Barbajada 01 – Introduzione al Carlismo di Gianandrea de Antonellis

La “Barbajada” è una bibita inventata dal mio bisarcavolo Domenico Barbaja, mischiando cioccolato, caffè e latte, per stimolare, irrobustire e addolcire. La presente rubrica intende rivolgersi al lettore stimolandolo con il caffè delle considerazioni, irrobustendolo con il cacao delle dimostrazioni e, possibilmente, addolcire il tutto, rasserenandolo con lo zucchero dell’ironia o la panna della leggerezza.
Iniziamo con una precisazione: noi sappiamo che la dottrina sociale della Chiesa nasce apparentemente con la Enciclica di Leone XIII Rerum novarum nel 1891. Perché dico apparentemente? Perché in realtà la dottrina sociale della Chiesa viene esplicitata in questa data e con questo testo, ma essendo una dottrina risale nel tempo e l’enciclica non fa che riassumere elementi dottrinali presenti da sempre; quindi non stupisca ad esempio che certi passaggi relativi all’economia siano preceduti di una ventina d’anni di un testo di un pensatore carlista scritto in Spagna durante la terza guerra carlista (nel 1873), Leandro Herrero[1]: non è che questi ispirino direttamente ciò che Leone XIII o chi per lui (in particolar modo Padre Raffaele Liberatore) ha redatto la Rerum novarum; ma entrambi (Herrero e il Papa) si ispirano a questi a queste dottrine eterne che costituiscono la dottrina della Chiesa.
Per chi si avvicina la prima volta al Carlismo cerchiamo di spiegare che cosa sia esattamente il Carlismo. Generalmente, una persona che ha fatto studi sulla storia del Regno di Napoli incontra il Carlismo quando, studiando la fine del Regno e la successiva, sfortunata e fallita lotta di liberazione in seguito all’invasione italiana (cioè piemontese e garibaldina), incontra la figura del generale José Borjes, il quale venne nella Penisola italiana nell’autunno del 1861 per combattere e mettere ordine nelle bande di briganti che combattevano in nome di Francesco II, soprattutto quelli della zona della Basilicata. Quindi si incontra questa figura particolarmente luminosa di combattente disinteressato e si scopre che è un carlista. Allora si cerca di capire cosa fosse il Carlismo e si apprende che riguardava uno scontro tra Don Carlos, fratello di Ferdinando VII di Spagna, e sua nipote Isabella: quindi si “etichetta” il Carlismo come una lotta dinastica ottocentesca riguardante la Spagna.
È tutto vero: ma c’è un problema. Infatti si sbaglia se si assolutizzano questi tre concetti: cioè che il realismo sia solo una questione relativa a una lotta dinastica, che sia relativa solo all’800 e che sia relativa solo alla Penisola iberica, perché sarebbe un errore considerare questi come gli unici elementi del Carlismo.
È vero che è esistita una lotta dinastica: la prima guerra carlista (1833-1840) scoppia per difende i diritti di Carlo V, legittimo Re di Spagna, fratello di Ferdinando VII, il quale tre anni prima, nel 1830, aveva modificato la legge di successione al trono, facendo prevalere i diritti della propria figlia femmina, derogando alla legge salica, che invece prevedeva – per evitare cambi di dinastie tramite matrimoni – che in presenza di discendenti soltanto femmine, al trono salissero i maschi, anche collaterali. In questo caso, avendo Ferdinando VII avuto una figlia femmina, Isabella, ad essa doveva essere preferito il fratello maschio e quindi scoppiò la guerra. Ma la guerra non fu semplicemente uno scontro tra zio e nipote che voleva avere il trono: essa fu soprattutto una questione di visioni del mondo completamente opposte.
I sostenitori di Don Carlos, che poi presero il nome di Carlisti, erano i tradizionalisti, che difendiamo la visione tradizionale e la Monarchia Cattolica. I difensori di Isabella e di sua madre Maria Cristina, che presero il nome di Isabellini (o Cristini nella prima parte delle vicende), minoritari ma molto agguerriti, erano liberali.
