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ATTI PARLAMENTARI POSTUNITARI del REGNO D’ITALIA

Posted by on Ago 20, 2018

ATTI PARLAMENTARI POSTUNITARI del REGNO D’ITALIA

20 novembre del 1861, Nessuno vuole che si parli di “occupazione piemontese” in Italia meridionale e la Camera dei Deputati non consente ad un suo membro di presentare e di illustrare una mozione che è un violento atto di accusa contro la politica del Governo cui si attribuisce la responsabilità di aver provocato nelle province napoletane una situazione che non riesce più a controllare.

Francesco Proto Carafa, deputato di Casoria e duca di Maddaloni, nella sua mozione afferma: “Gli uomini di Stato del Piemonte e i partigiani loro hanno corrotto nel Regno di Napoli quanto vi rimaneva di morale. Hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore… e lasciato cadere in discredito la giustizia… Hanno dato l’unità al paese, è vero, ma lo hanno reso servo, misero, cortigiano, vile. Contro questo stato di cose il paese ha reagito. Ma terribile ed inumana è stata la reazione di chi voleva far credere di avervi portato la libertà… Pensavano di poter vincere con il terrorismo l’insurrezione, ma con il terrorismo si crebbe l’insurrezione e la guerra civile spinge ad incrudelire e ad abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta. Si promise il perdono ai ribelli, agli sbandati, ai renitenti. Chi si presentò fu fucilato senza processo. I più feroci briganti non furono certo da meno di Pinelli e di Cialdini”. Il deputato di Casoria è invitato a ritirare la sua mozione e, al suo diniego, la Presidenza della Camera non ne autorizza la pubblicazione negli Atti Parlamentari e ne vieta la discussione in aula perché espressione della pia bieca reazione. “Dateci un buon governo e nessuno vorrà tornare al passato. Siate umani e giusti nel punire i traviati! Non spingeteli con la vostra ferocia, che non conosce limiti, alla reazione e alla vendetta. Non spingeteli al brigantaggio. Non aggravate con spietati metodi di repressione una situazione di pericolo che, conseguenza soltanto del vostro malgoverno, non siete in grado di affrontare.”

Giuseppe Ricciardi, deputato, il 20 novembre del 1861, dopo il rifiuto della Presidenza della Camera di rendere pubblico il testo della mozione che il duca di Maddaloni avrebbe voluto illustrare nella sua veste di deputato, preannunzia una sua interpellanza sulle condizioni delle province meridionali. Ma il Governo non intende discutere su questo argomento. Lo stesso Presidente del Consiglio interviene ed invita la Camera a “non fare discussioni inutili: il promuovere la questione delle piaghe delle provincie meridionali – ritiene il Ricasolisarà un perder tempo prezioso, sarà il ripetere una storia dolorosa di cose che purtroppo, sappiamo”.

il 2 dicembre del 1861, con le interpellanze sulla Questione Romana, si discutono anche quelle sulle condizioni delle province napoletane. E’ un problema quest’ultimo che interessa relativamente il Governo e la stessa opposizione, preoccupati entrambi di affrontare e risolvere la Questione Romana. Per la Sinistra, che sui moderati fa ricadere le responsabilità delle condizioni in cui versano le province napoletane, il brigantaggio è un problema che non va affrontato autonomamente come vorrebbero alcuni deputati meridionali in seno alla stessa Sinistra: strettamente connesso alla Questione Romana, esso si estinguerà quando Roma sarà finalmente unita all’Italia. “La prima, precipua, maggiore delle cause che hanno influito e influiranno tuttora sul mantenimento del brigantaggio è da ricercarsi nella presenza di Francesco II a Roma. Protetto dalla Curia Romana e dalle forze francesi nello Stato della Chiesa, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie continua da Roma ad alimentare il brigantaggio. Una volta che la bandiera tricolore sventolasse in Campidoglio – opinione condivisa anche da ufficiali che operano nelle province meridionali- il brigantaggio non potrebbe più esistere. Discutere sulle condizioni delle province meridionali quando non è stata ancora risolta la questione romana significa, anche per la Sinistra, intralciare l’attività del Parlamento innanzi al quale bisogna ora discutere la politica del Governo in merito alla Questione Romana. Nella riunione che la Sinistra tiene qualche giorno prima della discussione da tenersi in Parlamento: sarà consentito di intervenire sulle condizioni delle province meridionali e discutere sul brigantaggio purché si tenga presente che l’argomento principale rimane sempre la Questione Romana.

