titolo — in nome del
legittimismo, dell’anti-modernità, della metafisica classica, della dottrina
politica e sociale della Chiesa, dell’anti-liberalismo, della difesa del Papa,
della salvaguardia di prerogative aristocratiche o del semplice senso comune
nella sua duplice dimensione di buon senso individuale e di sano empirismo
politico — mossero critiche più o meno radicali a quanto si veniva preparando e
operando, e che, una volta edificata la nuova Italia, ne rifiutarono questo o
quell’aspetto, ne combatterono le ingiustizie, ne denunciarono gli squilibri,
rivendicarono il diritto e l’onore di quanti erano stati spazzati via dalla
Rivoluzione italiana.
Per dare un’idea di come si sia maramaldescamente «sparato» contro
questi «vinti della storia» della cultura riporto due giudizi che mi paiono
assai significativi.
Il primo è dello storico ex comunista Furio Diaz, il quale, in
un’opera destinata a sussidio del lavoro scientifico, così bolla la cultura
sconfitta nel compiersi del Risorgimento: «Nella quasi totalità si tratta di
scritti d’occasione, di operette ispirate unicamente all’odio reazionario, al
gretto e interessato conservatorismo, alla devozione oscurantista» (2).
L’altro è dello storico liberale — quindi non fra i più esagitati fan
del Risorgimento — Luigi Salvatorelli (1886-1974), il quale, nel suo celebre
saggio Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (3) —
anche qui un’opera non per pochi eletti, ma un testo destinato a formare le
classi intellettuali italiane —, così valuta il pensiero di due dei maggiori
esponenti dello schieramento anti-risorgimentale, due uomini di Stato, due
ministri, uno napoletano, Antonio Capece Minutolo (1768-1838), principe di
Canosa, e l’altro piemontese, il conte Clemente Solaro della Margarita
(1792-1869). Canosa, secondo Salvatorelli, è «il più rozzo, il più privo di
luce di pensiero» (4), pur ammettendo, con esatta percezione,
che «non si trattava […] per il Canosa di conservare lo stato di cose
stabilito dalla restaurazione, ma di tornare indietro un bel tratto. Egli si
batteva non per la monarchia dell’assolutismo settecentesco o napoleonico, ma
per quella dei tre ordini o stati, e soprattutto per il feudalesimo e la
teocrazia» (5). Di Solaro della Margarita Salvatorelli afferma tout
court che con lui, dopo il 1848, «il pensiero politico reazionario
italiano tocca il suo punto più basso» (6). Per esempio, l’opera
del ministro piemontese Avvedimenti politici (7) per
Salvatorelli «[…] è la più povera cosa immaginabile […] un’informe
litania di asserzioni arroganti e spropositate; una filza di periodi
disarticolati e zoppicanti che rivelano il vecchio aristocratico subalpino,
scarsamente padrone della lingua in un paese di cui non sentiva veramente di
far parte» (8). E «[…] l’unico interesse
teoretico che presenti il libro di Solaro è […] di mostrare il
disfacimento estremo del pensiero reazionario italiano. Nulla di meglio prova
come idealmente il processo del risorgimento italiano non avesse più di fronte
a sé nessun avversario» (9). Il capitolo da cui traggo questi
brani, che Salvatorelli intitola con sottigliezza eloquente Reazionari e
cattolici si conclude significativamente con due figure di cattolici, che
egli contrappone ai «reazionari», ossia Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) —
ma quanto a ragione secondo una lettura equilibrata e dando alla reazione il
suo più corretto, ma parimenti misconosciuto, significato di
«anti-assolutismo»? — e padre Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862).
Se è vero che lo sforzo di ripensamento delle ragioni della
costituzione sociale da parte di questi ultimi è più ampia e radicale — e,
anche, senz’altro più originale — di quella dei primi due, Salvatorelli
dimentica però due cose. Uomini come Canosa e Solaro non furono solo studiosi
di politica, ma polemisti, magistrati e uomini d’azione, che non elaboravano
dottrine, ma le servivano. Ed è vero che nelle loro opere si trovano asserzioni
forse banali, ma spesso esse sono la volgarizzazione di argomentazioni
tutt’altro che banali, come la riflessione storico-teologica demestriane e le
teorie politiche di pensatori di spessore come Karl Ludwig von Haller
(1768-1854), e queste non possono essere pregiudizialmente ignorate. A queste
dottrine, soprattutto Canosa, aggiungevano elementi di esperienza vissuta, che,
al di là della forma espressiva, tonificavano e irrobustivano e, se del caso,
anche rettificavano, l’argomentazione del pensatore che veniva ripreso.
5. Le culture anti-risorgimentali
Al di là di questa opinione che viene
esemplificata dai due storici progressisti che ho citato — e che purtroppo si è
diffusa e ha formato o de-formato il background di milioni d’italiani —,
in realtà, è esistito un filone di pensiero, del tutto degno e anche ricco,
alternativo a quello che è poi sfociato, sul piano politico, nelle istituzioni
che, più o meno immutate nella loro essenza, sono giunte fino a noi.
