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Breve Storia delle Due Sicilie

Posted by on Dic 13, 2019

Breve Storia delle Due Sicilie

Nel 1130, notte di Natale, con una fastosa cerimonia Re Ruggero II sancì a Palermo la nascita del Regno di Sicilia. Da quella notte, tutto il Sud della penisola italiana, dagli Abruzzi alla Sicilia, fu unificato nel primo vero Stato come nazione indipendente con capitale Palermo.

Quel 25 dicembre è una data simbolica: Ruggero II si presentava come il redentore di tutte le popolazioni del Sud della penisola e, nello stesso tempo, come il fondatore di un regno cristiano. Il Regno, a quella data, aveva circa tre milioni d’abitanti, ed era da sempre considerato il territorio più bello d’Europa per l’antica cultura, per il clima, per gli stupendi paesaggi e per lo stesso modo di vivere della gente, che già per questo poteva ben dirsi una nazione. Nel resto d’Italia vi erano altri cinque milioni d’abitanti, divisi in tanti piccoli agglomerati feudali, qualcuno non più grande della sua cerchia di mura, aventi origini, tradizioni e idiomi diversi.

I Normanni restarono al potere fino al 1194, poi successero gli Svevi, il cui più illustre rappresentante fu Federico II. Seguirono, nel 1266, gli Angioini che trasferirono la capitale del Regno di Sicilia a Napoli. A seguito dei ‘vespri siciliani’ del 1282 la Sicilia fu occupata dagli Aragonesi e divenne Regno di Trinacria, mentre la parte continentale divenne Regno di Napoli. Nel 1443 gli Angioini, che non avevano mai formalmente rinunciato al titolo di re della Sicilia, dovettero cedere agli Aragonesi anche la parte continentale del Regno che fu riunito da Alfonso il Magnanimo (Regnum utriusque Siciliae). Dal 1503 il Regno fece parte della Spagna, che costituì due vicereami autonomi: quello di Napoli e quello di Sicilia. Così restò nel breve periodo austriaco, che va dal 1707 al 1734, anno in cui tutta la Nazione duosiciliana diventò nuovamente indipendente con i Borbone.

Il primo sovrano fu Carlo, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, già duca di Parma. Egli prese possesso del regno, succedendo agli Austriaci, a seguito delle vicende connesse alla guerra di successione polacca: tale avvicendamento gli fu riconosciuto poi dal trattato di Vienna del 1738.

Il ripristino dell’antico nome delle Due Sicilie avvenne nel 1816, a seguito del Congresso di Vienna dell’anno precedente, congresso che mirò a riordinare politicamente l’Europa dopo gli sconvolgimenti delle guerre napoleoniche. Le potenze che avevano sconfitto Napoleone, Inghilterra, Austria, Russia e Prussia, come fanno sempre i vincitori, “sistemarono” l’Europa seguendo logiche che avrebbero dovuto rafforzare sempre di più il loro potere anche a costo di dividere artificialmente le nazioni. La Francia fu ricacciata negli antichi confini e fu privata di suoi territori a favore della Prussia, decisione che fu poi all’origine di continue guerre. Gli Stati tedeschi furono sconvolti da ingrandimenti e dimezzamenti territoriali senza che fosse tenuto conto della loro aspirazione a costituire uno Stato unitario. La Polonia fu divisa fra tre Stati (Austria, Russia e Prussia). L’Austria s’ingrandì a spese di una varietà di popoli del tutto diversi tra loro. Nella penisola italiana, la repubblica di Genova e l’Alto Novarese furono incorporate dal regno sardo-piemontese; il Veneto e la Lombardia furono assegnati all’Austria; il Regno delle Due Sicilie, pur essendo una delle potenze vincitrici, fu spogliato di Malta e dello Stato dei Presidii. Le decisioni del Congresso di Vienna, insomma, pur riuscendo a mantenere poi per numerosi anni un equilibrio tra le varie potenze, non considerarono in alcun modo le aspirazioni degli altri Stati, ponendo così le premesse per i successivi conflitti.

Il Congresso di Vienna era avvenuto a seguito del Patto di Chaumont, stipulato nel 1814, per effetto del quale era stata costituita la Quadruplice Alleanza tra Inghilterra, Prussia, Austria e Russia: l’alleanza fu sottoscritta con l’impegno reciproco di liberare l’Europa dal dominio napoleonico e di ricondurre la Francia nei confini del 1792. Dopo il Congresso, fu sancita, il 26 settembre 1815, la Santa Alleanza tra Russia, Prussia e Austria, potenze che si accordarono per darsi reciproca assistenza per la conservazione della situazione territoriale e delle dinastie istituzionali europee. Soprattutto l’Austria aveva interesse a questo accordo perché costituita da un mosaico di popoli che aspiravano all’indipendenza. A quest’ultimo patto non partecipò l’Inghilterra, interessata non tanto alla stabilità del continente, ma solo a mantenere controbilanciate le forze delle potenze europee e a conservare il dominio sui mari, dominio che le permetteva di rendersi arbitra della politica degli altri Stati. La Francia fino al 1850 fu ingabbiata da questa alleanza che le impediva ogni azione tendente a modificare le decisioni fissate al Congresso di Vienna.

La politica europea, in seguito, dovette abbandonare tali principi conservatori, ormai non più rispondenti alla realtà, e si apprestò a fronteggiare i pericoli ben più gravi causati dai moti liberali, i cui principali ispiratori, Giuseppe Mazzini e Carlo Marx, sostenevano soprattutto il principio dell’uguaglianza dei popoli più che la loro indipendenza. A tali princìpi erano particolarmente interessati gli ebrei, i quali, da secoli, lottavano per la loro emancipazione: fu per questo che presero parte alle società segrete nelle quali si attivarono sostenendole anche economicamente.

Questa nuova ideologia spaventò soprattutto la piccola e media borghesia dell’Europa continentale che appoggiò la conseguente reazione. Come risultato si ebbe la formazione degli Stati costituzionali, i quali divennero strumento per opporsi agli sconvolgimenti rivoluzionari ma anche all’assolutismo monarchico che impediva una politica liberista.

I moti del 1848, infatti, scompaginarono gli accordi del Congresso di Vienna. Le idee nazionaliste avevano portato allo scontro: tedeschi contro polacchi, danesi e slavi; ungheresi contro slovacchi; croati contro ungheresi e italiani. Gli Asburgo soffocarono le rivolte in Italia, in Ungheria, in Germania e in Boemia, con la forza dell’esercito: fu il Metternich, artefice di questa politica, a pensare che bastava imporre il rispetto dell’ordine costituito perché si potessero tenere insieme popoli così diversi in un unico organismo politico.

In un primo tempo l’Inghilterra, volendo bilanciare le contrapposizioni degli Stati europei, aveva appoggiato l’Austria perché la considerava pur sempre un baluardo contro l’espansionismo francese. Dopo il 1846, però, guidata da Palmerston, cominciò anche ad interessarsi degli avvenimenti che accadevano nella penisola italiana ed iniziò a condannare apertamente gli interventi austriaci: ciò avveniva perché l’Austria aveva stretto rapporti con Francia e Russia, due potenze verso le quali gli Inglesi nutrivano forte ostilità. Per questo nel 1847 il governo inglese inviò in Italia lord Minto con il compito ufficiale di sostenere gli Stati riformatori e la causa della libertà in senso moderato, anche se la vera missione consisteva nell’evitare una crisi dell’equilibrio europeo, e nell’impedire che tutta la penisola cadesse sotto l’influenza francese a seguito di un eventuale disimpegno austriaco. Altro compito di Lord Minto nella penisola era quello di favorire la costituzione di una lega doganale tra i vari Stati italiani: l’Inghilterra, infatti, sovrastava tutti gli altri Stati europei nell’industria e nel commercio e, per questo, aveva tutto l’interesse ad imporre in Europa una politica di libero scambio, che, permettendo il libero ingresso di prodotti a basso costo, avrebbe stroncato sul nascere le economie emergenti che non avrebbero avuto la forza di competere con essa.