Ferrari, il 2 dicembre 1861 insiste perché sia affidato ad una Commissione di Inchiesta il compito di indagare sulle cause del brigantaggio e di proporre rimedi per impedire che esso dilaghi nelle province del vecchio Regno di Napoli e chiede in qual modo il Governo intenda provvedere ai bisogni urgentissimi di quelle province dove il brigantaggio imperversa nonostante la presenza di reparti armati ai quali tutto è consentito nella repressione di queste manifestazioni delinquenziali che da Roma – lo ha detto e lo ripeterà in altre occasioni- con il pieno appoggio non solo nel governo e nelle forze armate pontificie, ma quasi anche nel comando delle truppe francesi poste sotto gli ordine del generale Goyon, Francesco II organizza e alimenta trasformandole in un movimento politico di vasta portata.

Benedetto Musolino, deputato calabrese: “Il brigantaggio  non va minimizzato: esso è guerra che si fa da Roma all’ombra della bandiera francese. Contrariamente alle apparenze, responsabili del brigantaggio non sono la Curia Romana, né Francesco II e gli uomini che lo hanno seguito a Roma. A volere e ad alimentare il brigantaggio è soprattutto la Francia: Napoleone III non ha rinunziato al programma di Plombières e si avvale del brigantaggio per impedire che il nostro Stato si consolidi.”

3 dicembre 1861, dopo la conclusione dell’intervento di Musolino, muove Angelo Brofferio alla politica della Destra: la responsabilità di quanto si verifica in Italia meridionale ricade sui moderati e sul Governo che non intervengono nei confronti del clero ai quale non si impedisce di sostenere il brigantaggio che si diffonde nelle province anche per il malcontento provocato dalla esosa pressione fiscale in un paese in cui nessuno ha più fiducia nella Stato e nella giustizia.

Giuseppe Pisanelli:bisogna avere il coraggio di riconoscere che il Governo italiano non ha fatto nulla per vincere il profondo malcontento delle popolazioni meridionali e per debellare il brigantaggio. Gli sbandati, gli evasi dalle carceri, i fuggitivi dalle prime reazioni, i soldati disertori, i renitenti alla leva, fomentati e incoraggiati da Roma, si illudono di difendere la causa dei Borboni e lo Stato non interviene come dovrebbe per far cadere questa illusione. Grosso errore è stato lo scioglimento dell’esercito meridionale. Occorre ora inviare nuove forze in Italia meridionale e, soprattutto, intervenire perché Francesco II si allontani da Roma in modo da togliere ogni illusione a chi ritiene ancora possibile la restaurazione dei Borboni a Napoli e privare i briganti degli aiuti che da Roma vengono loro forniti da Francesco II e dagli uomini che lo hanno seguito nell’esilio.”

Giuseppe Ricciardi il 4 dicembre 1861 afferma nell’interpellanza: “non ha portato alla fusione quale era nei propositi di chi ha creduto e si è battuto per l’unità e l’indipendenza del paese, bensì la piemontizzazione dell’antico Regno delle Due Sicilie ridotto ora al rango di provincia di uno Stato in cui prevalgono interessi ed egoismi che non tengono conto delle aspirazioni e degli ideali di chi ha voluto l’unità della penisola.

Carlo Boncompagni, il deputato piemontese della Destra governativa, si oppone all’inchiesta parlamentare sollecitata dai deputati dell’opposizione. La discussione si protrae nei giorni successivi: “la Questione Romana ed i rapporti con la Santa Sede non possono essere affrontati se non si tiene conto anche delle condizioni del Mezzogiorno: sono problemi questi strettamente collegati tra loro perché a Roma sono coloro che hanno voluto e alimentato il brigantaggio che trova la sua giustificazione nel malgoverno piemontese e nei metodi adottati nella lotta contro il brigantaggio.”

Agostino Bertani dopo le dichiarazioni in aula del 4 dicembre 1861 di Rattazzi e di Ricasoli afferma: “Il brigantaggio è legato alla Questione Romana ed ai rapporti con la Francia di Napoleone III molto più di quanto suppongono i deputati dell’opposizione: il pontefice protegge Francesco II, la Francia il Pontefice. I briganti trovano amici, uomini e denaro per volere del re decaduto, per assenso del papa e per il non intervento dell’imperatore di Francia. Nello Stato della Chiesa, protetti dalla Gendarmeria pontificia e dalle truppe francesi, i briganti hanno i loro centri di raccolta: possono irrompere da Roma nelle province napoletane, non possono essere seguiti dai vincitori a Roma. Necessaria, quindi, ed indispensabile una energica azione del Governo per impedire che da Roma si alimenti l’illusione di una prossima restaurazione borbonica.”