Non voglio commettere anch’io un errore di valutazione ideologica,
anche se di un’ideologia simmetrica a quella che pongo in questione. Non
intendo, cioè, dare eccessivo corpo e peso a queste correnti di opposizione
culturale presenti nel corso e dopo il compimento dell’Unità. Non tutti coloro
che stavano perdendo la guerra ebbero nozione di quanto stava accadendo; non
tutti quelli che ne ebbero nozione si opposero — basti ricordare la figura del
principe di Salina, anti-legittimista e «neo-unitario» proprio perché
conservatore, magistralmente disegnata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa
(1896-1957) nel suo romanzo Il gattopardo (10)—; non
tutti quelli che si opposero ebbero poi consapevolezza che la battaglia era
anche culturale. Se ne accorsero forse quando era ormai troppo tardi, quando, per
esempio, per pubblicare un libro «contro» si rischiava la denuncia penale e
l’ostracismo sociale. Quindi si tratta di una cultura di fatto minoritaria, di
livello non sempre eccelso e sociologicamente schiacciata da quella diventata
egemone, come pure, talora in maniera determinante, dalla sua oggettiva
espulsione da ogni e qualunque ambito istituzionale.
Per questa ragione tale cultura non è sostanziata da una fitta
schiera di personaggi, né essa si appoggia su una costellazione densamente
popolata di scuole e di centri di elaborazione culturale, di case editrici e di
testate giornalistiche. Né, ancora, si estrinseca in una scuola omogenea in
termini di pensiero, ma piuttosto attraverso un insieme di pensatori e di
uomini di cultura, ecclesiastici e laici, nobili e borghesi, assai spesso
isolati fra loro, con vedute non sempre coincidenti, con differenti capacità di
analisi, con mezzi d’intervento — il foglio, la rivista, il volume, l’opuscolo,
il dialogo — scelti sulla scorta di sensibilità dissimili, con disuguali
potenzialità di diffusione, nei quali però è possibile cogliere il tratto
comune di esprimere una opposizione argomentata alla Rivoluzione italiana e,
non di rado, anche capacità di mobilitazione di forze in grado di reagire.
Non sempre costoro comprendono e combattono l’avversario nella sua
globalità: la percezione dei fatti mentre si svolgono o subito loro a ridosso è
sempre fatalmente imprecisa. Non stupisce quindi che la visuale di questi
autori sia fortemente condizionata dalla problematica locale, mentre è raro
incontrare elementi dotati di una visione d’insieme a livello nazionale e
dotata delle categorie analitiche — ma non sempre della perspicacia —
necessarie per capire l’epocalità dei fatti in via di svolgimento.
Ci si trova di fronte più spesso ad «anti-unitari» oppure a
«legittimisti» oppure ad «anti-liberali» oppure ancora o, ancora, nel gergo
dell’avversario, a «papalini», a «borbonici», a «codini» e a «sanfedisti», ma
difficilmente ad «anti-risorgimentali» in senso compiuto.
Credo però che, al di là della difformità delle visioni e dei
moventi dei singoli, sia comunque lecito intravedere un «filo rosso», che lega
figure anche distanti nello spazio e nel tempo. E talvolta, più che gl’intenti
di ciascuno, è proprio il giudizio dell’avversario o degli avversari — di
quelli del momento come di coloro che si applicarono a ricostruirne la memoria ex
post — che consente di acquisire questo o quel personaggio
all’anti-Risorgimento.
6. Un profilo delle culture anti-risorgimentali
In breve, suddivise per epoca, così si
possono descrivere le principali figure e i gruppi più importanti che popolano
le culture che si opposero radicalmente al processo risorgimentale. Volutamente
non sono considerate quelle opposizioni interne di tipo «tattico», che il
movimento risorgimentale produsse, né soprattutto quei fenomeni di scarto o di
riporto — generatisi un esempio, da «destra», è quello del cattolicesimo
«neoguelfo», in auge prima del 1848 e poi «superata» da altre correnti più
organiche al liberalismo, mentre, «a sinistra», non si può non menzionare il
federalismo democratico sul modello del pensiero di Carlo Cattaneo (1801-1869)
— a misura del suo procedere e dell’esplicitarsi sempre più nitido delle sue
virtualità rivoluzionarie.
In questa sede ovviamente è possibile solo fornire nulla più di un
indice, alzare delle bandierine di segnalazione, accendere qualche spia
luminosa per quella che potrebbe essere una ricerca futura.
A. Il Settecento e le Amicizie Cristiane
Ai primordi dell’opposizione alla
Rivoluzione italiana, quando questa, ancor prima dell’Ottantanove, si trova
allo stadio germinale e opera soprattutto sul piano della battaglia delle idee
— con la lotta fra tutto ciò che si può rubricare sotto le voci di
enciclopedismo o illuminismo o razionalismo contro la cultura classica,
scolastica, religiosa — e delle politiche culturali dei principati «illuminati»
dell’Europa ancien régime, si deve collocare senz’altro una realtà, che
per lo più sfugge allo storico di mentalità razionalistica perché si colloca a
cavallo fra religione e cultura ed è stata visibile solo agli studiosi del
movimento cattolico, i quali però non ne hanno messo a fuoco adeguatamente
gl’intrecci con la storia della società tout court, bloccati dalla
diffusa pregiudiziale metodologica — a mio parere da rivedere —, secondo cui la
storia del movimento cattolico costituisce un genere scientifico a sé e non
invece solo uno degli angoli visuali dell’intera storia contemporanea.