Inaspettatamente, però, nel 1848 l’Inghilterra prese le parti dell’Austria nel conflitto contro i piemontesi. La ragione di questa svolta è da ricercarsi nel movimento rivoluzionario che era scoppiato in Francia con la cacciata di Luigi Filippo e la formazione di una repubblica con a capo il nipote di Napoleone, Luigi. Si temeva, infatti, che tale rivoluzione potesse interessare tutta l’Europa com’era successo nel 1789. Palmerston cercò perfino di impedire l’intervento duosiciliano, prospettando al Re Ferdinando II una sicura vittoria dell’Austria e i gravi danni che gli sarebbero derivati da un eventuale ingrandimento del Piemonte. Il governo inglese temeva, com’era in effetti nelle intese della Francia, che questa avrebbe approfittato degli avvenimenti insurrezionali italiani per aumentare la sua influenza in Italia a scapito di quella austriaca. Lo stesso lord Minto fu incaricato di diffidare il governo piemontese dal provocare un intervento francese e, nel contempo, fu incaricato di evitare che la Sicilia, a seguito dell’insurrezione che vi era scoppiata, potesse cadere sotto l’influenza francese. L’Inghilterra propose che fosse posto sul trono siciliano il figlio del savoiardo Carlo Alberto in contrapposizione alla Francia che proponeva un principe francese: la vittoria dell’Austria sul Piemonte pose fine a questi contrasti che non riguardavano minimamente l’indipendenza della Sicilia, ma solo ed esclusivamente gli interessi mediterranei delle due potenze.

Napoleone III, d’altra parte, avendo compreso che il principio delle nazionalità avrebbe alla lunga prevalso, mirò a cambiare l’Europa nata nel 1815 e indirizzava la sua politica contro l’impero austriaco per imporre il proprio predominio sugli altri Stati europei. Tuttavia la sua politica era impossibile da realizzare perché contraddittoria: da una parte, infatti voleva rifare l’Europa, dall’altra voleva mantenere il vecchio equilibrio europeo.

Nel Regno delle Due Sicilie, primo fra gli altri Stati europei, Ferdinando II, ma con obiettivi diversi, concesse il 29 gennaio del 1848 la Costituzione, che in rapida successione fu concessa anche dagli altri Stati con l’interessata pressione del governo inglese. I movimenti rivoluzionari che si erano manifestati nelle Due Sicilie, tuttavia, non erano spontanee rivolte popolari: esse erano provocate da una parte della borghesia, quella mercantile, d’idee liberali, nonché da quel ceto ancora legato a consuetudinari privilegi feudali, che si opponeva alla amministrazione duosiciliana tradizionalmente molto disponibile nei confronti delle classi meno abbienti.

La concessione della Costituzione, per il sovrano duosiciliano, aveva motivazioni diverse da quelle liberali, perché ben diverse erano le condizioni del popolo. Non vi era nelle Due Sicilie, come invece vi era nell’Italia settentrionale, il dominio di un governo straniero, né l’assolutismo era oppressivo come in Piemonte, ma illuminato e popolare, tanto che in brevissimo tempo aveva portato il Regno ad un’economia di buon livello. Questo successo era avvenuto in modo naturale, senza l’aggressività della rivoluzione industriale inglese che aveva causato milioni di derelitti in Inghilterra e in Francia, ma anzi con un crescente e diffuso benessere, relativamente ai tempi, che, senza l’interruzione dell’invasione piemontese, avrebbe portato correttamente il Regno ai più alti vertici economici e sociali.

Nel regno sardo-piemontese la borghesia, priva di capitali e di mercati più vasti, amministrata in modo ottuso, desiderando di voler “risorgere” dalle sue misere condizioni, ad imitazione delle fortune coloniali inglesi e francesi, concepì la conquista degli altri, più ricchi, territori della penisola italiana. Il Regno savoiardo, tuttavia, non aveva le capacità per compiere da solo queste conquiste. La monarchia sabauda, tra l’altro, si era dimostrata la più retriva e reazionaria della penisola soffocando nel sangue il più piccolo tentativo di rivolta. Essa fu spinta, in ogni modo, dalla sua classe politica ad espandersi territorialmente verso la Lombardia e il Veneto, ma gli Austriaci, nonostante disordini interni, sconfissero facilmente nel luglio del 1849 i piemontesi a Custoza.

La Russia, intanto, che da qualche tempo cercava di espandere il proprio territorio in direzione del Mediterraneo, aveva progettato di annettersi la Valacchia e la Moldavia allo scopo di avere un più facile accesso al Mar Nero. Il suo scontro vittorioso contro la Turchia nel 1853 determinò però un altro conflitto, quello cosiddetto di Crimea, che i francesi e gli inglesi, uniti dagli stessi interessi, organizzarono per contrastare l’espansionismo russo. Al conflitto volle partecipare il governo piemontese retto da Cavour, che in tal modo contava di liberare il Piemonte dall’isolamento internazionale e di stringere forti alleanze per non avere ostacoli ai suoi disegni espansionistici.

Dopo la guerra di Crimea, al successivo congresso di pace di Parigi del 1856, Francia e Inghilterra, anche se con altre intenzioni, affermarono tra l’altro che il governo pontificio, quello austriaco e quello duosiciliano opprimevano le popolazioni a loro sottomesse. A seguito di questi pronunciamenti Cavour si recò a Londra sperando di ottenere un aiuto armato per una guerra contro l’Austria, ma si rese conto che le dichiarazioni inglesi avevano solo il fine di ottenere un favorevole voto piemontese al Congresso per la questione della Valacchia e della Moldavia. L’Inghilterra, infatti, mai avrebbe permesso un indebolimento dell’Austria che continuava a considerare in funzione antifrancese, anche se si era dimostrata favorevole alla creazione di un più forte Stato nel nord della penisola italiana.

Cavour allora si rivolse alla Francia e si giunse così al Convegno di Plombières, dove furono poste le basi delle successive conquiste piemontesi. Nel Convegno fu stabilito che, a seguito dell’intervento francese, si sarebbe creato un regno dell’Alta Italia sotto i Savoia; Luciano Murat sarebbe stato posto a Napoli e Gerolamo Bonaparte a Firenze, costituendo con questo nuovo assetto della penisola una confederazione italiana sotto la presidenza del Papa. Il Piemonte, non avendo risorse economiche per sostenere una guerra, si obbligò di cedere alla Francia i territori di Nizza e Savoia, ed era in procinto di cedere anche la Sardegna se non fosse stato fermato dall’Inghilterra che temeva la supremazia della Francia nel bacino mediterraneo.

L’Inghilterra, infatti, appena aveva saputo di questo piano, diffidò immediatamente Napoleone III e Cavour, chiedendo anche alla Prussia di intervenire militarmente per evitare una guerra contro l’Austria. Il conflitto, tuttavia, scoppiò ugualmente a causa dell’ingenuità del governo austriaco che inviò un ultimatum al Piemonte, che per questo fu considerato uno Stato aggredito, e che, com’era nei patti, fece scattare l’intervento francese. Durante il conflitto Cavour, noncurante degli accordi di Plombières, attivò numerose rivolte in Toscana, nei ducati di Parma e di Modena, e nelle Legazioni delle Romagne per poterle annettere al Piemonte: fu per questo che Napoleone III si affrettò a firmare a Villafranca un armistizio con gli Austriaci, ma anche per la pressante minaccia di un intervento prussiano alle sue frontiere.

In seguito l’Inghilterra ritenne più confacente ai suoi interessi una modifica radicale dell’assetto politico della penisola italiana. Determinante fu innanzitutto la progettata apertura del canale di Suez, fatto che rendeva indispensabile avere il dominio del Mediterraneo, e poi i contemporanei accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’impero russo, che aveva iniziato a far navigare la sua flotta nel Mediterraneo, avendo come base d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie. L’Inghilterra, tra l’altro, aveva considerato che la creazione di un unico Stato nella penisola italiana potesse fare da contrappeso alla Francia nel Mediterraneo e avrebbe eliminato o ridotto fortemente l’influenza cattolica in Europa.

Non vanno sottovalutate anche altre vicende che determinarono un cambiamento della politica inglese nei confronti delle Due Sicilie: innanzitutto la non applicazione della Costituzione concessa nel 1848 e la mancata partecipazione delle Due Sicilie alla Lega Doganale italiana. Tale situazione contrastava fortemente gli interessi commerciali inglesi che traevano buoni profitti dai traffici con gli Stati che avevano già una politica di libero scambio.

L’Austria non poté intervenire a causa delle sue lotte interne, mentre la Russia era troppo distante dal teatro degli avvenimenti. Napoleone III, mentre occultamente favoriva il Piemonte, si limitò a mantenere le sue truppe nello Stato pontificio con lo scopo dichiarato di proteggere il Papa, ma in realtà per tenere il nuovo Stato italiano sotto tutela francese.

La spinta verso l’annessione fu, senza dubbio, però, l’alleanza sotterranea tra la borghesia piemontese e una parte di quella delle Due Sicilie, quella soprattutto liberale. Una gran parte della borghesia duosiciliana, infatti, restò legittimista e fornì non pochi aiuti alla resistenza subito formatasi dopo l’invasione delle truppe piemontesi. Gli obiettivi della borghesia piemontese erano quelli di impossessarsi di più ricchi territori e di sfruttare quest’ampliamento con l’opportunità di più vasti traffici e appalti, mentre gli scopi di quella duosiciliana, che era soprattutto una borghesia legata alla terra, erano quelli di sottrarsi alla tradizionale amministrazione dei Borbone e di impossessarsi delle vaste terre demaniali che erano concesse gratuitamente in uso civico ai contadini.