Cosa si intende per liberali? Non amanti della Libertà (in generale, siamo tutti amanti della Libertà) bensì partitari di una visione del mondo che prevedesse che lo Stato (la politica) dovesse essere libero dalla religione. Sostanzialmente è il concetto machiavellico della politica svincolata, libera dalla morale. I liberali in senso classico sono coloro che appunto sostengono che la vita politica non debba essere subordinata alla religione. È un concetto che risale già alla fine del Medioevo, ma che poi nel nell’800 viene definito in questa maniera: il liberalismo, ripeto, è liberarsi del “peso” della religione. Quindi la lotta da Carlisti e Isabellini (o Cristini) non è una lotta dinastica, semplicemente volta a conquistare il trono bensì è una lotta tra due visioni del mondo assolutamente inconciliabili: tradizionalismo cattolico e religioso contro il liberalismo sostanzialmente agnostico e, di fatto, ateo.
Secondo elemento, quello relativo cronologico: è una questione ottocentesca. No, non è solo una questione ottocentesca, anche se è vero il Carlismo ebbe la massima espressione militare che nell’Ottocento perché in quel secolo vi furono ben tre guerre: la prima sostenuta da Carlo V, la seconda sostenuta dal figlio Carlo VI (che tra l’altro, essendo la sua dinastia esiliata, aveva sposato la sorella di Fernando II e visse per un periodo tra Napoli e Caserta), e la terza con Carlo VII negli anni 1873-1876.
Ma il Carlismo non finisce una volta sconfitto militarmente nel 1876: quando il Re legittimo è costretto a lasciare la propria terra e con il famoso Volveré («Ritornerò») decide di andare in esilio in Italia (continuando una tradizione: Carlo V visse a lungo a Trieste, nella cui cattedrale tuttora esiste il “pantheon” dei Re legittimi; Carlo VI visse nel Regno di Napoli e Carlo VII passò gran parte della propria esistenza a Venezia), il Carlismo rimane comunque nella cultura spagnola come partito politico abbastanza presente nella vita pubblica degli anni a cavallo del secolo; ha filosofi che sviluppano ed affinano il suo pensiero politico; e alla fine arriviamo alla guerra civile di Spagna, detta Cruzada, nel 1936 contro il regime comunista che stava distruggendo il Paese, in cui risulta fondamentale la presenza dei Carlisti. Infatti i tre Generali che avrebbero dovuto condurre la guerra erano Sanjurjo, Mola e Franco. Sanjurjo era carlista ed era stato esiliato in Portogallo prima che iniziasse la guerra: cercò di ritornare in Spagna, ma morì in un incidente aereo; a quel punto Mola chiese a Francisco Franco di comandare la rivolta, l’alzamiento, però contemporaneamente si rivolse anche a Manuel Fal Conde, che era il rappresentante del Re legittimo in Spagna, perché assicurasse l’appoggio dei Carlisti, in particolar modo dei Requetés, cioè la milizia paramilitare carlista che aveva una forte radicamento nel territorio. Quindi Mola voleva da un lato Franco come carismatico rappresentante dell’esercito, dall’altro voleva i Carlisti come segno di collegamento con il territorio; e non è un caso che la rivolta scoppi appunto solo dopo l’assenso dato da Carlisti e che per l’inizio delle ostilità si scelga un giorno particolare, il 18 luglio, che ricorda la data di morte (nel 1908) di Carlo VII, quello del Volveré.
Quindi il Carlismo ha mantenuto la propria importanza nel Novecento che ha iniziato a perdere solo dopo la guerra, a causa della politica di Francesco Franco, che volle unificarlo con la Falange, fondendo quindi due visioni inconciliabili: la Falange di José Antonio Primo de Rivera aveva una visione sociale che potremmo definire simil fascista; mentre i Carlisti avevano una visione cattolico tradizionalista. Costretti a essere fondersi, furono fagocitati a livello politico dalla Falange, mentre continuarono ad esistere a livello culturale e nella seconda metà del Novecento abbiamo importanti filosofi come Rafael Gambra e Francisco Elías de Tejada, e abbiamo anche i loro successori, che fino ai nostri giorni continuano a difendere i principi della tradizione cattolica a livello politico. Quindi il Carlismo non è una questione da relegare all’Ottocento.