È questo il movimento spirituale e culturale delle Amicizie
Cristiane, che venne fondato fra Svizzera, Piemonte, Lombardia e Austria da un
gesuita, padre Nicola Diessbach (1732-1798), già ufficiale di carriera dei
reggimenti elvetici al servizio del re di Sardegna. Siamo nell’ultimo quarto
del secolo XVIII, quando la Compagnia di Gesù è già stata espulsa dalla maggior
parte dei regni europei e poi soppressa da Papa Clemente XIV (1705; 1769-1773).
Le congregazioni gesuitiche passano alla semi-clandestinità e creano nuove opere
di apostolato, più consone ai tempi, indirizzate in particolare a combattere
quelli che la Compagnia considera i mali del secolo: il protestantesimo, il
libertinismo, il giansenismo, il quietismo, l’illuminismo razionalista, il
filantropismo laico della massoneria. Se simili mali ormai trionfano nelle
università ecclesiastiche e nei chiostri, nelle corti e nelle logge, essi
iniziano a intaccare anche la vita del popolo, nella misura in cui l’influenza
della Chiesa romana s’indebolisce, ristretta sempre più nella predicazione e
nella formazione religiosa dalla politica dei principi «illuminati». Le
Amicizie, di cui è iniziatore e animatore in Italia il futuro fondatore della
congregazione degli Oblati di Maria Vergine, venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830),
di Cuneo, svolgeranno un’opera di efficace e capillare contro-propaganda,
soprattutto negli ambienti alti e nei ceti colti di una società in rapidissima
trasformazione. Un’azione volutamente analoga e simmetrica rispetto a quella
svolta dalla stampa enciclopedistica e dalle società di pensiero, che si
fondava sulla diffusione nella società di «buoni libri»: opere di spiritualità
liguoriana e gesuitica, volumi di teologia spirituale e morale, buone
traduzioni bibliche, opere di letteratura e di sussidio alla preghiera e alla
vita spirituale. Durante gli anni della resistenza contro Napoleone nei ranghi
e sotto l’influsso delle Amicizie si formano figure importanti del
cattolicesimo italiano del primo Ottocento, nonché trae le sue radici quella
straordinaria fioritura di santità, che contrassegna il Piemonte nello stesso
secolo, da Giulia Colbert Falletti di Barolo (1786-1864) a san Giovanni Bosco
(1815-1888) (11).
B. Gli anni «giacobini» e napoleonici
Negli anni che intercorrono fra lo scoppio
della Rivoluzione a Parigi e la sua irruzione in Italia sulla punta delle
baionette napoleoniche, nel 1796, emerge, soprattutto nello Stato pontificio,
una fitta schiera di propagandisti, di predicatori, di giornalisti, di
scrittori su temi contro-rivoluzionari, quasi tutti ecclesiastici, i quali
operando, alla luce di categorie teologico-spirituali tipiche della scuola
romana, una lettura cattolica degli eventi drammatici che si vedono accadere
nella vicina Francia, vuole in un certo senso «preparare» gl’italiani a reagire
al momento di quello — che pare prima possibile, poi probabile, infine
imminente — scontro con l’ideologia egualitaria ed «empia», che fermentava
Oltralpe. I loro nomi — li hanno studiati soprattutto Giuseppe Pignatelli (12)
e Vittorio Emanuele Giuntella (1913-1996) (13), ai cui lavori
rimando per la bibliografia — dicono poco alla maggior parte di noi: Giacinto
Ferrari; il vescovo di Parma, il cappuccino Adeodato Turchi (1724-1803);
monsignor Giovanni Marchetti (1753-1829), prelato toscano; il catalano-romano
Francisco Gustà (1744-1816) e molti altri, ma si tratta di autori di decine di
opere a stampa, d’infaticabili viaggiatori, di propagandisti pieni di
abnegazione.
Anche durante il ventennio di Napoleone — il primo dei due ventenni
bonapartistici, in senso «tecnico», che l’Italia visse — non mancano figure di
oppositori con qualche ambizione teorica: oltre al principe di Canosa, già
attivo al tempo dell’invasione repubblicana, due importanti figure di scrittori
anti-napoleonici, entrambe ancora da studiare adeguatamente, emergono su tutte:
quella di Vittorio Barzoni (1767-1843), di Lonato in provincia di Brescia — un
suo pamphlet del 1797 sulle rapine compiute dai francesi durante la loro
occupazione della Repubblica di Venezia prima di Campoformio, nonostante il
controllo della polizia francese e napoleonica, ebbe quindici edizioni e fu
tradotto in quattro lingue: eppure, quanti oggi sanno chi è Barzoni? (14)
—, e il medico milanese Augusto Bozzi Granville (1783-1872) (15),
emigrato in Inghilterra e divenuto uno degli animatori della propaganda
anti-bonapartistica in Italia e nel Mediterraneo, dalla base di Malta, allora
sotto bandiera inglese. Studi recenti hanno anche sottolineato l’importanza
dell’opera di restaurazione lessicale svolta in Italia in questo periodo dal
gesuita di origini svedesi Ignazio Thjulen (1746-1833).