Pasquale Stanislao Mancini, dopo aver sollecitato il Governo ad intervenire presso Napoleone III perché Roma sia finalmente restituita all’Italia e ad uniformarsi ai dettati cavouriani nei rapporti tra Stato e Chiesa.

All’intervento del Miceli, che ha denunciato episodi di inaudita ferocia di cui si sono resi responsabili i comandi militari operanti in Italia meridionale contro il brigantaggio, e alla richiesta di Filippo Mellana se vero che il La Marmora abbia comunicato allarmanti notizie sulla ripresa del brigantaggio, risponde ancora il Presidente del Consiglio per rassicurare la Camera sulla infondatezza delle notizie allarmanti raccolte da alcuni deputati.

Massari Giuseppe, deputato, il 21 novembre 1861 denuncia il malgoverno in Italia meridionale, la incapacità dell’attuale Governo e la sua impotenza nella repressione del brigantaggio e fa propria la vecchia proposta del Ricciardi: la situazione del Mezzogiorno d’Italia è ormai di tale gravità che non può essere più occultata per cui non è da respingere la proposta di una Commissione parlamentare che ne studi le cause e la natura e proponga provvedimenti adeguati per una lotta efficace contro il brigantaggio che gli errori e l’ambigua politica del Governo Rattazzi hanno rafforzato e reso più audace.

