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Barbarossa, il re di Algeri, Giulia Gonzaga ed Ippolito de’ Medici, a Fondi e a Itri, negli anni 1534 e 1535

Posted by on Mag 31, 2021

Barbarossa, il re di Algeri, Giulia Gonzaga ed Ippolito de’ Medici, a Fondi e a Itri, negli anni 1534 e 1535

Specialista dell’Algeria (Camus, Aurélie Tidjani), da cui  è egli stesso originario, José Lenzini ci dona, questa volta, sul tono piacevole di un racconto orientale, una narrazione biografica basata su fonti storiche poco sfruttate e che permette di scoprire la personalità fuori del comune di quel terribile Barbarossa, di cui la più vecchia prigione di Algeri porta ancora il nome.

      Barbarossa e i suoi tre fratelli, tanto popolari nell’universo musulmano quanto d’Artagnan e i moschettieri in quello francese, videro la luce verso il 1470 in un modesto focolare  turco-greco del’isola di Mitilene. Figli del Mediterraneo,essi stavano, sanguinarii pirati agli occhi della cristianità, corsari benedetti da Allah per l’islam, per divenire i re della Corsica prima che uno di essi  non si facesse molto semplicemente re di Algeri, conferendo al “paese delle isole”, El Djezair, quello che può essere considerato la sua prima macinatura unitaria nei tempi moderni.

   Dall’abbordaggio audace delle navi pontificie sulle coste dell’Italia centrale all’affronto senza pari inflitto a Carlo Quinto dinanzi agli isolotti algerini, si svolge la carriera stupenda di un oscuro marinaio, divenuto arbitro tra potenze mediterranee. Verso il 1500, gli Arabi scacciati dalla Spagna, francesi di Algeria, trasformarono Algeri in bastione revanscistico. Così gli spagnoli  avevano occupato un piccolo arcipelago roccioso al largo della città. E’ per togliere “questa spina posta nel loro cuore” che gli algerini, nel 1514, chiamarono Barbarossa, allora installato a Djidjelli, nella Piccola Cabilia. Ci occorsero tre lustri al re-corsaro e ai suoi per cacciare gli spagnoli dalla baia di Algeri. Gli algerini furono soccorsi, ma nello stesso tempo avevano, senza saperlo, posto il loro Paese, fino alla conquista francese del 1830, sotto la ferula ottomana.

   Occorrerà attendere l’emiro Abdelkader  perché spunti in Algeria un altro personaggio di grande apertura come l’uomo di Stato Barbarossa,capo rosso dalla tempra d’oro e d’acciaio, di cui José Lenzini in “Chemin de proies en Méditerranée”, Actes Sud, 270 pagine, ha saputo con spirito far rivivere, sullo sfondo politico-guerriero, il “cursus” più che romanzesco.

     Il cardinale Ippolito de’ Medici, idolo dei Romani, orgoglio del pontefice, Leone X, suo zio, vicecancelliere della Chiesa ed ambasciatore della stessa, che amava la partite di caccia, i giochi d’armi, le feste teatrali e musicali, manteneva uno stuolo di letterati, di artisti, di musici,di ufficiali, di scudieri. Egli frequentava, a Fondi, la corte della contessa Giulia Gonzaga,vedova del gran capitano Vespasiano Colonna, ritenuta la più bella dama del mondo, di cui era il più servizievole dei suoi amici, decantata da Ludovico Ariosto nel canto 46 dell’”Orlando Furioso” , da Bernardo Tasso e da tanti altri verseggiatori, uno dei quali, il Porrino, definì Fondi, in cui si trovavano i più bei nomi del Parnaso italiano, “la vera età dell’oro”. Di lei conosciamo l’episodio de mancato ratto di Giulia Gonzaga, ad opera di Ariadeno Barbarossa, che, forte di seimila  barbareschi, armati fino ai denti, ridusse Fondi un mucchio di pietre fumanti, dopo averlo fatto a Sperlonga, dove catturò più di mille persone. Era l’agosto del 1534.  Le chiese, le ville e le fattorie furono  devastate. Poi le soldatesche turchesche si diressero verso Itri, ma i difensori del munitissimo castello respinsero gli assedianti, costretti alla ritirata. Allora Ariadeno e i suoi si diressero verso il monastero benedettino, a  circa 3 km. dal paese, posto in cima ad una collina, sulla via Appia.  Khair-ed- Din era convinto di trovarvi la contessa, fuggente in camicia su un cavallo, seminuda, come Angelica tra selve oscure, nutrendosi di frutti selvatici. Il Barbarossa si rivolse alla badessa chiedendole di Giulia. L’anziana madre superiora giurò sul crocifisso  che la contessa di Fondi non era lì. Al che il corsaro, scansando la badessa, penetrò nel monastero abbattendo tutte le porte . Non trovando la fuggiasca nel pio luogo, egli  fece saccheggiare ed incendiare il monastero. Le giovani monache furono trascinate in catene e la madre superiora pugnalata. Il corsaro, però,  non era riuscito ad arricchire il serraglio di Solimano Ii della splendida fanciulla , dal biondo crine.