C. Dalla Restaurazione al Quarantotto
Nei decenni della Restaurazione, molti
intellettuali e polemisti metteranno in luce il carattere ibrido e rischioso di
questi anni di apparente rivincita contro-rivoluzionaria, propugnando come
soluzione per smorzare definitivamente ogni fermento rivoluzionario, anche se
con diverse declinazioni, il superamento dell’assolutismo regio nel senso di un
ricupero di spazio per le libertà tradizionali e per le autonomie di corpi, dei
ceti e dei territori, che l’assolutismo aveva distrutto: l’economista milanese
don Paolo Vergani (1753-1820?), ancora il principe di Canosa, il marchigiano conte
Monaldo Leopardi (1776-1847), i giornalisti monsignor Giuseppe Baraldi
(1778-1832), modenese, Cesare d’Azeglio (1763-1830) e don Giacomo Margotti
(1823-1887), questi ultimi entrambi torinesi.
Intorno al Quarantotto, di fronte alla lievitazione del movimento
unitario-indipendentistico e al prevalere delle correnti cattoliche «guelfe»,
le voci critiche si attenueranno, mentre figure di estremo rilievo
intellettuale, come il gesuita Luigi-Prospero Taparelli d’Azeglio (1793-1862),
figlio del conte Cesare e fratello del più noto scrittore liberale Massimo
(1798-1866), e come l’abate Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), attingendo
anche a teorie dei contro-rivoluzionari francesi e svizzeri, cercheranno di
elaborare una filosofia politica rinnovata e organica, che concili l’essenza
dell’antico regime ormai al tramonto, abbandonandone ove necessario le forme e
integrandovi i migliori spunti della modernità, con lo Stato nazionale, dando
così corpo a forme di cultura sempre di natura conservatrice, ma più aperte di
quelle oltranziste nei confronti del mondo a loro contemporaneo.
D. Dopo l’Unità
Ma, quando la Rivoluzione italiana, dopo
un decennio di effimera restaurazione degli antichi regni, riprende a galoppare
e in breve volgere di tempo riesce, anche se un po’ fortunosamente e con
modalità del tutto illegittime dal punto di vista giuridico-diplomatico, a
costruire un regno unitario, indipendente e costituzionalmente moderno, le voci
critiche riprendono.
Agli anni 1860 risale, per esempio, la rilettura ampia e
documentata delle vicende della mazziniana Repubblica Romana del 1849, di cui è
autore Giuseppe Spada (1796-1867), uno storico annalista romano. I suoi tre
volumi della Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del
governo pontificio dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849 (17),
usciti — incompleti rispetto al manoscritto — fra il 1868 e il 1869,
smentiscono in pieno il carattere patriottico e vessillare, che una certa
letteratura oleografica e filo-rivoluzionaria ha voluto assegnare a questa specie
di «micro-Comune di Parigi», sinistramente insediatasi nel cuore della
cristianità come colpo di coda del ciclo di rivoluzioni degli anni 1847-1849.
Particolarmente robusta è la reazione nel Mezzogiorno, dove le
opere storiche di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) (18) rappresentano
una prima risposta a una storiografia dei vincitori, che già inizia a prendere
corpo e a denigrare il vinto.
Un po’ più tardi lavori come l’articolata e severa riflessione
storica del romano Paolo Mencacci (1828-1897) — soprattutto con l’opera di
vasto respiro Memorie documentate per la storia della rivoluzione italiana (19)— e di monsignor Pietro Balan (1840-1893) — con la sua Storia d’Italia posta
in appendice alla voluminosa Storia della Chiesa dell’abate René
François Rohrbacher (1789-1856) (20) —, anche sfruttando la
conclamata, ma ben delimitata, libertà di stampa liberale, si sforzeranno di
ristabilire ragioni e torti dell’intera vicenda unitaria, dai primi moti degli
anni Venti fino al 1870, sia in prospettiva italiana, sia con lo sguardo
rivolto alla situazione internazionale.
Una delle opere storiche più pregevoli sul Risorgimento è rimasta a lungo nei cassetti, perché scritta in inglese. Bisogna infatti attendere la fine del secolo XIX, per vedere uscire, in edizione parziale, e il 1965 per vedere apparire a Roma la traduzione integrale delle memorie e delle riflessioni di un ex soldato pontificio delle brigate internazionali, l’irlandese Patrick Keyes O’Clery (1849-1913), che sarà in seguito eletto deputato al Parlamento di Londra. O’Clery scrisse due opere d’intonazione memorialistica: The Revolution of the barricades, sulla prima fase, fino al 1848 della Rivoluzione in Italia, e The making of Italy, che comprendeva la narrazione degli avvenimenti del 1859-1861, della guerriglia garibaldina anti-pontificia degli anni 1862-1867 e, infine, della presa di Roma nel 1870, cui lo stesso O’Clery poté assistere tra le file dei difensori dell’Urbe. Qualche anno fa a Milano entrambi gli scritti sono stati riediti in un unico volume dal titolo La Rivoluzione italiana (21) e costituiscono, a mio avviso, sia per la freschezza delle informazioni, sia per lo stile sereno e piacevole in cui sono redatti, la miglior lettura disponibile, quanto meno nel suo genere, sul nostro Risorgimento.
