Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI (II)

Posted by on Dic 28, 2024

ATTERRITE QUESTE POPOLAZIONI (II)

“Il governo borbonico aveva almeno il gran merito

di preservare le nostre vite e le nostre sostanze,
merito che l’attuale governo non può vantare.
Le gesta alle quali assistiamo possono essere paragonate
a quelle di Tamerlano, Gengis Khan e Attila”.
(Deputato Giovanni Nicotera)


“I reclami giungono perché si sono veduti favori ed ingiustizie,

perché il metodo usato non approda a nulla …

… da sette otto mesi cosa vediamo?

Fucilazioni, guasti alle proprietà, 300 mila abitanti martorizzati, e nient’altro,

eppure Milon dispone di cinque battaglioni di bersaglieri, di soldati di linea, di oltre 400 capimandria,

ha sotto le armi la popolazione di quasi tre circondari!

Tutto ciò per dieci briganti!

… in ogni cosa un limite è necessario e le attuali fucilazioni sono perfettamente inutili.

… che Milon sia un ufficiale di onore lo credo, e debbo crederlo quando l’asserisce Lei,

ma i fatti che le ho narrati sono veri, troppe le fucilazioni d’innocenti …

forse ho potuto ingannarmi nell’apprezzamento dei motivi d qualche fatto, ma i fatti esistono …

   … per ora si dovrebbe assolutamente bandire il sistema delle fucilazioni,

che sono un’onta al paese, alla libertà, e all’umanità,

e smettere tante misure di rigore inutili”.

(Deputato Vincenzo Sprovieri)

“Il brigantaggio è una guerra civile,
uno spontaneo movimento popolare contro l’occupazione straniera,
simile a quello avvenuto nel Regno delle Due Sicilie dal 1799 al 1812,
quando il grande Nelson, sir John Stuart e altri comandanti inglesi
non si vergognarono di allearsi ai briganti di allora 

e al loro capo, il il Cardinale Ruffo,
allo scopo di scacciare gli invasori francesi”.
(William Henry Cavendish-Bentinck)

“Desidero sapere in base a quale principio discutiamo delle condizioni della Polonia
e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano.
E’ vero che in un Paese gli insorti sono chiamati briganti e nell’altro patrioti,
ma, al di là di questo, non ho appreso da questo dibattito nessuna altra differenza fra i due movimenti”.
(Benjamin Disraeli)

“Ho scritto a Torino le mie rimostranze;
i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da far ritenere
che essi alieneranno tutti gli onesti dalla causa italiana.
Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine,
ma gli atti più colpevoli e indegni sono considerati normali espedienti:
un generale, di cui non ricordo il nome,
avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro nei campi,
ha decretato che siano fucilati tutti coloro che sono trovati in possesso di un pezzo di pane.
Borboni non hanno mai fatto cose simili”.
(Napoleone III)

“Sento il debito di protestare contro questo sistema.
Non mi curo se fatti tenebrosi come questi abbiano avuto luogo
sotto il dispotismo di un Borbone, o sotto lo pseudo liberalismo di un Vittorio Emanuele.
Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza
alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra
– deve più a questa che non a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia –

e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbare atrocità,
e protesto contro l’egida della libera Inghilterra così prostituita”.
(Henry Lennox)

“L’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato liberalismo,

si stanno sbarbicando dalla radice tutti i diritti,

manomettendo quanto vi è di santo e sacro sulla terra.

Italia, dove sono devastati i campi, incenerite le città,

fucilati a centinaia i difensori della loro indipendenza”

(Candido Nocedal)

“Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell’occupazione dell’Italia meridionale.
In luogo di pace, di prosperità, di contento generale
che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità italiana,
non si ha altro di effettivo che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate
ed una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, un’impostura”.
(McGuire)

“Noi abbiamo tolto gli uomini, ma ho la ferma convinzione che le Calabrie troveranno altri Palma,
se le cause materiali e morali che ingenerano il brigantaggio non siano combattute
dallo sviluppo del benessere materiale e morale di queste popolazioni”.
(Generale Gaetano Sacchi)

“I nostri nipoti studieranno con stupore il fenomeno,
che un decennio di governo nazionale sia stato un decennio di debolezze,
di perplessità, di empirismo, e rispetto a queste province starei per dire 
di completo abbandono di ogni arte di governare“.
(Il Prefetto di Cosenza, 1870)

“Atterrite queste popolazioni”.