   Il 10 agosto del 1535 Ippolito de’ Medici morì nel convento di S. Francesco di Itri. Con il ventiquattrenne cardinale, nipote del pontefice Clemente VII, persero la vita Berlinghiero Berlinghieri e Dante da Castiglione. Il giovane porporato, amatore delle lettere, mecenate di letterati, di poeti e di dotti, di cui si circondava, il 2 agosto fu colpito da lieve indisposizione, dovuta agli strapazzi, che gli recavano le cacce, i tornei e le frequenti visite a Fondi, da Roma, presso Giulia Gonzaga. Quattro giorni dopo, costretto il cardinale ancora a letto dal malore, il servo Giovanni Andrea  da Borgo San Sepolcro, corrotto dal duca di Firenze Alessandro de’ Medici, cugino di Ippolito, approfittò della circostanza per attuare il suo criminoso piano. Egli portò, per il pranzo del cardinale, una minestra in brodo di carne di pollo, condita con pepe, nella quale, però, aveva propinato del veleno, portatogli da Firenze dal capitano Pignatta. L’autorevole prelato,  che morì tra il  dolore degli amici, accusò dell’avvelenamento  lo scalco Giovanni Andrea De Francisci, arrestato e rinchiuso nel castello medioevale di Itri, dove fu sottoposto dal castellano, da Piero Strozzi e da Bernardo Salviati a strazi e a tormenti.  Presso di lui era Giulia Gonzaga, che gli alleviò dolcemente la sofferenza, assistendolo ed usandogli squisite cortesie. Però non tutti gli storici del tempo ritennero che Ippolito fosse stato vittima di un efferato delitto. Infatti alcuni sostennero che il cardinale, il quale aveva fatto del trecentesco convento di S. Francesco un centro di intrighi per la conquista del ducato di Firenze accogliendo numerosi fuoriusciti (Nicolò Machiavelli, detto il Chiurli, Francesco Corsini, Dante da Castiglione, Antonio Berardi, Bartolommeo Nasi, i capitani Gioacchino Guasconi e Baccio Popoleschi),  provenienti dalla città sulle rive dell’Arno, morì per febbri malariche, altri per intossicazione da cibi avariati.

   Secondo un cronista tiburtino, Ippolito de’ Medici ebbe un’indisposizione mangiando una panatella, che causò la sua morte precoce. Veleno o febbri palustri o ancora qualche intossicazione da cibi avariati? Una morte che suscitò larghi compianti, a cominciare dagli artisti che manteneva, i quali ne portarono, a spalla, la salma da Itri a Roma. Anche per la Gonzaga fu una grave perdita. Il lutto fu generale per questo signore così liberale. Le nenie funebri  furono espresse in tante lingue, accompagnate da urla raccapriccianti, che gelavano il sangue ai presenti. Alcuni servi di colore, africani e mori, si graffiavano il viso per il dolore.

   Sul far della notte, il corteo mosse da Itri, con le fiaccole ardenti e le bandiere a mezz’asta, verso Roma. Il clero era in pompa magna, con crocifissi e stendardi, come si conveniva ad un vicecancelliere della Chiesa. La bara era adagiata sulle spalle degli uomini delle ventidue tribù che formavano la corte esotica dell’alto rappresentante  della cristianità. Sopra il feretro, che veniva condiviso a turno, il cappello cardinalizio, la corazza e le armi del defunto. Dietro la bara, una lunghissima fila di cavalieri, di paggi, di amici, di vassalli, oltre a tanti popolani e contadini.

   La salma, che  fu seppellita nella chiesa di S. Lorenzo in Damaso, a Roma, fu pianta da tutta la cittadinanza.

Alfredo Saccoccio

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