Per quanto riguarda la questione geografica, infine, il Carlismo non è solo una questione spagnola. Innanzitutto chiariamo che si utilizza il nome di Carlismo per individuare immediatamente il tradizionalismo ispanico –non spagnolo, ma ispanico, che è un concetto molto più ampio, perché abbraccia tutti i territori che hanno avuto culture ispanica: quindi parliamo dell’America ispanica, delle Filippine, ovviamente dei territori italici come il Regno di Napoli, il Regno di Sicilia e il Regno di Sardegna, il Ducato di Milano e lo Stato dei Presìdi… Il rapporto con il Carlismo travalica la Penisola iberica non soltanto perché ci sono scambi di combattenti come i generali Borjes e Tristany che vennero a combattere per Francesco II e Napoletani che andarono a combattere per Carlo VII (il più importante di tutti, ma non l’unico, fu il conte di Caserta, il fratello di Francesco II, il quale combatté nella terza guerra sotto le insegne di Carlo VII. Ma a parte questo flusso militare, esiste un preciso e concreto rapporto tra la cultura tradizionale napolitana in particolar modo, ma anche di altre regioni, con quella ispanica.
In altre parole, non bisogna necessariamente essere Spagnoli per essere Carlisti.
E allora, dopo questo excursus su cosa non è il Carlismo – cioè non è semplicemente una lotta per la conquista del trono, non è una questione relativa al solo Ottocento e alla sola Spagna – cerchiamo di vedere che cosa è il Carlismo.
Diciamo subito che è una dottrina tradizionalista (o meglio tradizionale) politica e monarchico, che rispecchia fedelmente la dottrina politico-sociale della Chiesa (anzi, come ho detto, addirittura in un certo senso l’anticipa) e si caratterizza per con un cosiddetto quadrilemma, un motto diviso in quattro termini che sono: «Dio, Patria, Fueros, Re».
Cosa significano questi quattro termini?
Dio: la religione cattolica. Non esiste l’idea di uno Stato che sia agnostico, che sia permissivo, che riconosca altre religioni. L’unica religione a cui si deve conformare è quella cattolica. Non si può immaginare un buono Stato che non sia cattolico (anzi, purtroppo lo si può immaginare e lo si può anche vedere, ma non si può accettare uno Stato che non sia cattolico).
Patria. Vandeanamente parlando, è la patria concreta; quella parte dalla piccola Patria – da Benevento, da Cervinara, da Castellamare, da Sant’Agata – in cui siamo anti e vissuti; se si ama la piccola patria piano piano si sviluppa poi l’amore per la Patria più grande, ma che è sempre quella concreta che vediamo sotto sotto i nostri occhi: un essenza reale e non una idea astratta. I Vandeani dicevano ai Giacobini: «Voi avete la patria nel cervello, noi l’abbiamo sotto i nostri piedi e dentro il nostro cuore». Questa è la differenza la patria vaga – perché non si sa bene quali confini abbia – che non è conosciuta e non può essere amata, se non in maniera distorta, come vedremo.
Fueros. Questo è il concetto più complesso, che viene tradotto in alcuni casi come diritti legittimi. I fueros costituiscono l’insieme dei diritti riconosciuti dal Re e che il Re deve rispettare; i diritti locali, che in certi casi potremmo definire con una parola che ha cambiato il significato, ma che i giuristi sanno avere un significato ben diverso da quello comune: privilegio che è la lex privata, la lex del singolo o della singola comunità. Quindi sono questi elementi che fanno sì che si crei un diritto locale che deve essere rispettato: è l’idea contraria a quella dell’assolutismo, che prevede un soggetto sovrano e assoluto, cioè sciolto dal servire la legge, perché la può creare – e nel momento in cui io posso creare la legge è come se la legge, almeno per me, non esista, perché posso modificare tutte le norme che voglio senza doverle quindi rispettare. Invece nel Carlismo – giusta il quadrilemma «Dio, Patria, Fueros e Re» – il Re è subordinato alla legge.
Alcuni monarchici si scandalizzano: «voi mettete il Re per ultimo invece che al primo posto!». Sì perché il Re non è esattamente il primo funzionario dello Stato, come doveva essere l’imperatore romano, ma il Re deve servire; il Re deve far sì che le leggi vengano rispettate e deve rispettare lui per primo e deve rispettarle anche non cambiandole.