(Colonnello Bernardino Milon)

Cos’era successo? E perché era successo?

Che ne era di quella “scena commovente” di “un Re d’Italia senz’altro corteggio che i popolani con i rami d’ulivo intorno al cocchio“, di quel continuo “agitare di fazzoletti e di bandiere che facevano le signore e signorine dai balconi“, di una piazza che era tutta “un urtarsi, un pigiarsi della folla, un batter di mani, un gridare, un piover di mazzolin di fiori“?

Dov’era finito l’entusiasmo meridionale per l’arrivo a Napoli di Re Vittorio Emanuele?

“… pioggia sfuriata, freddo umido ecc. ecc.

I poveri soldati e le Guardie Reali che facevano ala, furono alla lettera inzuppati d’acqua.

Ma comunque piovesse al suo comparire era una scena commovente

vedere un Re d’Italia entrare in Napoli senz’altro corteggio 

che i popolani con i rami d’ulivo intorno al cocchio, e poche guardie a cavallo,

e un agitare di fazzoletti e di bandiere che facevano le signore e signorine dai balconi,

ed un urtarsi, un pigiarsi della folla immensa a piedi, un batter di mani, 

un gridare, un piover di mazzolin di fiori, ecc.:

Garibaldi seduto accanto al Re, commosso da tanti applausi,

e nello stesso cocchio Mordini e Pallavicino, i due prodittatori.

Ieri sera gran galà in S. Carlo, ma non abbiamo potuto andarci,

perché i biglietti trovansi da due giorni prima esauriti.

Le feste però saran prolungate fino a domenica,

perché l’inetto Municipio (tutti i Municipi sono gli stessi)

non aveva appronto gli apparecchi necessari.

Te ne continuerò in dettaglio in altre mie.

Assicurasi che Farini rimarrà in Napoli come Luogotenente ad organizzarci il governo,

e che il Re abbia intenzione di girare un poco per la Sicilia e pel continente napoletano.

Cecco Bombino?

Sta rinchiuso ancora in Gaeta, ma credesi che tra pochi altri giorni ne partirà.

Auguriamo tutto il bene possibile e preghiamo Iddio fervidamente

che voglia benedire la grande, insperata, ricostruzione della nazionalità italiana”.
(Lettera scritta a Napoli l’8 novembre 1860, spedita il 10 e giunta a Cittanuova  – Palmi – il 14)

Perché quell’esultanza incontrollata aveva lasciato il posto a “atti brutali e feroci fino alla follia“, a “amari commenti“, a “invocazioni rivolte a Garibaldi“, dopo appena un anno dalla proclamazione del Regno d’Italia?

Nel 150° anniversario dell’unificazione il Presidente della Repubblica Napolitano tirò una stoccata contro chi “con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l’Unità poco oltre il limite di un Regno dell’Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva all’ideale del movimento nazionale“.Sarà pure così, ma intanto Cavour non era mai stato più a sud di Firenze, e Vittorio Emanuele, una volta a Napoli, sentì tutta l’insofferenza di uno straniero: “Lei resta a Napoli” – dirà al Colonnello Thaon di Revel, direttore del Ministero della Guerra della Luogotenenza di Farini – “ma io per fortuna me ne vado“.

Cosa immaginavano di trovare in quel territorio ribattezzato Mezzogiorno italiano? Forse un Piemonte un po’ più triste e povero. Scoprirono invece un altro mondo, un’altra cultura, e intuirono allora di aver ragionato su un’illusione: che bastasse proclamare un nuovo Regno affinché il popolo sentisse di appartenervi; che si potessero seppellire conflitti endemici sotto un’artificiosa valanga di “SI” plebiscitari; che sarebbe bastato un prolungamento meccanico della legislazione sarda, senza bisogno di alcuno sforzo di penetrazione nel contesto sociale, senza necessità di interventi strutturali nell’economia, nell’istruzione, nelle finanze.