E. L’Insorgenza
Questo è in breve un profilo, senz’altro
rapsodico, di quello che è stato chiamato l’«Anti-Risorgimento» italiano. Per
completezza di quadro e usando di questa realtà come «mezzo di contrasto», non
si può non menzionare tuttavia anche un altro moto contro il Risorgimento nelle
sue diverse fasi, un movimento di cui è protagonista non la classe
intellettuale ma il popolo: una vicenda che si apre con le insurrezioni
«anti-giacobine» e anti-francesi del 1796-1799; prosegue con l’endemica
ribellione delle campagne durante il decennio «cesareo», e si esaurisce con la
repressione del cosiddetto brigantaggio meridionale nei primi anni 1870. Un
ciclo di eventi apparentemente scollegati e con motivazioni occasionali non
sempre uniformi, ma che rivela — almeno da quanto emerge dai timidi
accostamenti finora subiti — una solida coerenza di ragioni di fondo e una
precisa omogeneità attraverso il tempo e lo spazio, non solo italiano, ma anche
europeo e transatlantico.
Anche se, come la reazione culturale, la mobilitazione popolare,
per diversi motivi, ebbe sempre scarse possibilità di vittoria, essa tuttavia
rappresentò un assillo costante, che non fece mai dormire generali francesi e
«italici», e rese sempre cauti gli artefici della «nuova» Italia: quando essi,
nel 1860 «schiacciarono l’acceleratore» nel Mezzogiorno, dovettero fare i conti
con almeno un decennio di feroce rivolta contadina. Ma questa è tutta un’altra
storia…
7. La storia mutilata e l’identità degli italiani
Per concludere, se è pur vero quello che
diceva Salvatorelli, ossia che queste correnti di opposizione di tipo culturale
non riuscirono a fermare il Risorgimento, è altrettanto vero che questa
resistenza vi fu e il fatto di non parlarne e, soprattutto, di non riprenderne e
valutarne con scrupolo le argomentazioni, significa trasmettere un’immagine
della storia d’Italia incompleta e alterata.
Lo stesso Antonio Gramsci (1891-1937), nei Quaderni dal carcere —
scritti fra il 1929 e il 1935 —, caldeggiava intelligentemente «la
pubblicazione ed esame dei libri e delle memorie degli antiliberali e
antifrancesi nel periodo della Rivoluzione francese e di Napoleone e reazionari
nel periodo del Risorgimento […], in quanto anche le forze avverse al
moto liberale furono una parte e un aspetto non trascurabile della realtà»
(22). Mi pare, che al di là delle diverse prospettive ideali — ma
già Papa Pio XII (1876; 1939-1958) suggeriva ai militanti cattolici di imparare
dai loro avversari —, sia un’indicazione di carattere metodologico tutt’altro
che spregevole. La memoria degl’italiani non può continuare a essere
compartimentata e illuminata settorialmente a seconda delle esigenze delle
varie scuole ideologiche e delle varie parti che si scontrano fra di loro
dall’Unità in poi.
Proprio di recente lo storico liberale Ernesto Galli della Loggia
ha curato un volume di atti di un convegno che la Fondazione Giovanni Agnelli
di Torino ha organizzato nel 2001 sul senso identitario degl’italiani (23).
Da più di un intervento emerge il dato preoccupante di una profonda e cronica
«divisività» — il neologismo è dello storico Luciano Cafagna —, che affligge la
politica italiana.
Una divisione e una contrapposizione apparentemente insanabili, che
nascono proprio dal fatto che l’Italia moderna è stata costruita in forma
«intensamente» ideologica e, quindi, escludente e selettiva. È un fatto che
l’Italia nasca, per esempio, contro e, quindi, senza i cattolici, che saranno
«riammessi» nel «salotto buono» del governo della nazione solo nel secondo dopoguerra,
ma solo a condizione di vantare un pedigree gramscianamente
«democratico».
Ma che nasce anche dal fatto che la classe dirigente — ma non solo
— si mostra tetragona a ogni riscoperta o revisione che induca a ripensamenti e
quindi a possibili mutamenti di rotta.
Questa divisione tende a perpetuarsi in memorie e in storiografie
differenti, antitetiche e antagoniste, soprattutto nei decenni centrali del
Novecento, quando nuovi conflitti e nuovi fattori di divisione maturano e le
ideologie raggiungono il loro parossismo con il nazionalismo e con i
totalitarismi nazionalsocialista e comunista.