Conclusi tali accordi, che minarono dall’interno lo stesso governo delle Due Sicilie, l’azione di Garibaldi, enormemente aiutato dagli inglesi (sbarcarono anche truppe indiane in Sicilia), fu una facile passeggiata fino a Napoli, sebbene costellata da numerosi episodi di violenza, di stragi e di ruberie. Colpevole fu, infine, anche la dirigenza militare duosiciliana, quella che non tradì, che non aveva capito che nella guerra portata dai piemontesi non esisteva più la moralità, la cavalleria ed il rispetto del diritto di un tempo. L’invasione piemontese fu attuata, infatti, con una guerra totale che non rispettò principio alcuno.

La principale causa del crollo delle Due Sicilie va, senza dubbio, inquadrata nel marciume generato dalla corruzione massonica. Esso era dappertutto: nelle articolazioni statali, nell’esercito, nella magistratura, nell’alto clero (fatta salva gran parte dell’episcopato), nella corte del Re, vera tana di serpenti. Infatti, come ha esattamente analizzato Eduardo Spagnuolo: “addebitare ai piemontesi le colpe del nostro disastro è vero solo in parte e contrasta anche con i documenti dell’epoca. La responsabilità della perdita della nostra indipendenza e della nostra rovina è per intero della classe dirigente duosiciliana, che si fece corrompere in ogni senso. Non a caso le bande guerrigliere più motivate, come quella del generale Crocco e del sergente Romano, si muovevano per colpire, innanzitutto, i collaborazionisti e gli ascari delle guardie nazionali”.

Dopo il 1860 non ci fu soltanto un popolo in lotta contro un esercito aggressore, come nel 1799, ma una guerra civile tra gli strati popolari e la minoranza collaborazionista, tutta proveniente dalle classi più abbienti della società meridionale. I piemontesi, come ha giustamente indicato ancora Eduardo Spagnuolo: “vinsero perché si erano precedentemente assicurati, attraverso l’azione sovversiva della massoneria, l’adesione dei “galantuomini” del Sud, i veri criminali briganti. Se non avessero avuto questo consenso fondamentale, mai e poi mai si sarebbero azzardati ad attaccarci. Se un popolo, infatti, insieme alla sua classe dirigente (o almeno con una parte consistente di essa) ha veramente voglia di resistere, non c’è repressione che tenga, anche se la vittoria piemontese sul campo era stata ottenuta soprattutto grazie ad una schiacciante superiorità di mezzi materiali e ad un’ottima organizzazione bellica frutto dell’esperienza delle varie guerre precedenti.

All’eliminazione della “classe dirigente borbonica” contribuì, purtroppo, lo stesso Francesco II, che, nel concedere la costituzione, corrispose esattamente al piano diabolico dei liberali. Con la promulgazione della costituzione (che Ferdinando II aveva espressamente raccomandato al figlio di non concedere) furono eliminati legalmente i funzionari fedeli e soprattutto fu paralizzato il popolo attraverso il disarmo legale della Guardia Urbana, milizia popolare in stragrande maggioranza fedele al Re.

Nonostante lo sfaldamento del nostro esercito, la partita poteva ancora essere vinta, o quanto meno si poteva veramente colpire con efficacia l’aggressore piemontese, ma la concessione reale della costituzione (nell’illusione di avere favorevoli i liberali, decisi, invece, a svendere la propria terra allo straniero) chiuse i giochi ancora prima di iniziare la partita. Attraverso di essa, infatti, quella parte della borghesia traditrice, proprio in nome di Francesco II, si impadronì di tutte le leve del potere, disarmando il popolo e armando, attraverso la ricostituita Guardia Nazionale, i sostenitori dei “galantuomini”. A quel punto, regnando ancora nominalmente Francesco II, la magistratura, le autorità municipali e le forze di polizia finirono saldamente in mano al nemico. Il popolo si ritrovò completamente abbandonato e soprattutto senza possibilità di comunicazione con la “classe dirigente borbonica” legalmente allontanata da ogni carica istituzionale.

Contemporaneamente, primissima operazione delle “autorità”, fu quella di allontanare tutti i vescovi dalle loro diocesi, episcopato che, essendo di nomina reale, poteva costituire una serissima e autorevolissima opposizione. È da rilevare, inoltre, che la resistenza non iniziò quando vennero i piemontesi, ma cominciò proprio quando fu concessa la costituzione liberale, che anche alcuni vescovi, specie delle Puglie, contrastarono attivamente. Se ben si osserva, da un punto di vista strettamente giuridico, i primissimi moti popolari avevano infatti un carattere “antiborbonico”, poiché andavano contro la costituzione, in altre parole contro un corpo di leggi del Regno delle Due Sicilie promulgate su espressa volontà del legittimo Re Francesco II di Borbone. Il popolo, in realtà, aveva compreso immediatamente tutta la malizia dei liberali e si era mosso per contrastarla”.

L’opposizione armata, tuttavia, fu soltanto un aspetto della più vasta resistenza all’invasione piemontese, perché tale resistenza si sviluppò per anni in modo civile con proteste della magistratura e dei militari, con la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, con il rifiuto della classe colta a partecipare alle cariche pubbliche. Innumerevoli furono le manifestazioni di malcontento della popolazione, che si astenne spesso dal partecipare alle elezioni; non poche furono le iniziative di diffondere la stampa clandestina legittimista contro l’occupazione piemontese.

La resistenza duosiciliana, definita “brigantaggio”, è stato analizzata e variamente spiegata, volendo dimostrare da una parte che essa era una specie di esercito sanfedista, sorretto dai reazionari duosiciliani, ma senza un capo carismatico, come lo era stato il cardinale Fabrizio Ruffo nel 1799; dall’altra che era un fenomeno esclusivamente sociale dovuto alle lotte contadine contro i cosiddetti “galantuomini”, che avevano usurpato le terre demaniali e i beni della Chiesa, lotte che poi sfociarono nel crimine. In realtà, se qualcosa di vero di queste due tesi può essere considerata una componente di tutto l’insieme, è evidente dai fatti che tutto un popolo ha lottato contro l’invasione di un esercito considerato straniero e contro i collaborazionisti per lunghissimi anni.

A questa guerra di resistenza, parteciparono, infatti, oltre ai contadini, militari del disciolto esercito duosiciliano, avvocati ed impiegati, operai e studenti, sindaci e magistrati. Numerosi furono anche legittimisti stranieri, particolarmente spagnoli, che fecero parte della resistenza duosiciliana. Il “brigantaggio”, in sostanza, fu la reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia e della sua cultura. Una resistenza che avvenne spontaneamente, dunque, quando ormai, però, il Regno delle Due Sicilie, nei suoi gangli vitali, era controllato dagli occupanti piemontesi. Ben diversi sarebbero stati i risultati se Francesco II avesse egli stesso spronato tutto il popolo alla resistenza ancor prima che avesse avuto luogo l’invasione.

La resistenza duosiciliana iniziò con spontanei piccoli isolati episodi nell’agosto del 1860, subito dopo lo sbarco dei garibaldini provenienti dalla Sicilia. Inizialmente fu soprattutto la popolazione delle campagne che si rivoltò contro i comitati liberali filogaribaldini, ripristinando i simboli duosiciliani e i legittimi poteri nei vari paesi dell’entroterra. La resistenza divenne più consistente subito dopo l’occupazione piemontese e ad essa parteciparono migliaia di soldati duosiciliani sbandati, coscritti che rifiutavano di servire un’altra bandiera e persone d’ogni settore sociale. Divenne, poi, una vera e propria rivolta popolare quando le truppe piemontesi iniziarono una feroce repressione con esecuzioni sommarie e con arresti in massa. Nel corso dell’anno 1861 e del 1862 fu tutto un intero popolo che si sollevò, tanto che furono perseguitati anche il clero e i nobili lealisti che dovettero emigrare lasciando la resistenza priva di guida politica. Particolare attenzione fu data dagli occupanti all’informazione a mezzo stampa, mediante la quale era deformata qualsiasi notizia al fine di presentare la resistenza duosiciliana come espressione di criminalità comune e per nascondere le atrocità commesse dagli stessi invasori. Il compito di eseguire questa criminale azione di repressione fu affidato principalmente al generale Cialdini che ordinò eccidi, rappresaglie, saccheggi e distruzioni di centinaia di centri abitati per impedire che l’insurrezione diventasse del tutto incontrollabile.