Nel 150° anniversario dell’unificazione il Presidente della Repubblica Napolitano tirò una stoccata contro chi “con fuorvianti clamori e semplicismi continua a immaginare un possibile arrestarsi del movimento per l’Unità poco oltre il limite di un Regno dell’Alta Italia di contro a quella visione più ampiamente inclusiva dell’Italia unita, che rispondeva all’ideale del movimento nazionale“.Sarà pure così, ma intanto Cavour non era mai stato più a sud di Firenze, e Vittorio Emanuele, una volta a Napoli, sentì tutta l’insofferenza di uno straniero: “Lei resta a Napoli” – dirà al Colonnello Thaon di Revel, direttore del Ministero della Guerra della Luogotenenza di Farini – “ma io per fortuna me ne vado“.

Cosa immaginavano di trovare in quel territorio ribattezzato Mezzogiorno italiano? Forse un Piemonte un po’ più triste e povero. Scoprirono invece un altro mondo, un’altra cultura, e intuirono allora di aver ragionato su un’illusione: che bastasse proclamare un nuovo Regno affinché il popolo sentisse di appartenervi; che si potessero seppellire conflitti endemici sotto un’artificiosa valanga di “SI” plebiscitari; che sarebbe bastato un prolungamento meccanico della legislazione sarda, senza bisogno di alcuno sforzo di penetrazione nel contesto sociale, senza necessità di interventi strutturali nell’economia, nell’istruzione, nelle finanze.

(Raffaele de Cesare)

E’ certo un grave limite per la classe dirigente erede del Cavour non aver compreso a tempo la gravità delle condizioni economico-sociali del Mezzogiorno” – scriverà nel 1961 lo storico Ruggero Moscati -“e, soprattutto, l’aver imposto frettolosamente al Mezzogiorno sistemi doganali, tariffe daziarie ed un complesso di leggi estranee alla tradizione giuridico-amministrativa dell’ex regno, alimentando quella insoddisfazione determinata da esigenze non poco confuse e contraddittorie fatte di insofferenza, di delusioni, di disagio, di aspettativa []. In sostanza, il Mezzogiorno era stato pronto a sacrificarsi per l’unità in uno slancio di entusiasmo generoso, ma riluttava ora a divenire una provincia e, nel travaglio profondo della crisi unitaria, constatava come i suoi miraggi di una floridezza economica si risolvessero, almeno per il momento, nella realtà di un impoverimento“.

Il popolo meridionale percepì il nuovo Stato geograficamente lontano e culturalmente estraneo, e la classe politica preferì adagiarsi sull’idea di un’intrinseca inferiorità dei meridionali, piuttosto che indagare le cause del malcontento e impegnarsi a rimuoverle. Il Governo italiano tagliò i nodi con violenza, anziché scioglierli con pazienza. Marchiò il contadino come brigante, e fu il più tragico degli errori, perché le ragioni del brigante diventarono le ragioni del contadino, e del popolo tutto, che aiutò il brigante in ogni modo possibile. La stessa parola brigantaggio (per indicare il fenomeno generale) subì uno slittamento di significato rispetto al termine brigante (che avrebbe dovuto materializzare il fenomeno). “Ci sono i briganti quando dei tristi usano la violenza per riempirsi la pancia” – dirà il patriota Vincenzo Padula – “Si ha il brigantaggio quando quella violenza viene condivisa dal popolo contro una minaccia“.

Una minaccia: questa era l’Italia unita per le masse contadine. E le masse reagirono attraverso il loro braccio armato: i briganti. Ne seguì una guerra civile unica nel suo genere, per intensità, persistenza, estensione sociale e ampiezza territoriale. Gli ideali risorgimentali bruciavano assieme ai villaggi, morivano con gli uomini e le donne fucilati per rappresaglia e senza processo. Questa guerra diventò presto motivo di imbarazzo per l’immagine etno-culturale degli italiani e per la stessa legittimità del nuovo Stato. Era impossibile relazionare sui motivi per cui un popolo che aveva tanto bramato di esser liberato dai Borbone, si opponesse ora con tanta fierezza e determinazione all’opera dei suoi liberatori: “a Torino si capì subito che le ex Due Sicilie sarebbero state un osso molto più duro della Toscana, delle legazioni o dei ducati” – scrive Gigi Di Fiore – “Troppi morti, troppi ‘ribelli’. Che figura avrebbero fatto di fronte all’Europa cui bisognava dare l’idea di un Paese che aspettava solo l’unità d’Italia è l’arrivo di Vittorio Emanuele?“.