Se si vuole estinguere questa conflittualità o almeno attenuarne
l’intensità occorra, lavorare non per costruire un’altra memoria di parte — per
quante buone ragioni essa possa avere —, ma per ricomporre una memoria pubblica
diversa. Una memoria pubblica che non può essere di certo unica o uniforme,
perché impossibile da ottenere scientificamente — la ricerca muta ogni giorno,
si potrebbe dire, i dati su cui lavorare —, né ha senso elaborarne una, più o
meno aderente ai fatti, ma in linea con i desiderata del potere, e poi
di fatto imporla come l’unica possibile: ed è quanto accade oggi, anche se i
fautori della versione «istituzionalizzata», forse nemmeno ne sono consapevoli.
Occorre, invece, con pazienza e rinunciando ciascuno a un «pezzo di cuore»,
costruire una rappresentazione del passato completa, aggiornata e almeno
fattualmente condivisa, riconciliando le diverse letture intorno a un nucleo
essenziale di fatti accettati.
A questo punto le diverse letture dovranno confrontarsi con una
base di dati che non potrà essere manipolata a seconda delle diverse visioni di
fondo. Di questo confronto gli esiti possono essere vari. Ma se, una volta
ricostruita l’immagine nella sua completezza o almeno in misura sufficiente,
ciascun soggetto culturale, come tale o nei suoi eredi legittimi, individui e
ammetta — se ve ne sono — le proprie «colpe» storiche, senza omissioni o
auto-censure sarà solo un bene per tutti.
Va osservato che il discorso vale naturalmente per la memoria
nazionale, per la memoria pubblica: le memorie private, di singoli o di gruppi,
facendo parte di un vissuto umano che non è stato sostanziato solo di scelte
razionali ma di carne e di sangue, non trovare punti comuni se non al prezzo di
uno sforzo di purificazione che non è alla portata di tutti e che solo la fede
può riuscire a far compiere..
A questo lavoro sul passato, che rimanda immediatamente alla
questione della nazionalità o dell’identità della nazione, bisogna tener conto
che oggi spinge non solo lo scrupolo di verità e di onestà intellettuale, ma
anche il sistema politico fondato sul principio dell’alternanza o del
bipolarismo. Se il prevalere dell’uno o dell’altro polo porta con sé anche una
diversa concezione dell’identità nazionale, che rimanda a una memoria di parte,
magari ancora impregnata di rancore e di spirito di rivalsa, è evidente che
ogni confronto elettorale possa assumere i lineamenti della battaglia,
dell’ultima ridotta, del «fuori i barbari!» e il Paese non ne beneficerà di
certo.
Va altresì precisato, sotto altro aspetto, che è normale e
necessario che una comunità politica abbia un insieme di valori costitutivi
della convivenza, che si fondino anche su una lettura del passato nazionale. Lo
impongono le scelte di politica internazionale e la sempre più pressante
necessità di integrare «nuovi» cittadini, siano essi i giovani che entrano a
ondate successive nella vita civile, oppure stranieri che intendono acquisire
la cittadinanza italiana.
Questo però non può e non deve avvenire a detrimento della memoria
dei fatti come essi furono realmente, né oltraggiare la verità. Anche la storia
«ufficiale» deve smettere di nutrirsi di cliché ancora pesantemente
intrisi di ideologia e deve invece saper integrare quanto emerge dalla ricerca
e non, al contrario, incombere sulla ricerca con tesi precostituite, volte a
condizionarla — nel fare e nell’omettere —, solo perché vi si riconosce la
storia di una classe costituente o perché si teme di mettere in pericolo
l’unità della nazione. La biografia di un popolo ha un percorso scandito da
scelte di fondo e queste scelte non sempre possono essere state giuste e sante.
Se la ricerca mette sempre più in luce, per esempio, che esistono
aspetti discutibili della Resistenza, non è una buona scelta quella di metterne
in discussione questa realtà, ma occorre invece valutarla storicamente — cioè
calandosi nel suo tempo, non solo cronologico — e poi acquisirla comunque alla
biografia nazionale, consapevoli che nella storia degli uomini non esistono
solo luci ma anche — e più numerose — ombre: in altre parole occorre, se del
caso, rinunciare all’oleografia.
Il che non vuol dire che un popolo debba giustificare sempre tutto
ciò di cui è stato artefice, «hegelianamente», solo perché ciò è avvenuto. Le
scelte si fanno sempre alla luce di principi che sia i singoli, sia i popoli
possono conoscere. Nell’elaborare la propria auto-identificazione nazionale, se
è doveroso includere tutte le pagine della propria auto-biografia senza
stracciarne nemmeno una, è altrettanto doveroso esprimere la propria opinione
sul presente e sul passato e sul proprio passato. Ma distinguendo fra il
giudizio sul proprio passato e il passato stesso, al fine di non coartare il
lavoro sul passato all’interno di un alveo predeterminato da ragioni
etico-politiche, cioè estranee al piano della storiografia.