Prima dell’invasione, della cosiddetta “Unità d’Italia” non se n’era mai sentita l’esigenza tra le restanti popolazioni italiane; trovare documenti o pubblicazioni che parlino di “spirito nazionale” prima dei “fatti risorgimentali” è estremamente difficile. L’idea unitaria, infatti, non ebbe mai alcun sostegno popolare: fu un pugno di massoni “borghesi”, legati soltanto ad interessi materiali, a diffondere i cosiddetti “ideali risorgimentali”.

Il colmo era poi dato dal Piemonte dei Savoia che, pur essendo francesi, dicevano di voler “liberare l’Italia dagli stranieri”. Il marchese Villamarina fu l’anello di congiunzione tra la dinastia sabauda e la massoneria che riuscì a “piazzare” Cavour, notoriamente massone, e uomo di fiducia degli inglesi, come primo ministro del Regno di Sardegna. Della libertà e della indipendenza degli Italiani, d’altronde, ai Savoia non interessava alcunché: il loro obiettivo era quello di espandere i possedimenti territoriali, utilizzarli ai loro interessi, rafforzarsi sempre di più sulla scena europea. Proprio questo, ma soprattutto la politica di rapina messa in opera a danno del Mezzogiorno d’Italia, è la dimostrazione di come, al di là delle dichiarazioni di unità e indipendenza, il Piemonte, sostenuto in questo dalla borghesia lombardo-veneta, arrivò al Sud con la mentalità del conquistatore.

Dal giorno della conquista, l’ex Regno delle Due Sicilie è diventato un grande mercato per i prodotti del Nord, mentre i suoi abitanti diventarono carne di cannone per le guerre che seguirono all’indomani della cosiddetta unità nazionale. E tutto questo avvenne con la complicità di una classe politica meridionale che è stata, purtroppo, sempre prona agli interessi delle lobby del cosiddetto “triangolo industriale”. Di qui la nascita della cosiddetta “questione meridionale” e le continue devastanti «tangentopoli» che ci impongono da oltre un secolo e che dimostrano come certi interessi dei vecchi conquistatori sono rimasti inalterati.

Il Popolo delle Due Sicilie, in tutta la sua lunghissima storia, non ha mai fatto una guerra d’aggressione contro altre nazioni. Ha dovuto, invece, sempre difendersi dalle altrui aggressioni, fatte con le armi e con le menzogne. Ancora oggi dal Nord dell’Italia, per una congenita ignoranza, alimentata continuamente dalla falsa propaganda risorgimentale fatta instancabilmente dai vertici dello Stato “italiano”, i Duosiciliani sono puerilmente aggrediti con violenze verbali e con luoghi comuni.

Considerando tutti gli avvenimenti succedutisi dopo il 1860 ad oggi, si può affermare che con il “risorgimento” ebbe inizio quel processo politico, che, passando attraverso continue guerre suggestivamente etichettate, portò al fascismo prima, alla repubblica successivamente. Una repubblica che, mentre condanna il fascismo, esalta contraddittoriamente i cosiddetti «valori» del “risorgimento” che costituirono le fondamenta della oppressione del Sud.

Antonio Pagano

Condizioni delle regioni «meridionali» prima dell’invasione piemontese

Calabria

Prima dell’unità d’Italia era la più ricca regione d’Italia, ora è la più povera d’Europa. In Calabria lo sviluppo delle industrie iniziò con lo sfruttamento delle miniere di ferro e di grafite: Real Stabilimento di Mongiana, un’area coperta di 12.000 metri quadri, con una fonderia e uno stabilimento siderurgico, due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson e sei raffinerie, si producevano trafilati, laminati e acciai da cementazione. Fabbrica d’armi su un’area coperta di circa 4.000 metri quadri. Altri stabilimenti siderurgici erano a Pazzano, Fuscaldo, Cardinale e Bigonci. Altre attività per antica tradizione, oltre alla notevole e pregiata produzione agricola, erano quelle tessili, in cui essa primeggiava per la produzione della seta, gli arsenali ed i numerosi cantieri navali. I calabresi impiegati nelle sole industrie erano allora poco più di 31.000.

Nessuna emigrazione.

Puglia e Basilicata

Opifici di lana, di cotone e di lino, con produzione esportata in tutto il mondo. Numerose filande quasi tutte motorizzate. Fabbriche di presse olearie e di macchine agricole prodotte negli stabilimenti di Foggia e di Bari. Aziende agricole e chimiche, numerosissime flottiglie per la pesca e cantieri navali. A Barletta, una salina che riforniva tutta l’Europa. Centro di riferimento, per tutto il Regno, era l’attivissima Borsa di Commercio di Bari.

Nessuna emigrazione.

Abruzzo e Molise

Produzione d’utensili, di lame di acciaio, rasoi e forbici, esportati in tutto il mondo. Numerosi opifici tessili e per la produzione della carta. Allevamenti pregiati di bovini e caprini che consentivano anche una eccellente produzione casearia. Nessuna emigrazione

Campania

Tra le regioni più industrializzate d’Europa, lungo l’asse Caserta – Salerno. Opificio di Pietrarsa dove si producevano motori a vapore, locomotive, carrozze ferroviarie e binari. Cantieri navali tra i migliori d’Europa, come quello di Castellammare di Stabia, fabbriche d’armi e di utensileria, aziende chimiche – farmaceutiche e per la produzione della carta, del vetro, concia e pelli, alimentari, ceramiche e materiali per edilizia. Setificio di S. Leucio. Numerose fabbriche di strumenti tecnici, orologi, bilance, e una miriade di fabbriche minori, nei più svariati campi di attività. Eccellente la produzione agricola in gran parte esportata. Nessuna emigrazione.

Sicilia

Pesca, cantieri navali e industrie meccaniche. Esportazione di zolfo, olio d’oliva, agrumi, sale marino e vino. Le principali correnti di traffico erano dirette verso l’Inghilterra (40%), verso gli Stati Uniti d’America (con un terzo della produzione d’agrumi) e verso gli altri paesi europei. La Sicilia per questi suoi commerci aveva costantemente un saldo attivo. Nessuna emigrazione.

GIUSEPPE GARIBALDI, L’ARTEFICE DELLA QUESTIONE MERIDIONALE

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morì a Caprera il 2 giugno del 1882. Il personaggio, esaltato come eroe dalla storiografia dell’attuale regime, era in realtà di ben diversa levatura. Per poter far comprendere chi era veramente Garibaldi ho ritenuto di raccontare gli episodi della sua vita più significativi, quelli cioè a cui viene data più importanza dai suoi agiografi, solo nei fatti essenziali, senza cioè dedurne alcun commento, lasciando ai lettori di farsene di suoi. Attorno a questi episodi sono state pure inserite le più significative vicende storiche, durante le quali, e per conseguenza delle quali, quegli episodi avvenivano. In tal modo, mi pare, quegli stessi episodi riescono ad essere compresi e, soprattutto, riescono a delineare una immagine certamente più realistica della essenza del personaggio, definito dagli agiografi prezzolati “l’eroe dei due mondi”, ma che, a mio sommesso parere, fu un uomo, a dir poco, ingenuo, sia pure un diabolico avventuriero, manovrato abilmente da un non tanto oscuro burattinaio.

I PRIMI PASSI

Il 26 dicembre 1832 Giuseppe Garibaldi, affiliato con il nome di “Pane” alla setta “Giovine Italia” fondata da Mazzini, si arruola come marinaio di terza classe nella marina piemontese con il compito di sobillare e di fare propaganda tra i marinai savoiardi. La tecnica delle sette sovversive, con l’attivazione di episodi di rivolta quasi spesso irrealizzabili, è, infatti, quella di tenere sempre e comunque in stato di tensione i governi e quindi di provocare artatamente la loro reazione. In tal modo esse mirano a convincere, nel corso del tempo, le popolazioni che tutto ciò accadeva a causa dell’oppressione dei sovrani, sia a Napoli, sia negli altri Stati che non si uniformavano alle loro mire.

Il Mazzini, che vive al sicuro in Svizzera, progetta nel 1834 di invadere la Savoia con il generale Girolamo Ramorino a capo di un centinaio di rivoltosi, mentre a Genova Garibaldi avrebbe dovuto far insorgere la città ed occupare il porto. L’inconsistenza dell’azione ed il feroce intervento delle truppe piemontesi fanno fallire l’inutile sommossa. Molti cospiratori catturati sono condannati a morte. Il Mazzini, rimasto sempre in Svizzera (e poi rifugiatosi prudentemente a Londra), ed il Garibaldi, riuscito fortunosamente a fuggire, sono condannati a morte in contumacia.