Già nel novembre del 1860 – pochi giorni dopo l’incontro di Teano tra Vittorio Emanuele e Garibaldi – un inquietante proclama compariva sui muri dei paesi intorno ad Avezzano, a firma del Generale Pinelli: “… chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o punta e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente … chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari o con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato immediatamente … eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana … Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo o tosto sarete distrutti“.

Perché così tanto terrore? La risposta è implicita nelle parole di Rovot Carboni, Procuratore del Re a Rossano, in Calabria, in una lettera al Generale Sacchi: “il brigantaggio è un reato sui generis da non potersi confondere coll’associazione di malfattori. Di tali associazioni ve ne hanno dappertutto, ma non minano la base della società: il brigantaggio invece è una vera setta costituita per rovesciare l’ordine, per conseguire in fatto il comunismo dei beni che non si osa proclamare apertamente, strappando per vie segrete con potenti intimidazioni, con esecuzioni di danni minacciati, ciò che l’alta classe non vuole concedere all’infima. Il brigantaggio è una potenza che spiega influenza in tutti gli ordini sociali e là ha i suoi sudditi, i suoi impiegati in ogni uomo che mancante di mezzi o di animo pravo ha bisogno di esser sostenuto, o vuole arricchirsi, o vendicarsi a danno dei suoi simili“.

Lo Stato italiano spenderà i suoi anni cruciali in unaincessante lotta ai briganti, proprio quando inizieranno a strutturarsi nuove organizzazioni contro la legge, capaci di scrivere proprie leggi e inventare linguaggi e modi di pensare, di elaborare una propria visione del mondo e delle relazioni con persone e istituzioni. Verso queste organizzazioni – MafiaCamorra, ‘Ndrangheta – lo Stato sarà tollerante, indulgente, perché non percepite come destabilizzanti. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.

Brigante è una parola medioevale, che al principio indica un soldato a piedi, un fante di ventura. Entra nel linguaggio comune col vocabolo francese brigand, usato per identificare chi si oppone con le armi all’ordine stabilito dalla Rivoluzione, chi difende l’ancien régime, e perciò anche chi combatte per i Borbone spodestati da Napoleone.

Il brigante ha la colpa di brigare, di lottare per una cosa a cui tiene, che ha a cuore, un significato arrivato sino a noi con l’espressione prendersi la briga. E siccome a combattere per riportare i Borbone sul trono – col Cardinale Ruffo, nell’Esercito della Santa Fede – erano anche avventurieri armati, sbandati e uomini d’incerta posizione sociale – tra cui Fra Diavolo, Panedigrano e Mammone – il brigante conservò la sua immagine fosca anche per i napoletani.

Brigante è una parola medioevale, che al principio indica un soldato a piedi, un fante di ventura. Entra nel linguaggio comune col vocabolo francese brigand, usato per identificare chi si oppone con le armi all’ordine stabilito dalla Rivoluzione, chi difende l’ancien régime, e perciò anche chi combatte per i Borbone spodestati da Napoleone.

Il brigante ha la colpa di brigare, di lottare per una cosa a cui tiene, che ha a cuore, un significato arrivato sino a noi con l’espressione prendersi la briga. E siccome a combattere per riportare i Borbone sul trono – col Cardinale Ruffo, nell’Esercito della Santa Fede – erano anche avventurieri armati, sbandati e uomini d’incerta posizione sociale – tra cui Fra Diavolo, Panedigrano e Mammone – il brigante conservò la sua immagine fosca anche per i napoletani.

Il brigante Domenico Straface, detto “Palma”:

il Robin Hood delle Calabrie.

Il brigante post-unitario assomma questa stratificazione secolare di percezioni, è un’icona polimorfa con un indice valoriale che cambia di continuo, da stigmate a dato sociale da rivendicare. Legittimisti, soldati del disciolto esercito borbonico, contadini disperati, nuclei di fuorilegge e persino garibaldini delusi, sono tutti indistintamente briganti. Non hanno una prospettiva sul futuro, una coscienza di classe o una strategia politica, ma posseggono il terrificante potere di chi non ha nulla da perdere.