Il giuramento che veniva prestato nei Regni tradizionali – dal Regno di Castiglia al Regno di Napoli – ogni volta che il Re saliva sul trono per essere riconosciuto, consisteva da un lato nel chiedere ai rappresentanti del parlamento lato di riconoscerlo come Re e dall’altro di assicurarli che avrebbe rispettato le leggi dei singoli Regni. Quindi il Re faceva un giuramento per la Castiglia (noi parliamo di “Re di Spagna” in generale, ma sbagliando: nell’antico regime dobbiamo parlare di “Re delle Spagne”, che erano Castiglia, Aragona, Navarra, ma anche Napoli, Sicilia, Sardegna, etc.) e faceva un giuramento distinto – direttamente o per interposta persona –di rispettare le leggi e la risposta che i rappresentanti delle Cortes davano era più o meno: «Noi ti riconosciamo e ti rispetteremo finché tu rispetterai le leggi», sottintendendo che nel momento in cui avesse cessato di rispettarle, essi si sentivano svincolati dal giuramento.
E questo è un elemento fondamentale perché attiene alla cosiddetta legittimità di esercizio che, come vedremo meglio in seguito è tipica del pensiero ispanico e non è presente in quello che potremmo definire europeo o francese. I monarchici di tipo francese (e la maggior parte di quelli italiani seguono la mentalità francese) che il Re è indiscutibile e le sue decisioni inappellabili, «il Re non sbaglia mai», come se fosse lo Spirito Santo… io dico: come è possibile che il Re non sbagli mai, quando anche il Papa – rappresentante in terra di Cristo, il Re dei Re – è infallibile soltanto in casi particolari: cioè quando parla di religione o di morale; quando avoca su di sé lo Spirito Santo e quando dice espressamente di parlare ex cathedra. Negli altri casi non è infallibile (è fallibile: può sbagliare, non è che sbagli sempre!). E com’è che il Papa è normalmente fallibile mentre il Re d’Italia, ateo è massone che fa la guerra al Papa non dovrebbe sbagliare mai? È assurdo! E dunque il tradizionalismo ispanico prevede la legittimità di esercizio, che si affianca alla legittimità di origine, le è logicamente successiva, ma prevale su di essa.
Tutte le questioni che generalmente vengono poste dalla maggior parte dei monarchici sono relative alla legittimità di distanza di origine (Savoia o Aosta? Pedro o Charles?) mentre la legittimità di esercizio prevede che una volta stabilito che debba regale quel tal Principe perché è discendente legittimo di Re, questi debba esercitare legittimamente il proprio mandato. Quindi, ad esempio, se rinunciasse alla religione cattolica, automaticamente decadrebbe.
Tornando all’ordinamento generale del Carlismo, va chiarito che esso è una dottrina e non una ideologia. Nel linguaggio comune utilizziamo spesso questi due termini come se fossero sinonimi; in realtà sono due concetti completamente diversi, anzi opposti. Purtroppo, l’uso quotidiano ci fa talvolta modificare il significato delle parole; perché la parola dottrina (che viene da doceo, quindi insegno, insegnamento) è legata al verbo indottrinare e quindi la dottrina, che è un qualcosa di positivo, viene percepita come qualcosa di negativo; l’ideologia, invece, avendo la radice di idea e quindi di ideale, viene sentita come qualcosa di positivo. In realtà, mentre la dottrina è qualcosa di concreto ed è legato alla tradizione, il concetto di ideologia è qualcosa di rivoluzionario, di slegato dalla realtà: viene da idea in quanto qualcosa di astratto, di concepito a tavolino. Le grandi ideologie moderne vengono tutte dal concetto di Rousseau secondo cui l’uomo sarebbe una tabula rasa: tutti gli uomini nascono uguali ed è soltanto la società che li modifica e crea le differenze, altrimenti saremmo tutti uguali. È l’idea del buon selvaggio: l’uomo nasce come una lavagna vuota ed è la società che scrive e lo modifica. Quindi, tutti i mali vengono dalla società: una teoria che è arrivata a sostenere in tempi più vicini a noi che il criminale non lo è in sé per sé ma esclusivamente per colpa della società, che lo ha costretto ad agire criminalmente perché la società gli ha imposto alcuni beni di fondamentale importanza, da avere assolutamente, anche a costo di delinquere. È la visione del criminale che non è tale per colpa propria, ma per colpa della società dei consumi che lo costringe a delinquere (moltissimi sono, di fatto, i rapinatori che vengono tutelati dai magistrati in caso di reazione del rapinato…).