Garibaldi prima si rifugia per alcuni mesi a Marsiglia, dove è raggiunto dalla notizia che, il 3 giugno 1834, il Consiglio Divisionario di Guerra lo ha condannato a morte ignominiosa come “bandito di primo catalogo”, e dopo s’imbarca sul brigantino mercantile Union, diretto a Odessa, da dove si porta a Tunisi, per arruolarsi come marinaio nella flotta piratesca di Hussein Bey, Signore di Tunisi.

Nel 1834, nella Reggenza di Tunisi, vivono all’incirca 8000 europei. Un terzo di loro sono italiani. Provengono dalle più disparate parti d’Italia: dalla Sicilia, dalla Campania, dalla Toscana, dalla Liguria. A la Goulette, il porto di Tunisi, nel febbraio del 1834 muore il capitano Paolo Carboso, un ligure originario di Recco. Tra le sue carte si rinvengono lettere e documenti che fanno risalire alla società Carbonara, o meglio alla “Vendita”, come si diceva nel gergo segreto, la setta massonica degli “Amis en captivitè” che aveva una sede a Malta. Di qui le conclusioni che sono subito tratte e cioè che : “I suoi frequenti viaggi fra Tunisi, Lisbona, Malta, avessero avuto lo scopo di portare dei pieghi in quelle regioni per le pratiche infami della propaganda”. In realtà in quel periodo la carboneria, a Tunisi, stava perdendo terreno. Al suo posto però aveva già gettato radici la “Giovine Italia” con un programma repubblicano per l’unità dell’Italia.

In quel mese giunge a Tunisi un altro profugo politico. Si tratta di Antonio Montano di Napoli, che aveva prima partecipato alla rivoluzione costituzionale e poi alla cosiddetta “congiura del monaco” (perché capeggiata dal frate Angelo Peluso).

Verso la fine dello stesso anno ripara a Tunisi anche un altro cospiratore: Antonio Gallenga di Parma. Nella “Giovine Italia”, a cui era affiliato, aveva assunto il nome di “Procida”. Mazzini aveva una grande fiducia in lui, anche se si era rifiutato di compiere un attentato politico per assassinare Re Carlo Alberto. Tunisi in questi anni è una tra le basi della massoneria più importanti per la cospirazione contro le Due Sicilie.

Dopo qualche mese Garibaldi si porta di nuovo a Marsiglia, dove si imbarca come secondo sul brigantino Nautonier di Nantes diretto a Rio de Janeiro.

NEL NUOVO MONDO

Agli inizi dell’estate del 1836 Garibaldi, accusato dalle autorità di Rio de Janeiro di loschi traffici assieme ad altri italiani fuorusciti, riceve l’ordine di espulsione dal Brasile. L’avventuriero, allora, ruba una barca dal porto e, con gli altri suoi complici, si dà alla pirateria. Braccato dalla marina brasiliana, si rifugia nella provincia di Rio Grande presso Bento Gonçales, capo della rivolta contro la monarchia del Brasile.

Nel 1837, poi, il Garibaldi, inizialmente con una barcaccia da 20 tonnellate (da lui battezzata Mazzini), successivamente con altre navi catturate, compie scorrerie e saccheggi sul Rio Grande contro le navi cattoliche-ispaniche e nei villaggi rivieraschi, protetto dagli inglesi, i quali per mezzo suo raggiungono lo scopo di assicurare il monopolio commerciale all’impero britannico.

Nell’agosto, tuttavia, la sua nave è intercettata e colpita da molte fucilate, ma il nizzardo riesce a sfuggire alla cattura con l’aiuto di una nave argentina. Tra i molti feriti c’è lo stesso Garibaldi che è internato e curato in Argentina.

Nel 1838 Garibaldi, lasciato libero dagli Argentini, si dirige a Montevideo e poi ancora nel Rio Grande, dove i ribelli di Bento gli affidano due navi, catturate qualche mese prima ai brasiliani, per la tratta dei negri. In seguito Garibaldi compie veri e propri atti di pirateria nei pressi della laguna Dos Patos, dove assale navi mercantili isolate, uccidendo gli inermi marinai delle navi catturate. Molte volte dà l’assalto anche ai villaggi interni dei contadini, facendo razzie, rubando oggetti di valore e violentando le donne. è in questo periodo che incomincia a portare i capelli lunghi perché, pare che avendo tentato di violentare una ragazza, questa gli aveva staccato l’orecchio destro con un morso.

Nel 1839 in Cina è decretato il divieto di importazione dell’oppio spacciato dalla Compagnia inglese delle Indie Orientali dal Bengala, dato lo stato miserevole in cui si era ridotta gran parte della popolazione. Un funzionario cinese, deciso a far rispettare il divieto d’importazione disposto dall’imperatore, requisisce e fa distruggere oltre 2.000 casse di droga appartenenti ai mercanti britannici. L’allora ministro degli Esteri inglese, Lord Palmerston, Gran Maestro della Massoneria, poiché il commercio della droga è una pietra miliare della politica imperiale inglese, per gli enormi guadagni che comportava, ordina di far sbarcare dei marinai dalla flotta inglese, che sostava nei pressi dell’isola di Hong Kong, con il compito di provocare una rissa nella zona di Kowloon con i residenti cinesi, fingendosi ubriachi. Un cinese è ucciso, ma il capitano inglese Elliot si rifiuta di consegnare i colpevoli alle autorità cinesi, che pertanto intimano alla flotta inglese di abbandonare le coste della Cina. La conseguente azione di forza del modesto naviglio cinese (sulla cui azione contano gli inglesi) è facilmente respinta dalle navi militari inglesi. Il governo inglese,poi, dà immediatamente l’ordine alla flotta navale, già segretamente inviata in quei mari, di minacciare la Cina, costringendola ad accettare la libera importazione dell’oppio ed a pagare alla Gran Bretagna un’indennità di guerra di 20 milioni di dollari. Hong Kong è occupata dalle truppe inglesi e, in seguito, ceduta in affitto alla corona inglese col trattato di Nanchino del 1842.

In quello stesso anno gli inglesi fondono a Hong Kong una loggia massonica. Due anni dopo, dichiarata porto franco, Hong Kong diventa la capitale mondiale della droga sotto la protezione del governo inglese, che ne favorisce segretamente la commercializzazione.

Alla fine di agosto il Garibaldi, intanto, conosce Anita nel piccolo borgo uruguayano di Barra. Allora la donna era già sposata con un tal Manuel Duarte, che abbandona il 23 ottobre, giorno in cui lo stesso Garibaldi la porta via sulla nave Rio Pardo. Il Duarte dopo qualche giorno muore di crepacuore, molto probabilmente anche a causa delle ferite causategli dagli scherani garibaldini.

Alla fine dell’anno una squadra navale brasiliana intercetta e distrugge le navi corsare di Garibaldi. Costui, tuttavia, riesce a sfuggire, insieme ad Anita ed a pochi dei suoi, rifugiandosi ancora una volta presso Bento. Garibaldi, così, insieme con Bento, che aveva costituito nel 1840 un folto gruppo di avventurieri, inizia una serie di rapine e razzie di ogni genere, vanamente inseguito dai reparti governativi. Il 16 novembre, mentre si trova in sosta nel paese di Mustarda, Anita dà alla luce Menotti.

NASCE LA LEGGENDA DELL’ «EROE» DEI DUE MONDI

Dopo l’estate del 1841, Garibaldi, con 900 bovini razziati nelle campagne, si separa da Bento e si dirige verso Montevideo in Uruguay, ma qui giunge nella primavera successiva con sole trecento pelli, da cui ricava un centinaio di scudi. Rimasto poi senza denaro e del tutto inadatto a lavorare, è aiutato da Anita, che per sostenere la famiglia lavora come lavandaia. In quel periodo, intanto, scoppia la guerra tra Argentina e Uruguay.

Durante questa guerra, a Garibaldi è affidato, nel gennaio del 1842, da parte del diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando di alcune navi, con le quali costituisce una grossa banda formata quasi tutta da italiani, vestiti con una camicia rossa. Questa gente, per lo più disperata, dedita solo a rapine, compie molti atti di violenza, a cui partecipa ben volentieri lo stesso Garibaldi, tanto che, dopo una efferata rapina da lui fatta in casa di un brasiliano, è destituito e imprigionato. Tra gli italiani vi sono anche dei tipografi settari che pensano di stampare un giornale che intitolano “Il Legionario italiano”. Su questo giornale inventano moltissime menzogne di eroismo sul comportamento degli italiani in quella guerra, in modo da attenuare la forte ostilità degli uruguayani verso le camicie rosse italiane. Il giornale è anche diffuso fuori dai confini dell’Uruguay e, con la complicità dei settari, è tradotto in molte lingue, tanto che, riportata da altri giornali, nasce una leggenda sugli “eroici” legionari italiani.