Col terrore i generali piemontesi cercavano di spezzare la solidarietà dei ‘cafoni’ con i briganti” – scrive Aldo De Jaco -“Ma il terrore non è stata mai arma sufficiente e valida per isolare i combattenti dalla popolazione che li sostiene; così le fucilazioni non liquidarono ma aumentarono la solidarietà popolare per le vittime. La leggenda che faceva dei briganti tanti eroi popolari, paladini e unica speranza dei miseri contro i prepotenti e ricchi, trovava così mille riprove e questa fama assumeva subito due volti opposti: il volto del giustiziere implacabile, per pastori e plebi, quello della belva feroce per i benestanti; erano i ricchi, infatti, ad aver paura dei rapimenti di persona con richiesta di relativo riscatto, dei saccheggi, dell’incendio delle messi, del tagli delle viti, delle uccisioni, mentre gli zappatori non avevano niente da perdere, anzi ottenevano dal brigante qualche protezione contro i mille soprusi e i patimenti di cui era piena la loro giornata“.

“Sono due casupole annerite dal tempo e più ancora dal fumo.
Una serve da fienile e da stalla per le bestie, nell’altra dormiamo noi.
Vedi quel misero letto sostenuto da asticelle fradice? Là dormono mia madre e mio padre.
Nell’altro lettuccio vicino dormiamo noi tre fratellini tutti in fascio come tre stoccafissi. 
Vedi quel grosso canestro? Là dorme la sorella piccina.
E nelle culla di vimini dorme l’ultimo nato, Marco, di pochi mesi.
Eccoti mia madre che si strugge a cardar lana.
Osserva com’è tutta unta e bisunta d’olio”. 

(Carmine Crocco)

Il brigantaggio post-unitario è un fenomeno complesso, con numerose diramazioni e sfaccettature, ampiamente documentato nella letteratura storica e tuttavia – osserva il Professor Barbero – “in gran parte da studiare e su cui ci sono immensi fondi di archivio su cui mettere le mani“. Delinquenza, criminalità, rivolta contadina, opposizione politica, lotta di classe e guerra civile sono realtà eterogenee e irriducibili a un’unica dimensione. C’è un livello di complessità incomprimibile, quando si ricerca una cornice interpretativa del brigantaggio. La stilizzazione falsa il fenomeno, ne restituisce non già un quadro semplificato, ma una visione semplicistica e distorta.

Sicuramente, però, il nucleo del brigantaggio è la miseria contadina. “Qui è il santuario dei dannati, la miseria aizza i diavoli, nel reparto agitati“, avrebbe cantato Edoardo Bennato dopo più d’un secolo.

Lo Stato italiano – annota Giulio Bollati – “si rivela subito di mano estremamente pesante con i figli della terra“: non sollecita le quotizzazioni e le assegnazioni dei beni demaniali, evita il conflitto con i latifondisti, esclude le masse contadine dalla vita politica e sociale, le tiene ai margini della riallocazione delle ricchezze favorita dai nuovi equilibri di potere, e per colmo d’impostura matura la convinzione che il meridione sia un territorio abitato da selvaggi, contro cui la violenza è più che giustificata.

La classe contadina risponde con la lotta armata: la miseria, l’ignoranza, l’incertezza sul futuro – e, sì, anche gli istinti perversi – spingono in molti al malaffare, a porsi fuori dalla legge, a soddisfare ciechi impulsi di vendetta. Ma i briganti non sono né buoni né cattivi. Esprimono solo le ragioni di una massa di disperati, rappresentano idealmente i poveri, con i loro asini, le loro famiglie numerose, i loro debiti, in contrappsizione ai ricchi, i nuovi padroni, con i loro affari, i loro avvocati, i loro clienti e i casinò da gioco.