COMMISSIONE D’INCHIESTA MASSARI PER IL BRIGANTAGGIO

(29.11.1862 – 23.07.1863) presentazione alla Camera per la repressione

Carlo de Cesare, un altro deputato della Destra che non risparmia critiche alla politica e ai metodi del Rattazzi. Il Presidente del Consiglio è alle strette. Egli deve difendersi soprattutto dalle accuse che gli vengono mosse dai banchi della Sinistra: egli è responsabile della incerta politica che ha portato ad Aspromonte e di una situazione provocata dallo stato di assedio disposto arbitrariamente da un Governo che ha dimostrato di non essere all’altezza della situazione. L’insistenza con cui i deputati meridionali si inseriscono nel dibattito contro la politica del Rattazzi e contro le misure repressive adottate con lo stato d’assedio offre, infatti, all’abile statista la possibilità di ampliare il dibattito e spostare l’attenzione del Parlamento sulle condizioni delle province meridionali. Occorre, inoltre, per avere alleati tutti i deputati meridionali, minacciare la revisione della questione demaniale alla quale sono interessati i rappresentanti dei collegi delle province napoletane, usurpatori, quasi tutti, di terre rivendicate dai contadini. Per indurre a miglior consiglio i deputati meridionali, il Rattazzi conta sull’intervento di Alfonso la Marmora, commissario straordinario con pieni poteri nelle province napoletane (41). Il generale si dichiara disposto a presentarsi innanzi ad una Commissione parlamentare per consentire alla stessa di esaminare e giudicare, in seduta segreta, l’operato delle sue truppe e le eventuali responsabilità del Ministero nella situazione venutasi a creare in Italia meridionale dopo la proclamazione dello stato d’assedio disposto dal Rattazzi. Nei primi di marzo la Commissione d’inchiesta sul brigantaggio ha concluso il suo viaggio. Occorre ora coordinare il vasto materiale raccolto e redigere la relazione da presentare alla Camera. La visita nei luoghi dove imperversa il brigantaggio, i colloqui con le autorità civili e militari, con i notabili, con i maggiori esponenti liberali, con la gente comune hanno mostrato un Mezzogiorno diverso da quello che si immaginava fosse la terra del brigantaggio. I vecchi patrioti, quelli che hanno cospirato nelle Vendite carbonare e che sono stati condannati dalle Corti Marziali dopo il nonimestre, sono ora schedati, con i borbonici e i clericali, tra le persone sospette in politica e tra le persone sospette sono schedati anche molti dei compromessi nei fatti del 1848. E sospetti in politica sono anche tutti coloro che, su posizioni democratiche o moderate, non approvano la posizione di supina acquiescenza dei liberali meridionali di fronte alla sempre più evidente piemontesizzazione del Mezzogiorno. Ma non sono soltanto i borbonici e i clericali a lamentare la perdita della indipendenza del proprio paese. Di dominazione piemontese parlano anche elementi che non hanno alcuna nostalgia per l’antico regime e che non approvano l’eccessiva benevolenza che viene mostrata nei confronti dei retrivi e dei clericali e la fiducia che Torino ripone nei vecchi impiegati borbonici mantenuti in posti di responsabilità. E molti non riescono a spiegarsi l’atteggiamento assunto dal nuovo regime nei confronti dei liberali e dei patrioti che mostrano sentimenti democratici. Nelle prefetture continuano ad imperversare i vecchi impiegati borbonici che riscuotono la più ampia fiducia dei prefetti che, inviati da Torino, non conoscono le abitudini e la mentalità delle popolazioni della provincia che devono amministrare. Dei magistrati borbonici soltanto pochi si sono dimessi nel 1860 per restare fedeli al loro sovrano o sono stati destituiti dal nuovo regime. I più sono rimasti ai loro posti ed hanno fatto carriera. Nei comuni predominano le fazioni e rilevante, specie nei piccoli centri, è l’influenza di un clero reazionario e retrogrado che non concepisce autorità superiore a quella del pontefice e che si attiene scrupolosamente alle pastorali del proprio vescovo e alle sue direttive. Molti ufficiali della Guardia Nazionale sono stati capourbani prima del 1860 e molti sindaci borbonici continuano ancora ad amministrare il proprio paese. Tutti diffidano e temono che i deputati venuti da Torino possano scoprire le condizioni reali delle province meridionali dove molti sono convinti del ritorno, più o meno prossimo, di Francesco II. Questa convinzione, che è ad un tempo speranza e timore, condiziona la vita in tutto il vecchio Regno di Napoli: tutti si preoccupano di non compromettersi troppo con il nuovo regime e di mantenere, direttamente o indirettamente, contatti con chi opera nei Comitati borbonici. I galantuomini non sono sinceri: avvicinati dai membri della Commissione venuta nelle province meridionali, manifestano tutti, anche i più compromessi con il passato regime, profondi sentimenti liberali, dicono di approvare la politica della Destra e nessuno parla con simpatia degli uomini che le autorità locali guardano con sospetto perché ritenuti democratici o, pur senza essere tali, su posizioni critiche nei confronti della Destra. Tutti, anche gli amici e i manutengoli dei briganti, sollecitano maggior rigore ed un’efficace azione nella lotta contro il brigantaggio. Nessuno, però, si mostra disposto a restituire le terre usurpate e nessuno sollecita le quotizzazioni e le assegnazioni delle terre demaniali in possesso dei Comuni ai contadini poveri. E non tengono conto i membri della Commissione d’Inchiesta dei rilievi di un ricco proprietario pugliese che tra le cause del brigantaggio ravvisa la mancata assegnazione delle terre che i rivoluzionari avevano promesso nel 1860 ai contadini (51). Si preoccupavano i membri della Commissione Giuseppe Massari di avvicinare tutti per meglio indagare, scoprire, conoscere, ma non sollecitano incontri con le vedove e le madri dei briganti e non si recano nelle carceri per ascoltare i briganti sfuggiti alla fucilazione. Ascoltano soltanto una voce, quella dei galantuomini, ma non di tutti i galantuomini. Nulla ha fatto il nuovo regime nel Mezzogiorno d’Italia: ha lasciato immutate le vecchie strutture amministrative togliendo, però ogni iniziativa agli organi locali ed accentrando tutti i poteri a Torino. Il nuovo Governo – risponde uno dei tanti intervistati – a’ tradito le speranze del popolo, si è tanto gravato su di esso da far desiderare il ritorno di quello abbattuto, come meno pesante, meno dispotico per coloro che guardano l’oggi non il domani, per coloro che vivono d’interessi materiali, per coloro che secondano la rivoluzione in oggetto di migliorare benessere economico, ossia pe’ 99 centesimi del popolo (57). Evidente la responsabilità di chi ha governato l’Italia dopo l’Unità. Ma carità di patria e ragioni politiche consigliano i membri della Commissione ad andare molto cauti nei loro giudizi. Bisogna evitare che la relazione conclusiva, quella che dovrà essere presentata alla Camera, sia soltanto una accusa alla politica della Destra. Occorre non irritare Napoleone III ed evitare di porre in evidenza episodi che avvalorano la tesi di chi sostiene che l’imperatore francese non abbia mai rinunziato al progetto concordato nel 1858 con il Cavour. La relazione conclusiva deve minimizzare la responsabilità dei moderati ed avvalorare la tesi sulle cause che hanno provocato ed alimentato il brigantaggio. Bisogna soprattutto non irritare i galantuomini meridionali ed ignorare le loro responsabilità rilevate, invece, dal Mosca. Accettare si lo stato di miseria in cui vivono i contadini, ma non ravvisare nelle usurpazioni e nelle ritardate quotizzazioni dei demani comunali le cause che hanno provocato la rivolta nelle campagne. Bisogna, invece, sostenere, come ha sempre sostenuto la Destra, che il brigantaggio, male endemico del Mezzogiorno, è manovrato da una minoranza legittimista che, sorretta da Roma, ma non da Napoleone III, si avvale di uomini adusi ad ogni delitto per mantenere in Italia meridionale un confuso stato di agitazione che consenta di preparare il ritorno dei Borboni sul trono di Napoli.