Proseguendo nell’esemplificazione, si può dire almeno con lo sguardo dell’oggi, che la scelta di campo fatta dall’Italia nel 1943 di combattere con le democrazie contro il totalitarismo hitleriano ha una sua eticità di fondo. Ma non ha senso storicamente occultare in quale maniera sciagurata l’Italia attuò questa scelta di campo o condannare la memoria di quei molti, forse molto più numerosi degli avversari, che, alla luce di altri valori etico-politici — magari senza ben comprendere a che cosa ciò portasse nei fatti: collaborazione alle deportazioni, rastrellamenti, partecipazione a eccidi —, scelsero dopo quattro anni di guerra di restare a fianco dell’alleato: di coloro cioè che alla libertà preferirono l’autorità, trovandosi a dover scegliere non nel «salotto buono» ma nell’incandescenza degli eventi e in un contesto tutt’altro che limpido.
8. Un esempio di memoria riconciliata
Un felice esempio di un atteggiamento più flessibile verso la memoria si può ritrovare nei gesti così clamorosi e discussi — ma a mio avviso così limpidi e di buon senso — compiuti da Papa Giovanni Paolo II nell’imminenza del grande giubileo dell’anno 2000 (1). Il pontefice di allora, con il suo continuo appello alla pietas e alla purificazione della memoria, con il suo invito ad abbandonare le falsificazioni strumentali, con la sua esortazione a fare ciascuno per primo «il primo passo» nell’ammettere e nel confessare, se provate storicamente, le proprie responsabilità nel male eventualmente fatto e a porre le premesse per riconciliarsi con l’altro — cosa ancora più urgente se l’altro è il concittadino e il connazionale — ha veramente posto delle pietre miliari lungo questo percorso di cambiamento.
[L’articolo riprende, rielaborandolo e parzialmente annotandolo, il testo della relazione Scrittori e intellettuali contro l’Unità, svolta il 21-2-2004 al XII Convegno Tradizionalista della Fedelissima Città di Gaeta, tenutosi dal 21 al 22 febbraio 2004, sul tema Risorgimento: una storia da riscrivere; dedichiamo questo contributo alla memoria dell’on. avv. Silvio Vitale (1928-2005), che del convegno fu ideatore e anima].
Note
(1) Cfr. D’Arlincourt,
L’italia rossa o storia delle rivoluzioni di Roma, Napoli, Palermo, Messina,
Firenze, Modena, Torino, Milano e Venezia dall’elezione di Pio IX al di lui
ritorno in sua capitale (giugno 1846-aprile 1850) esposta in francese dal
Visconte D’Arlincourt e ridotta in italiano con note da Francesco Giuntini
socio di varie accademie, Manuelli, Firenze 1851.
(2) Furio Diaz, Rivoluzione
e controrivoluzione, in Storia delle idee politiche, economiche e
sociali, a cura di Luigi Firpo, 6 voll., Utet, Torino 1972-1987, vol. IV,
tomo II, pp. 597-719 (p. 716).
(3) Cfr. Luigi Salvatorelli,
Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, reprint, Einaudi,
Torino 1975.
(4) Ibid., p. 196.
(5) Ibid., p. 200.
(6) Ibid., p. 205.
(7) Cfr. Clemente Solaro della
Margarita, Avvedimenti politici del conte Clemente Solaro della
Margarita ministro e primo segretario di stato per gli affari esteri del re
Carlo Alberto, 3a ed., unita ristampa di tre opuscoli di
argomento politico, Fiaccadori, Parma 1867.
(8) L. Salvatorelli, op.
cit., p. 206.
(9) Ibid., p. 207.
(10) Cfr. Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, Il gattopardo,11a ed., Feltrinelli,
Milano 1997.
(11) Sulle Amicizie cfr., fra l’altro, Candido Bona, Le «Amicizie». Società segrete e rinascita
religiosa (1770-1830), Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 1962;
Vittorio Michelini, Le Amicizie
Cristiane testimonianze storiche di rinascita cattolica, NED, Milano 1977; Luciano vaccaro, I «veri cristiani».
Esperienze di apostolato laicale a Milano tra Settecento e Ottocento, in
Antonio Acerbi e Massimo Marcocchi (a cura di), Ricerche sulla Chiesa di
Milano nel Settecento, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 253-304; nonché Paolo Calliari (1913-1991), Il
Venerabile Padre Pio Bruno Lanteri (1759-1830) fondatore degli Oblati di Maria
Vergine nella storia religiosa del suo tempo, dattiloscritto, 5 voll.,
Chiavari (Genova) 1978-1983; Paolo
Gastaldi (1817-1902), Della vita del servo di Dio Pio Brunone Lanteri
fondatore della Congregazione degli Oblati di Maria Vergine, Marietti,
Torino 1870; Tommaso Piatti (1886-1956),
Un Precursore dell’Azione Cattolica. Il Servo di Dio Pio Brunone Lanteri.
Apostolo di Torino. Fondatore degli Oblati di Maria Vergine, Marietti,
Torino-Roma 1926. Gli scritti integrali di Lanteri sono stati ora editi in Pio Bruno Lanteri, Scritti e
documenti d’archivio, 4 voll., Editrice Esperienze-Edizioni Lanteri,
Fossano (Cuneo)-Roma 2002; la raccolta è consultabile anche nel sito Internet
<www.knowhowsphere.net>.