Carmine Crocco  – uno dei capibanda più famosi – è un caso paradigmatico. E’ un contadino lucano, con una famiglia già distrutta dai soprusi di un signorotto locale. La sorella respinge la corte di un altro signorotto, subisce per ripicca uno sfregio in volto, e lui la vendica in modo definitivo: uccide l’uomo e si dà alla macchia. Gli promettono l’amnistia, purché combatta per Garibaldi, ma la promessa rimane lettera morta, una volta cacciati i Borbone. Lo cercano per arrestarlo, e non può che fuggire di nuovo, vittima di una nuova ingiustizia. Trova riparo nei boschi e diventa il Generalissimo della resistenza, con oltre duemila uomini al seguito. Le sue doti di stratega, la sua ordinata tattica bellica e le sue imprevedibili azioni di guerriglia, saranno esaltate dagli stessi militari sabaudi: “se avesse vissuto nell’età di mezzo, sarebbe forse salito a condizione di condottiero di ventura“, dirà Eugenio Massa, un capitano dell’esercito regio che lo aiutò a redigere l’autobiografia. Servirà il tradimento del suo braccio destro, Giuseppe Caruso, per catturarlo.

“… ancor oggi sento entusiasmarmi pensando ai primi giorni dell’aprile 1861,

quando dalla boscaglia di Lagopesole per tutto il Melfese ero acclamato quale novello liberatore”.

(Carmine Crocco)

Si diventa briganti come Crocco, perché si cerca vendetta per i torti subiti, o perché non si ha denaro per pagare i debiti o non si vuol servire nell’esercito, o perché Re Francesco ora promette le terre. Poi si può discutere su un brigante o sull’altro – su chi era assassino e ladro, e su chi invece rivoluzionario e protettore dei poveri – ma tutti erano mossi da circostanze che non lasciavano alternative tra vivere in ginocchio o morire in piedi. Chi osserva oggi il loro mondo non ha il diritto di giudicarlo. Deve solo sforzarsi di comprenderlo: l’unico modo per rispettarne le sofferenze.

L’articolo 24 dello Statuto Albertino non necessitava di interpretazioni: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici“. L’articolo 71 vantava la stessa chiarezza: “Niuno può essere distolto dai suoi Giudici naturali. Non potranno perciò essere creati Tribunali o Commissioni straordinarie“.

Ma di fronte alla veemenza della resistenza meridionale, davanti a un fenomeno endemico ora mutato per dimensione e carattere, lo Stato italiano trovò naturale calpestare quei principi liberali sbandierati in aperta polemica col regime dei Borbone. La politica rinunciò alla sua funzione – il ruolo di mediatore tra ceti sociali, di conciliatore di interessi conflittuali – per mostrare il volto feroce del potere assoluto e incontrollato – delle leggi speciali, dello stato d’assedio, dei militari conquistatori – scavando un solco tra le popolazioni meridionali e le istituzioni, la simbologia e i valori nazionali. Il politico passò il testimone al militare, e il militare, per vocazione, è poco incline alle buone maniere e decisamente più propenso a uccidere, distruggere e devastare. “Nessuno riusciva a sentirli come soldati del proprio Stato in cui riconoscersi” – scrive Gigi Di Fiore – “Per tutti erano conquistatori che volevano imporre usanze e culture lontane“.

Nell’agosto del 1863 la Camera approvò la cosiddetta “Legge Pica”, un insieme di misure eccezionali, manifestamente incostituzionali, ma necessarie per riportare dentro una cornice di legalità formale gli abusi di soldati e politici, una via per istituzionalizzare quel potere militare che controllava il Meridione da almeno un anno. Tribunali militari, collegi di difesa pro-forma, condanne inappellabili, prerogative della magistratura azzerate, sovrapposizione tra organi di polizia e organi giudiziari, tutto per contrastare un reato di brigantaggio volutamente lasciato generico. Strumenti abberranti per una società civile, non solo secondo i valori odierni, ma anche in base ai parametri di allora. Disposizioni temporanee, nelle intenzioni, e poi prorogate sino a tutto il 1865.

Le “Legge Pica”orrenda in sé, diventò persino atroce, per la crudeltà con con cui fu applicata. Conteneva in nuce la teoria per cui le cose si possono fare, ma non si devono dire, che può esistere una giustizia priva di legalità. Sdoganava il fascino della scorciatoia, l’attitudine a formulare disposizioni ambigue, da applicare con ordini appena sussurrati. Introduceva un inquietante duplice livello di legittimità e verità nel cuore dello Stato. Inaugurava una serie di stagioni politiche scellerate, che si ripresenteranno in ogni fase di emergenza della storia nazionale.