Governo. Costretto ad accettare un’inchiesta sulle condizioni delle province meridionali, il ministro Farini, ancor prima che la Commissione inizi i suoi lavori, interviene presso le prefetture del Mezzogiorno perché si provveda alla schedatura di tutti. I sospetti in politica e all’epurazione del personale di polizia e si accerti la lealtà di chi è preposto alle amministrazioni locali e ai comandi delle Guardie Nazionali e si sciolgano tutte quelle sospettate di connivenza con il brigantaggio. Inoltre, per sminuire la funzione della Commissione d’Inchiesta e per dimostrare che il Governo è in grado di fare anche senza i consigli ed i lumi di questa Commissione, viene affidato a Silvio Spaventa, segretario generale al ministro dell’Interno, l’incarico di elaborare un dettagliato piano per la repressione del brigantaggio. Lo Spaventa, che conosce gli atti della Commissione che, in seduta segreta, ha esaminato il “Rapporto La Marmora“, nell’elaborare il suo “Piano” si dissocia dalle conclusioni della relazione Mosca che ha provocato la Commissione d’Inchiesta inviata in Italia meridionale per riferire sulle condizioni di queste province. Difende il patriota napoletano la condotta dei moderati, la politica della Destra e, soprattutto, l’opera da lui svolta a Napoli durante la Luogotenenza Carignano. Nel riprendere e ribadire la tesi dei moderati e dei Governi della Destra e la loro opinione sul carattere e sulle cause del brigantaggio, in questo suo “Piano” (60) lo Spaventa propone, tra l’altro, la competenza dei Tribunali Militari per i rei di brigantaggio e non più, come normalmente si continua a praticare dai reparti impegnati nella repressione, la fucilazione immediata e senza regolare processo del brigante catturato con le armi in mano. Ma alcuni membri della Commissione si oppongono a che questo giudizio, non comprovato dai fatti, sia espresso nella relazione da presentare in Parlamento ed insistono – è anche presumibile – perché siano poste in rilievo, invece, le responsabilità dei moderati, la succube politica dei Governi della Destra nei confronti della Francia la quale, con la sua presenza a Roma, alimenta il brigantaggio e sia condannato l’inumano comportamento dei militari nelle province meridionali. Giungere a conclusioni diverse da quelle cui è pervenuto il Mosca. Non potendosi queste ignorare, bisogna ridimensionarle in modo da escludere che responsabili della situazione venutasi a creare nelle province meridionali dopo l’annessione al Piemonte siano i galantuomini che hanno spinto i contadini alla rivolta. Pur riconoscendo lo stato di profonda miseria in cui vivono i braccianti e i contadini, bisogna farne risalire le cause non – come ha sostenuto il Mosca – all’egoismo e alle prepotenze dei galantuomini, ma al malgoverno borbonico e alla ignoranza, al fanatismo e alla superstizione religiosa che predominano nelle campagne meridionali.