Tutto nasce, ripeto, da questa mentalità rousseauiana che la caratteristica di pretendere di essere valida sempre e comunque, in tutti i luoghi e per tutti i popoli.
Questa mentalità ha prodotto le varie ideologie “universali”: nel Settecento il giacobinismo, che pretendeva di esportare la rivoluzione attraverso le repubbliche sorelle dalla Francia all’Italia e poi in tutto il mondo; nell’Ottocento ha prodotto il marxismo e quindi le due ideologie del socialismo e del comunismo, anch’esse “valide per tutti”; nel Novecento il nazionalsocialismo e il fascismo (che sono molto differenti tra di loro e non devono essere confuse) e che comunque ambedue ritenevano di essere valide ovunque, dal Reich “millenario” al motto «Questo è il secolo del Fascismo: ce n’è per voi e per quelli che verranno»; e nel secondo Novecento abbiamo la democrazia che è altrettanto una ideologia da diffondere ovunque: pensiamo alle guerre scatenate dagli Stati Uniti per «esportare la democrazia» anche in Paesi che non hanno una cultura adatta alla democrazia. Adesso abbiamo l’ideologia del gender, con cui si vuole distruggere la società non più a livello politico, ma a livello umano l’intera normalità e naturalità.
La dottrina del Carlismo, invece, prevede che si controlli concretamente la storia di ogni singolo popolo; quindi il Carlismo non pretende di essere buono “ovunque e comunque”: un filosofo carlista della seconda metà del Novecento, Friedrich Wilhelmsen, il quale – come si comprende dal nome, non era spagnolo, bensì statunitense di origini danesi – e che comunque è stato uno dei massimi teorici del Carlismo, affermava che sarebbe assurdo cercare di imporre il Carlismo in quanto dottrina politica monarchica a Paesi che non hanno una tradizione monarchica come gli Stati Uniti o come la Svizzera; e un altro grande pensatore carlista dell’epoca diceva che «i popoli non sono Nazioni» (giacobinicamente parlando) ma «i popoli sono tradizioni». Quindi bisogna vedere se per ogni singolo popolo c’è la possibilità che effettivamente sia presente una tradizione che giustifichi l’impianto della monarchia. Io stesso ho scritto sull’argomento un testo intitolato Carlismo per Napolitani (che nel titolo si rifà a una saggio di Miguel Ayuso – Carlismo para Hispanoamericanos – in cui l’Autore cercava di comprendere se il Carlismo era accettabile nel mondo dell’America ispanica; io ho applicato lo stesso schema a Napoli, concentrandomi sul Regno di Napoli, per vedere c’è una giustificazione all’idea che il Carlismo sia applicabile a Napoli (questo farà parte dell’ultima sezione dell’ultimo incontro però immagino che già abbiate intuito quale possa essere la risposta).
Nei prossimi capitoli parleremo di quattro pilastri della dottrina carlista, che – ripeto – altro non è che il tradizionalismo di marca ispanica e che si differenzia da quello di marca “europea” perché valorizza alcuni elementi che mancano nell’altro, primi fra tutti la legittimità di origine e l’elemento della religiosità.
Ed è fondamentale anche la presenza concreta di una figura di Re – che nella fattispecie si incarna in Enrico V o Don Sisto Enrico di Borbone. Ciò significa che è inutile parlare di “Re” in generale, senza sapere se dobbiamo seguire un Savoia, un Aosta, un Borbone di un ramo o dell’altro. Perché prescindere dalla scelta del Monarca da seguire è assurdo in quanto il Monarca deve essere giudicato per quello che fa concretamente nell’esercizio della sua azione politica e se non abbiamo una figura di riferimento andiamo allo sbando, facciamo una discussione puramente teorica che poi finisce per sfociare praticamente nel liberalismo e in quello che il citato Miguel Ayuso definisce “repubbliche coronate”: gli Stati monarchici europei presenti attualmente in Europa altro non sono delle Repubbliche che hanno al posto di un presidente un Re o una regina, ma non differiscono da una qualsiasi altra Repubblica, sostanzialmente agnostica e purtroppo, di fatto, atea.
[1] Leandro Herrero, El gobierno carlista. Lo que es en teoría y práctica, Imprenta de A. Querol y P. García, Madrid 1873.