Violenza e illegalità diventarono un abito mentale e uno schema di azione. Atterrire le popolazioni, compiere stragi, radere al suolo interi villaggi, non erano più azioni singole e sconnesse. La loro sistematicità segnalava uno stile, un modo di intendere la lotta che accomunava politici e militari a livello locale e nazionale.

Il 3 dicembre 1864 il Procuratore del Re della Corte di Appello delle Puglie parlò del “salutare terrore che le leggi eccezionali ànno ispirato” nelle popolazioni meridionali. Terrore è una parola angosciante – oggi come ieri – se a pronunciarla sono militari e magistrati.

“Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso e infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo;
orbene il Generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi
non rimanga più pietra su pietra …
Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo,
e non dimentichi che il Generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati
dando la più severa lezione a quei due paesi.
Ha ella ben capito?”
Il Generale Piola Caselli è il latore di un messaggio,
il Maggiore Carlo Melegari ne è il destinatario.
“Generale so benissimo come si devono interpretare i desideri del Generale Cialdini
– risponde il Maggiore –
“ho fatto la Campagna di Crimea e della del 1859 sotto i suoi ordini,
e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito”
Ne uscirono fuori le due pagine più nere e infamanti della lotta al brigantaggio.
 Il Colonnello Gaetano Negri – poi sindaco di Milano – scriverà al padre:
“Probabilmente anche i nostri giornali avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo
Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie;
ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara  
Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti,
saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero,
che venne completamente distrutto.
La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano unit a quelli di Pontelandolfo.
Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti;
in tutte le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte,
e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta.
Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione,
si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe più giustamente inflitto
e i risultati più sicuri e più pronti …”.

Tra il 1860 e il 1870 – e in special modo tra il il 1861 e il 1865 – un fenomeno sbrigativamente etichettato brigantaggio pervase le province meridionali del neonato Regno d’Italia.

Sulle prime sembrò una rivolta politica, perché i briganti si dichiararono fedeli ai Borbone – per avere la copertura di un’autorità superiore, per sentirsi dentro un potere legittimo – e specularmente la reazione borbonica-clericale si sovrappose agli spontanei movimenti popolari, imprimendogli un’orientamento politico. Poi il fenomeno mostrò la sua dimensione sociale, di ribellione verso il nuovo regime. I contadini tolleravano la povertà economica, perché era una povertà socialmente sostenibile, mitigata da un costo della vita moderato e da una lieve pressione fiscale. All’improvviso fronteggiarono disposizioni insostenibili. Videro per di più la privatizzazione delle terre demaniali, a vantaggio di vecchi e nuovi proprietari. Influì probabilmente anche il sentimento religioso della classe rurale, tenuto vivo dal basso clero a diretto contatto con le popolazioni, in opposizione a un movimento risorgimentale di marcata connotazione anti-cattolica. E sicuramente non mancò una componente di ordinaria delinquenza, di brigantaggio comune, se così si può dire.

Qualsiasi cosa fosse il brigantaggio, quali le sue cause prossime e remote, lo Stato italiano vi schierò contro più della metà del proprio esercito, per quasi dieci anni: 120.000 uomini – 52 reggimenti di fanteria, 10 reggimenti di granatieri, 5 reggimenti di cavalieri, 19 battaglioni di bersaglieri – a cui si sommarono circa 7.000 carabinieri e gli 80.000 della Guardia Nazionale, una formazione di civili sorta bell’apposta, una milizia nativa dei luoghi, pronta a cacciare i propri stessi conterranei, a difesa degli interessi della borghesia meridionale.

Sul versante opposto c’erano loro, i briganti, stimati in oltre 80.000 nel decennio 1860-1870. Organizzati in “comitive” o “bande”, animati da uno spirito anarcoide, poco inclini a collaborare e perciò con limiti esiziali nel coordinamento e nell’unità d’azione, ma tutti sorretti dal manutengolismo, quel movimento popolare di fiancheggiamento alla guerriglia, così ampio e ramificato da non poter essere stroncato con la sola legislazione penale, pur eccezionale.