Si ammetta pure che il brigantaggio sia la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie, ma bisogna insistere nel sostenere che la sola miseria non sortirebbe effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napoletane (65) dove, e su questo bisogna insistere, il brigantaggio è un male endemico di cui si è sempre avvalso il Borbone per riconquistare il trono (66). Ma si insista, allo scopo evidente di escludere le responsabilità dei galantuomini meridionali denunziante dal Mosca, nel presentare il brigantaggio come volgare delinquenza comune fomentata ed orchestrata dai fautori dei Borboni reazionari e retrivi i quali da Francesco II ricevono ordini e disposizioni e dalla Curia Romana uomini e danaro al fine di restaurare a Napoli l’antico regime.

[Atti parl. 26/2/1861, 14/3/1861]

PROCLAMAZIONE DEL REGNO D’ITALIA

«Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme ecc. ecc. ecc.

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

Articolo unico.

Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come Legge dello Stato.

Data Torino, addì 17 marzo 1861.

Vittorio Emanuele

C. Cavour. M. Minghetti. G.B.Cassinis. F.S. Vegezzi M. Fanti. T. Mamiani. T. Corsi. U. Peruzzi». [G.Uff. 17/3/1861]

 

È l’atto di nascita del Regno d’Italia. Cavour ha voluto che fosse questo il primo provvedimento legislativo del nuovo Parlamento nazionale, composto da 211 senatori di nomina regia (ci sono fra gli altri Massimo d’Azeglio e Alessandro Manzoni) e da 443 deputati, ora anche del Mezzogiorno, della Sicilia, dell’Umbria e delle Marche, che si sono riuniti per la prima volta il 18 febbraio. La legge è stata approvata il 26 febbraio dal Senato con due soli voti contrari e all’unanimità dalla Camera 14 marzo 1861. Iter parlamentare brevissimo: una sola seduta per ciascuna delle due Camere.  E’ importante considerare che mentre si provvedeva alla legge di proclamazione l’esercito regolare del Regno delle Due Sicilie continuava a combattere. Il testo però è stato il risultato di un notevole dibattito politico. Le voci di dissenso sulla forma e sulla sostanza del provvedimento, alla fine assorbite nel nome della concordia nazionale nel coro di consensi delle due assemblee, si sono fatte sentire anche in Parlamento. Il senatore Lorenzo Pareto, democratico di vecchia data, aveva ritenuto inopportuna la dizione scelta per il nuovo titolo. Che doveva essere re «degli italiani» e non «d’Italia», «per constatare maggiormente il fatto che la volontà di tutti i popoli, dalle Alpi al Lilibeo, acclamava duce supremo il nostro re». Pareto poi non aveva condiviso la forma scelta per insignire del nuovo titolo il re di Sardegna: «Sarebbe stato mio desiderio che non dall’iniziativa reale, ma piuttosto dall’iniziativa parlamentare l’acclamazione del re fosse partita». Un rilievo simile hanno mosso alla Camera il deputato della sinistra Angelo Brofferio e Nino Bixio: meglio una proposta di legge parlamentare piuttosto che, com’è avvenuto, un disegno di legge ministeriale. Altra critica di Brofferio, il nome stesso del re: perché Vittorio Emanuele «Secondo» per il primo re d’Italia? «La dinastia sabauda, per molte virtù acclamata, rifulse principalmente come dinastia conquistatrice (…). Vittorio Emanuele, colla denominazine di Secondo, parrebbe rappresentare una domestica tradizione di conquista, non il principio del voto nazionale». Cavour ha saputo in entrambi i casi far rientrare il dissenso: sottolineando a Pareto la partecipazione determinante dei popoli d’Italia all’evento cui il Parlamento doveva dare una sanzione ufficiale; rivendicando davanti a Brofferio e alla Camera il diritto del governo di «aver preso l’iniziativa in questa solenne circostanza». Che è poi «la consacrazione di un fatto immenso, del fatto della costituzione dell’Italia».

 

Nota di redazione al documento.

La Costituzione del Regno Sabaudo era del tipo liberale e non parlamentare, cioè il Governo i cui membri erano nominati dal re, doveva rispondere al re e non al Parlamento. Detto Parlamento veniva eletto dal 7% (il solo avente diritto) della popolazione e bastavano poche centinaia di voti per diventare deputato. La stragrande maggioranza dei deputati erano notabili (professionisti e latifondisti) che raccoglievano i consensi locali dei baroni e dell’elite liberale. Il Senato era di totale nomina regia ed era stato eretto per inibire eventuali “colpi di testa” della Camera dei Deputati.

 

 fonte

http://www.sudindipendente.superweb.ws/index_file/Page1048.htm

 

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