In seguito l’avventuriero si iscrive alla Massoneria Universale e precisamente nella loggia irregolare “L’asilo della Virtù”, regolarizzandosi poi in Montevideo il 24 agosto 1844, nella loggia “Gli Amici della Patria”, dipendente dal Grande Oriente di Francia.

Nel frattempo, l’enorme profitto commerciale che stavano avendo Inghilterra e Stati Uniti con la Cina, attira anche l’interesse della Francia, che il 24 ottobre costringe il governo cinese a firmare a Whampoa un nuovo trattato commerciale con il quale anche i francesi potevano vendere oppio ai Cinesi. Con tale trattato il consumo di oppio in Cina è triplicato nel decennio successivo e la sovranità cinese praticamente eliminata perché l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti possono vendere liberamente nell’immenso territorio cinese qualsiasi prodotto.

Dopo varie vicende, il 20 novembre 1847 la flotta anglo – francese sconfigge quella argentina, ponendo in tal modo fine alla guerra tra Uruguay e Argentina. Intanto la leggenda di Garibaldi è gonfiata oltre misura anche da Mazzini, il quale poi lo invita a venire in Italia dove “i tempi dell’azione erano ormai maturi”.

Nel 1848 è pubblicato il “Manifesto Comunista”, elaborato da Marx ed Engels, con il finanziamento dei massoni Clinton Roosevelt e Horace Greely, entrambi membri della Loggia Columbia, fondata a New York dagli Illuminati di Baviera. Successivamente allo stesso Marx, in collaborazione con Mazzini, è dato dagli Illuminati l’incarico di preparare l’indirizzo e la costituzione della “Prima Internazionale” (Comunista).

LE CONGIURE IN ITALIA

La massoneria spinge alcuni affiliati, sovversivi duosiciliani, La Farina e La Masa, a sbarcare il 3 gennaio 1848 a Palermo, dove, è a loro detto, si è costituito un Comitato Rivoluzionario. Questo comitato in realtà non esiste, ma i sovversivi trovano altri massoni, Rosolino Pilo e Francesco Bagnasco, che al loro arrivo mobilitano tutti i loro seguaci per iniziare la rivolta. La Masa, per poter avere l’appoggio delle popolazioni convince il principe Ruggero Settimo a porsi a capo della rivolta per l’indipendenza della Sicilia. Le titubanze del principe sono presto superate quando Lord Minto, con la flotta inglese nella rada del porto di Palermo, gli assicura il suo appoggio. I rivoltosi, poi, certi che il comandante borbonico, il massone De Majo, non avrebbe opposto che una simbolica resistenza, insorgono il 12 gennaio a Palermo, concentrandosi alla Fieravecchia. La gente si chiude nelle case e le botteghe serrano le porte. Le truppe, poiché vi erano stati atroci episodi di violenza e di saccheggi, si rinchiudono nel forte di Castellammare e da lì bombardano gli appostamenti dei rivoltosi.

A Napoli, intanto, le prime notizie sugli avvenimenti di Sicilia incoraggiano i carbonari a nuove azioni dimostrative. Nel Cilento il 18 gennaio sono assassinati alcuni noti personaggi fedeli allo Stato e si verificano numerosi saccheggi. I moti sono rapidamente sedati dalle truppe del colonnello Lahalle, al Re però sono riferiti come fatti gravissimi.

Ferdinando II, allo scopo di evitare altri disordini, e sorprendendo tutti gli altri Stati della penisola, annuncia il 29 gennaio la concessione della Costituzione, ispirata a quella francese del 1830. Poi concede un’amnistia: rientrano così alcuni esuli tra i quali Poerio, Settembrini e Tofano. È convocato il Consiglio di Stato e il Consiglio Militare e si procede poi alla formazione di un nuovo governo. Ne fanno parte il duca di Serracapriola, già ambasciatore a Parigi, e Carlo Poerio. Agli Interni è nominato Francesco Paolo Bozzelli, il più noto avvocato di Napoli che ha il compito di compilare lo schema della costituzione, ed è esonerato da ogni incarico il ministro del Carretto che è stato il più sollecito a consigliare al Re a dare la Costituzione. Tutta la stampa della penisola italiana inneggia a questo provvedimento. Vi è anche uno spettacolo di gala al San Carlo, dove tutti gli spettatori applaudono lungamente al Sovrano.

A Napoli, mentre i carbonari fanno espellere i Gesuiti, l’inglese Palmerston, capo del governo inglese, suggerisce al governo napoletano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia e nello stesso tempo esalta la liberazione d’Italia dagli stranieri. Insomma l’Inghilterra vuole unire l’Italia e separare il Regno, per appropriarsi della Sicilia. L’isola, infatti, dopo l’occupazione francese dell’Algeria e la costituzione di una base navale ad Algeri, è diventata per gli Inglesi interessante per controbilanciare l’accresciuta potenza navale francese nel Mediterraneo.

In Francia, il Re Luigi Filippo d’Orleans, che tenta di ripristinare l’assolutismo per liberarsi del potere massonico di cui è in pratica prigioniero, è accusato di tradimento. Il 24 febbraio una violenta rivolta costringe il sovrano a rifugiarsi in Inghilterra. È proclamata la Seconda Repubblica con un governo provvisorio che approva il suffragio su base censitaria.

In Austria, nel frattempo, i massoni il 13 marzo approfittano per promuovere una grave insurrezione a Vienna, tanto che l’imperatore Ferdinando I è costretto a concedere la costituzione. La setta, tuttavia, continua nei suoi intrighi fomentando disordini in Boemia, in Ungheria e nel Lombardo-Veneto. A Milano, infatti, appena giunta la notizia dell’insurrezione di Vienna, vi è l’episodio delle Cinque Giornate che dura dal 18 al 22 marzo. Anche a Venezia il giorno 17 vi sono delle sommosse, tanto che le truppe austriache sono costrette a rifugiarsi nelle fortezze di Peschiera, Mantova, Legnago e Verona sotto gli ordini di Radetzky.

Insomma si ripete in tutta l’Europa cattolica, tranne cioè nei paesi protestanti, quanto è successo con le rivolte in Sicilia. I massoni (secondo le direttive inglesi) fomentavano le rivolte al solo scopo di sconvolgere l’equilibrio della politica europea ai danni delle potenze conservatrici: Due Sicilie, Austria, Prussia e Russia, garanti dello status quo nato dalla Santa Alleanza.

Così, mentre il Garibaldi, chiamato da Mazzini, parte il 15 marzo da Montevideo, imbarcandosi con 150 uomini sulla nave Speranza, Carlo Alberto, spinto dalla setta, dichiara il 24 marzo la guerra all’Austria. Poi i massoni, con la complicità dei governi liberali, che sono riusciti a insediare negli altri Stati italiani, costringono questi ad inviare dei corpi di spedizione contro l’Austria.

A Roma il 27 venne da Torino il conte Rignon per chiedere al Papa un appoggio materiale e morale per la guerra. Pio IX invia le truppe pontificie al comando del generale Durando e di d’Azeglio, ma con l’ordine di fermarsi sul Po e solo per scopo difensivo. In quanto all’appoggio morale, egli afferma il 29 aprile che non avrebbe mai dichiarato una guerra offensiva.

Il Rignon si reca anche a Napoli, dove già sono all’opera gli arruolamenti di volontari da parte dei liberali. Ferdinando, tuttavia, ha già deciso cosa fare. Egli, infatti, si è reso conto che il movimento, non avendo l’appoggio del popolo, si sarebbe esaurito da solo nelle gravi agitazioni che esso stesso provocava. Concluse che l’unico modo per vincerlo, era quello di accelerarne gli effetti. Dichiara così inaspettatamente il 7 aprile guerra all’Austria e concede 16.000 uomini al comando del generale Guglielmo Pepe, che il 4 maggio parte, anche egli con l’ordine di attestarsi sul Po.

Le truppe piemontesi, che hanno adottato una nuova bandiera con i colori verde, bianco e rosso, colori che identificano la massoneria dell’Emilia, hanno il 30 maggio 1848 un primo successo a Goito contro gli Austriaci, grazie alla resistenza delle truppe duosiciliane e dei volontari toscani che li avevano fermati a Curtatone e a Montanara. Gli Austriaci sono così costretti a ritirarsi verso il quadrilatero, fatto che consente ai liberali l’annessione di Milano ai Savoia e a Venezia la proclamazione della repubblica. Numerose sono le decorazioni e le onorificenze concesse ai Duosiciliani, ma nell’obelisco, eretto nei luoghi della battaglia, vi sono solo i nomi dei toscani, mentre quelli dei Duosiciliani sono deliberatamente omessi.