Iniziò una guerra in cui le nefandezze dell’esercito italiano furono indistinguibili dalle azioni di quei briganti percepiti come selvaggi incapaci di apprezzare la civiltà e il progresso.

I briganti sotterravano vivi i militari piemontesi, li decapitavano, giocavano a bocce con i crani, assaltavano convogli, minacciavano di morte i proprietari delle masserie e i sindaci di paese. I soldati italiani impiccavano i briganti, li lasciavano penzolare per giorni sulla forca, inchiodavano i cadaveri sui portoni dei palazzi, posizionavano le carcasse nelle piazze o sui gradini delle chiese, a scopo intimidatorio.

L’ombra dei boschi era il manto della legalità. Fucilazioni ovunque, per i motivi più disparati e con una frequenza impressionante, anche di persone catturate senza armi in mano, per il capriccio o la paura di un capitano, di un sergente, di un caporale. Arresti senza consegna alla magistratura, reclusioni senza processo, esecuzioni durante il tragitto da un luogo all’altro. E poi indulti, condoni e amnistie, per indurre a cambiare casacca, a tradire la banda.

Cambiò pure la propaganda, che rivolta a un popolo d’analfabeti deveva essere più visiva che scritta, e arrivarono così le più macabre fotografie a raccontare le gesta dei soldati e la miseria dei briganti.

Non vengo a imporvi la mia volontà, ma a ripristinare la vostra“, aveva detto Re Vittorio Emanuele al popolo delle Due Sicilie, dopo l’ingresso in Abruzzo. Non doveva avere granché chiara la volontà dei meridionali, se quel che ne venne fu un conflitto che nessuno sa dire quando iniziò né quando finì, perché non vi fu mai una dichiarazione di guerra, né fu mai siglato un trattato di pace. Persino gli effetti materiali, per quanto visibili, rimasero incerti nelle quantificazioni. Non conosciamo il tributo di vite umane riscosso da questa guerra civile camuffata da gigantesca operazione di polizia, ma chiunque si sia industriato nel conteggio delle perdite le ha sempre stimate superiori a quelle di tutti i i moti risorgimentali dal 1820 al 1860.

Abbiamo due sole certezze.

La prima: la Guida alle fonti per la storia del brigantaggio post-unitario conservate negli Archivi di Stato – Volume I e Volume II, per complessive 679 pagine – che da sola restituisce l’immagine più nitida e impressionante dello spiegamento di forze messo in campo dal Governo italiano per la repressione del brigantaggio.

La seconda: la contabilità delle onorificenze militari. “Della tremenda stagionedel brigantaggio, di quella guerra civile spesso rimossa, o addirittura sconosciuta, si fregiarono per anni i militari” – documenta Gigi Di Fiore – “Vennero assegnate infatti un totale di 7931 ricompense. Si trattava di 4 medaglie d’oro, 2375 d’argento e 5012 menzioni onorevoli. Il Regno di Italia saldava il conto con chi aveva tenuto il Sud attaccato alle altre regioni. Per tenere in vita quell’unione, si era in realtà diviso subito il paese in due. Nelle leggi, nei comportamenti, nelle incomprensioni, nella distanza di culture e tradizioni“.

 “Il brigantaggio nel Melfese è ora completamente distrutto”.

(Lettera del Generale Govone, 6 marzo 1865)

Il 19 gennaio 1870 il Ministro dell’Intero e Presidente del Consiglio Lanza comunicava la cessazione delle zone militari a L’Aquila, Benevento, Campobasso, Caserta, Avellino, Potenza, Salerno, Cosenza, Catanzaro e Chieti. I briganti non erano più un pericolo, il brigantaggio aveva esaurito la sua spinta di rivolta politica e sociale, la rabbia era scemata, non si sentivano più lamenti.

E tuttavia ogni osservatore critico rimane ancor oggi obbligato a riflettere, e a farlo con tanta più attenzione quanto più rassegnato è il dolore, quanto più tranquillo è il suono della nota triste: perché peggio della brutale insurrezione dell’anima c’è solo l’afflosciarsi di chi dispera.

“… il prodotto inesorabile di un ambiente 

che trova normale devastare un pronto soccorso e sparare contro una caserma dei carabinieri,

perché considera ancora quella caserma e quel pronto soccorso i palazzi del nemico”.

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