(12) Cfr. Giuseppe
Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a
Leone XII, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1974.
(13) Cfr. Vittorio Emanuele
Giuntella (a cura di), Le dolci catene. Testi della controrivoluzione
cattolica in Italia Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma
1988.
(14) Cfr., fra le altre opere, Vittorio
Barzoni, I Romani nella Grecia, 1797, 15a ed.,
Grondona, Genova 1849; Idem, Memorabili
avvenimen-ti successi sotto i tristi auspici della Repubblica francese,
1799, 2 voll., Tipografia de’ Classici, Roma 1837; e Id., Rivoluzioni della Repubblica Veneta, 2 voll.,
Filadelfia 1804.
( 15) Cfr., oltre alle molteplici opere di carattere scientifico, Augustus Bozzi Granville, Autobiography of A. B. Granville: eighty-eight years of the life of a physician, a cura di Paulina Bozzi Granville, H. S. King, Londra 1875; Idem, On the formation and constitution of a kingdom of Upper Italy: in a letter to the right hon. viscount Palmerston, James Ridgway, Londra 1848; e Id., The italian question : a second letter to Lord Palmerston : with a refutation of certain misrepresentations by Lord Brougham, Mr. D’Israeli, and the Quarterly Review, James Ridgway, Londra 1848. Bozzi, tredicenne, aveva assistito con i genitori, sul corso di Porta Romana, al trionfale ingresso in Milano del generale Bonaparte il 15 maggio 1796; s’iscrisse a Medicina presso l’ateneo di Pavia, in cui fu discepolo di Alessandro Volta (1745-1827); inizialmente simpatizzante per i francesi, fu arrestato nel 1799 al momento del temporaneo ritorno della Lombardia in seno all’Impero asburgico; per sfuggire alla leva napoleonica, emigrò a Corfù, e poi si recò in Grecia, dove strinse duratura amicizia con lord William Hamilton (1777-1869), l’ultimo ambasciatore britannico a Napoli, e ancora in Turchia; intraprese quindi una serie di viaggi in Oriente e poi in Spagna e in Portogallo; nel 1807 entrò nella marina inglese, con la quale intraprese diversi missioni e di viaggi; nel 1813 si stabilì in Inghilterra, dove diede vita, fra l’aprile del 1813 e il dicembre del 1814, a un periodico apparentemente letterario, ma in realtà cripto-politico, L’Italico, dagli orientamenti fieramente anti-assolutistici, filo-britannici e unitari, che fu diffuso soprattutto fra l’aristocrazia e gli emigrée italiani della capitale. Si segnalò come luminare della medicina e si ascrisse anche alla massoneria inglese; morì a Dover. Su di lui cfr. fra l’altro Renato Sòriga (1881-1939), Augusto Bozzi Granville e la rivista «L’Italico» (1813-1814), in Bollettino della Società Pavese di Storia Patria, vol. XIV, fascicolo 3-4, Mattei-Speroni & C., Pavia, dicembre 1914, pp. 265-301.
(16) Giuseppe Spada, Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849, 3 voll., G. Pellas, Firenze 1868-1869.
(17) Cfr., fra le numerose altre, Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Berisio, Napoli 1964; Idem, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, con una introduzione di Silvio Vitale (1928-2005), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 1994.
(18) Cfr. Paolo Mencacci, Memorie documentate per la storia della rivoluzione italiana, 6 voll. Tip. Artigianelli di S. Giuseppe-Desclée e Lefebvre, Roma 1886-1891.
(19) Cfr. Pietro Balan, Storia d’Italia, 2a ed. aumentata e corretta a cura di Rodolfo Malocchi, 10 voll., Tip. Pontificia ed Arcivescovile dell’Immacolata Concezione, Modena 1894-1899; e René François Rohrbacher, Storia universale della chiesa cattolica dal principio del mondo fino ai dì nostri, 4a ed., 16 voll., Marietti, Torino 1872-1873.
(20) Patrick Keyes O’Clery, La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, trad. it., a cura di Alberto Leoni, Ares, Milano 2000.
(21) Antonio Gramsci Il Risorgimento, n. ed. riveduta e integrata a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 164.
(22) Cfr. Due nazioni? Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Torino, 11 e 12 ottobre 2001, con interventi di Ernesto Galli della Loggia, Luciano Cafagna, Giovanni Belardelli, Paolo Macry, Giorgio Rumi, Giovanni Sabbatucci, Loreto Di Nucci, Raffaele Romanelli, Massimo Salvatori, Paolo Mieli, Piero Craveri, Paolo Pombeni, Francesco Traniello ed Elena Aga Rossi (atti in Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003).
(23) Sul tema, particolarmente illuminanti, nonché puntuali dal punto di vista documentario, paiono le considerazioni di Giovanni Cantoni, in Idem, La «purificazione della memoria» e la devozione al Cuore Immacolato di Maria per la Nuova Evangelizzazione, in Cristianità, anno XXX, n. 313, Piacenza 2002.
Oscar Sanguinetti