Ferdinando II, tuttavia, deve richiamare in Patria il corpo di spedizione duosiciliano per ragioni di ordine pubblico. In Calabria, infatti, la massoneria ha fomentato alcune sommosse, approfittando del fatto che l’esercito borbonico è impegnato in Lombardia. La diplomazia inglese, inoltre, spinge il governo rivoluzionario della Sicilia ad offrire la corona al savoiardo duca di Genova, che però declina l’offerta, non sentendosi sicuro di mantenerla.

Il 15 maggio, a Napoli, mentre re e deputati stanno cercando un compromesso, i dimostranti innalzano barricate in tutta la città, da San Nicola alla Carità a San Ferdinando, da Santa Brigida a Chiaia, a San Carlo all’Arena, all’Infrascata, a Castel Capuano, sino all’Ospedale della Pace. Mentre le truppe stanno pacificamente consumando il rancio, stanche per una notte insonne, si sentono alcuni colpi di fucile. In Piazza Mercatello è colpito un graduato del terzo reggimento svizzero. Altri spari colpiscono due soldati che sostano davanti al Palazzo Reale. Dalla barricata posta al termine di via Toledo partono colpi contro la Reggia, mentre il generale Nunziante, Lubrano, Statella e lo svizzero Stockalper sono a colloquio con il re per convincerlo ad agire. Le truppe svizzere rispondono al fuoco. Ferdinando II è incerto perché non vuole far scorrere sangue. Il deputato radicale conte Giuseppe Ricciardi ha fatto acquartierare i ribelli davanti al Palazzo Gravina, da cui sono sparati dei colpi contro le truppe svizzere. Queste allora si lanciano nel cortile del palazzo e, assieme ad un drappello di guardie reali, uccidono chiunque è trovato con le armi. Analoghi scontri avvengono nel resto della città.

Sul Castel Nuovo è issato un drappo rosso che indica che è stato dato l’ordine all’esercito di reagire. Lo stesso drappo è issato sul Castello del Carmine e poi su Sant’Elmo. Davanti alla Reggia sono posizionati due battaglioni della Guardia Reale, un battaglione del 2° reggimento granatieri, un battaglione di zappatori, il 1° reggimento Ussari della Guardia Reale e una batteria a cavallo. Davanti al Castel Nuovo sono schierati due squadroni di lancieri, due compagnie di pontieri e due compagnie di genieri. Al Largo Mercatello, uno squadrone di Dragoni e una compagnia svizzera. A Piazza Mercato, il 2° lancieri. Alla Vicaria, uno squadrone di dragoni con due cannoni. A San Domenico Soriano e a San Potito, il 3° reggimento svizzero. Ai SS. Apostoli il 4° reggimento svizzero. A San Giovanni a Carbonara, il 2° reggimento svizzero. Ai Granili, di riserva, il 1° reggimento granatieri. Sono schierati circa 12.000 uomini con 22 cannoni.

La batteria a cavallo situata davanti la Reggia entra in azione contro la barricata di via Toledo. Alcuni sovversivi fanno fuoco anche dal Palazzo Cirella, posto all’angolo di Via Toledo con S. Ferdinando, impedendo ai granatieri di avanzare, sicché il generale Carrascosa dà ordine di prendere il palazzo che in breve tempo è liberato per opera degli svizzeri comandato da Statella. Intanto gli altri reparti svizzeri di Largo Mercatello si dirigono verso il Museo e poi liberano dalle barricate la Vicaria, Foria, San Carlo all’Arena e Porta Capuana. Il 4° reggimento svizzeri in un attacco allo scoperto è fermato dalla barricata di Santa Brigida, ma è sostituito dal 3° reggimento svizzeri proveniente dal Largo di Castello che assale la barricata alle spalle. Le altre barricate sono assalite dagli altri soldati duosiciliani che lasciano sul terreno diversi caduti. A quel punto allo scopo di evitare altre perdite, le barricate sono spazzate via con le cannonate. Diversi palazzi prendono fuoco. Eliminate le barricate, le truppe setacciano i vicoli e le strade snidando i ribelli. La battaglia dura mezza giornata e alla fine si contano ufficialmente 150 morti, tra militari e civili, e circa 270 feriti.

A questi episodi il popolo non ha partecipato, anzi ha manifestato con molta evidenza il suo attaccamento al governo di Ferdinando. Nelle regioni vi sono alcuni tentativi di manifestazioni, attivate dai soliti sovversivi, che lo stesso popolo reprime.

Queste rivolte sono del tutto incomprensibili: la Costituzione era stata data, il Sovrano aveva giurato, il Parlamento era stato democraticamente costituito e l’esercito duosiciliano aveva anche partecipato alla guerra di liberazione dell’Italia contro l’Austria. Tutto quanto era stato chiesto dai liberali, era stato concesso. Per questi motivi Ferdinando II, avendo compreso che non erano le riforme che in realtà volevano i carbonari, ma solo creare disordini per destabilizzare lo Stato, decide personalmente la formazione del governo e, senza abrogare la costituzione, scioglie la Guardia Nazionale e impone la legge marziale.

In giugno, in esecuzione dell’ordine del Re, tutte le truppe duosiciliane rientrano a Napoli, tranne il traditore Pepe e circa mille soldati che, plagiati dai settari, si recano a Venezia.

Nel frattempo il Garibaldi, dopo essere sbarcato il 21 giugno a Nizza con i suoi avventurieri, si reca il 5 luglio a Roverbella, nei pressi di Mantova, per offrirsi volontario al re Carlo Alberto, che però lo respinge. Allora il nizzardo si reca a Milano, dove il governo provvisorio lombardo, presieduto dal conte massone Casati, lo nomina il 14 luglio generale di brigata.

I piemontesi, tuttavia, senza l’aiuto delle truppe duosiciliane, sono sconfitti a Custoza il 25 luglio dalle poche truppe austriache e sono costretti a firmare con Radetzky l’armistizio a Salasco (9 agosto). Alle battaglie avevano tentato di partecipare anche i volontari di Garibaldi, ma il 4 agosto, senza neanche affrontare le avanguardie austriache incontrate a Merate, i più incominciano a disertare e i rimanenti con Garibaldi, travestito da contadino, riescono a giungere in Svizzera, dove, come sempre, il prudente Mazzini si è già rifugiato . Tranne la città di Venezia, rimasta assediata, tutto il territorio occupato dai savoiardi ritorna all’Austria.

A queste vicende non vi è alcuna partecipazione popolare. Anzi le masse sono per lo più favorevoli agli Austriaci, come dimostrano le gioiose manifestazioni del popolo che, al loro ritorno, aveva gridato “Viva Radetzky” .

A Roma, dopo il fallimento dei tre ministeri e dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi, il 15 novembre, Pio IX si vede costretto a chiamare al potere i democratici Galletti e Sterbini, ma dopo l’uccisione a tradimento, avvenuta nello stesso palazzo del Quirinale, anche del suo prelato domestico monsignor Palma, al Papa non resta altra scelta che abbandonare il 24 novembre Roma, accompagnato da padre Liebel e dai conti Spaur, per rifugiarsi prima ad Ariccia e poi a Gaeta, sotto la protezione di Ferdinando II. Il re invia subito a Gaeta due reggimenti di fanteria per la scorta del Papa e poi si reca nella cittadina.

LA REPUBBLICA ROMANA

A Napoli il 1° febbraio del 1849 sono riaperte le Camere. Nel frattempo erano affluiti a Roma anche Garibaldi e Mazzini, che il 5 febbraio proclamano la «repubblica romana». Il 9 febbraio fu formata l’assemblea costituente che proclamò la repubblica e la fine del Papato.

L’assassinio è l’ordinario espediente della setta per contenere la popolazione col terrore, le cui vittime sono preti, cittadini, e ufficiali. Nessun assassino è punito, nemmeno lo Zambianchi, colonnello delle Guardie di Finanza, che fa uccidere numerosi innocenti nel quartiere di S. Callisto. Anche in Ancona sono commessi degli efferati omicidi, per ordine sempre del sanguinario Mazzini. A questo governo il primo ministro inglese, il massone lord Palmerston, dichiara di essere pronto a portare qualsiasi aiuto.

Il 20 marzo Carlo Alberto, disdetto l’armistizio, attacca nuovamente gli Austriaci, che in soli tre giorni sconfiggono i piemontesi a Novara. Vi è un intervento “moderatore” inglese sull’Austria, che impedisce al generale Radetsky di invadere il Piemonte dopo la vittoria ed induce l’Austria ad accontentarsi di una semplice “indennità di guerra”, pur se di notevole importo per l’epoca: 75 milioni. Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che nomina Presidente dei ministri il massone Massimo d’Azeglio.

A Genova, alla notizia dell’armistizio di Vignale, il popolo si ribella all’opprimente dominazione piemontese e nei tumulti sono uccisi due ufficiali piemontesi. La rivolta è, però, sanguinosamente soffocata il 4 aprile con un feroce e devastante bombardamento della città da parte di La Marmora, che comanda un esercito di sedicimila soldati piemontesi inviati nella città per la repressione. Il bombardamento dura inutilmente tre giorni e causa la morte di 500 genovesi. Seguono poi feroci repressioni e tra i numerosi condannati a morte vi è anche il generale Ramorino, fucilato, come capro espiatorio, il 22 maggio.

Con queste atrocità inizia il suo regno il “re … galantuomo”.

Il Papa, nel frattempo, lancia un appello a tutte le nazioni cattoliche, tranne al Piemonte, per essere restaurato sul trono di Roma. Lo raccoglie per prima la Francia di Luigi Bonaparte, che invia il 25 aprile 1849 un corpo di spedizione a Roma, comandato dal generale Oudinot, dichiarando di voler fare da paciere tra il Papa e il governo rivoluzionario. In realtà Luigi Bonaparte mira ad essere fatto re e voleva, per questo, assicurarsi il favore dei cattolici di Francia, oltre che eliminare l’influenza del repubblicano Mazzini, che con le sue idee contrasta gli accordi con i Savoia. Intanto anche l’Austria e, successivamente, la Spagna, che stava approntando una spedizione navale, avevano raccolto l’appello del Papa. Napoli, pur se ancora alle prese con la riconquista della Sicilia, invia il 28 aprile le poche truppe di cui poteva disporre, ma abbonda di cannoni per dare aiuto ai francesi.

Al rifiuto del Mazzini ad intavolare qualsiasi trattativa, i Francesi attaccano Roma il 30 aprile con seimila uomini, ma a causa della mancanza di artiglieria che non consente loro di superare le grosse mura, si ritirano in attesa dei cannoni. A questa battaglia partecipa, tra i rivoluzionari, anche il massone Carlo Pisacane, disertore dell’Armata duosiciliana. Nei giorni successivi, invece, tra il 7 e 9 maggio, le truppe duosiciliane comandate dal generale Lanza e attestate a Palestrina, sgominano facilmente un attacco di tremila uomini comandati dal massone Luciano Manara.

Intanto in Sicilia, dopo una brillantissima campagna militare, elogiata da tutta la stampa estera, il 14 maggio, fu liberata Palermo ed il Filangieri, comandante della spedizione, come da disposizione reale, promulga l’amnistia per tutti, tranne per i capi della rivolta. Il 15 maggio tutta l’isola è pacificata, esattamente un anno dopo dal giorno della rivolta a Napoli. Alle milizie straniere, polacchi, francesi e nizzardi, che avevano combattuto contro l’esercito duosiciliano è concesso magnanimamente di rimpatriare.

Successivamente, il 17 maggio, si ebbero contrasti con Oudinot, che si opponeva alla presa di Roma mediante l’aiuto di Napoli e dell’Austria, in quanto aveva ricevuto dal Lesseps, deputato dell’Assemblea Nazionale francese, l’ordine di non operare con le truppe del governo duosiciliano e di quello austriaco, considerati reazionari. Tali affermazioni inducono lo sdegnato Ferdinando II a spostare le sue truppe nella campagna romana, nella zona di Velletri. Poiché Oudinot aveva fatto da solo un armistizio con la Repubblica Romana, tutto l’esercito repubblicano, composto da undicimila uomini e dodici cannoni, approfittando della tregua con i Francesi, assale il 19 maggio l’esercito duosiciliano, formato da diecimila uomini e da quattro batterie di artiglieria. Rosselli, che comandava i repubblicani, ritiene di poter assalire con successo i Duosiciliani durante la fase critica del movimento, ma è violentemente respinto ed ha moltissime perdite. Qui c’è anche il Garibaldi che tenta un assalto, ma è sbaragliato dal 2° battaglione cacciatori del maggiore Filippo Colonna e lo stesso Garibaldi, sbalzato da cavallo, si salva a stento.

Il 27 maggio sbarca a Gaeta il contingente spagnolo forte di circa novemila uomini. Cessate le operazioni in Sicilia, sono inviate altre brigate duosiciliane al comando del generale Nunziante, che si unisce il 7 giugno alle truppe spagnole. Mentre Duosiciliani e Spagnoli provvedono a liberare i territori a sud di Roma, proteggendo l’ala destra delle truppe francesi, Oudinot riesce finalmente a entrare in Roma il 3 luglio, ristabilendo il potere temporale del Papa.

Anche questa volta Mazzini e Garibaldi riescono a scappare. Mazzini si rifugia a Londra, mentre Garibaldi, rifugiatosi a S. Marino, dopo aver tentato avventurosamente di raggiungere Venezia, s’imbarca il 16 settembre a Genova per la Tunisia. La sera del 19 settembre 1849 a bordo della regia nave Tripoli, arriva nella rada di Tunisi. Tuttavia questa volta Ahmed Bey si rifiuta di farlo sbarcare e Garibaldi è costretto a lasciare Tunisi il giorno dopo, imbarcandosi su un’altra nave diretta verso gli Stati Uniti d’America.

Ritroviamo poi l’avventuriero il 15 ottobre del 1851, quando gli è affidato da un certo armatore genovese Pietro Denegri il comando della nave Carmen, alla fonda nel porto della Concia (Perù) per il trasporto di schiavi cinesi (coolies) nelle isole Cinchas (Perù), dove esistevano giacimenti di guano (sterco di cormorani). Il Garibaldi successivamente, il 10 gennaio del 1852 si reca, con un carico di quello sterco, a Canton (Cina), da dove riempie la Carmen di schiavi cinesi che scarica nelle isole Cinchas, dove quei poveri coolies erano brutalmente utilizzati per la raccolta del guano.

In seguito viaggia con vari carichi da Lima a Boston, poi da Baltimora a Londra e, infine, dopo essere rimasto alcuni giorni a New York, si reca nel febbraio del 1854 a Londra con la nave Commonwealth. Da Londra il negriero Garibaldi si reca a Newcastle e da qui prosegue per Genova dove giunge il 10 maggio del 1854.

Il Garibaldi, con il denaro ricevuto per il trasporto degli schiavi cinesi, si compra mezza isola di Caprera.

OBIETTIVO: LE DUE SICILIE

Il Piemonte, nel frattempo, inizia a concretizzare un piano politico per la conquista del resto dell’Italia, approfittando della Conferenza per la pace fissata in febbraio del 1856 a Parigi. Il 27 marzo il governo piemontese emette una Nota al governo di Francia ed Inghilterra lamentando una condizione “deplorevole” dello Stato Pontificio e di quello delle Due Sicilie.

L’otto aprile, dieci giorni dopo la firma della pace al Congresso di Parigi, d’accordo con Napoleone III, il Cavour fa sollevare pubblicamente la “questione italiana”, con una feroce accusa fatta fare dal conte Walewsky (figlio bastardo di Napoleone I) contro il Governo duosiciliano e quello del Papa. A tali proclami fa eco, come convenuto, anche il governo di Londra con il Clarendon, che accusa inoltre anche l’Austria di opprimere gli Italiani del Lombardo-Veneto.

Al 20 di aprile, per accentuare le accuse, l’emissario francese e l’ambasciatore inglese Lord Clarendon chiedono al Governo delle Due Sicilie una larga amnistia per i detenuti politici ed una larga riforma giudiziaria. Alla ferma risposta di Ferdinando, che giustamente ritiene la pretesa una illegittima ingerenza nella sovranità di Napoli, i due governi ritirano i propri rappresentanti, Brenier e Temple, che lasciano in seguito Napoli a fine ottobre.

Il 4 maggio vi è un incontro segreto a Parigi tra Cavour e Clarendon per definire l’accordo sulle modalità di invasione delle Due Sicilie. Gli ambasciatori inglesi, James Hudson a Torino e Henry Elliot a Napoli, sono informati dei progetti ed hanno opportune disposizioni per attuarli.

Il 24 maggio gli Austriaci si ritirano dalla Toscana

In luglio il Cavour riarma occultamente l’esercito e il 13 agosto chiama segretamente il Garibaldi a Torino, diventata una vera e propria capitale del terrorismo con circa 30.000 fuorusciti sovversivi di tutti gli Stati. Tra di essi vi sono i massoni La Farina, Paleocapa, Scialoja, De Sanctis, Spaventa, Medici, Pallavicino, Amari, Fanti e Cialdini.

In novembre il Mazzini, a proseguimento dell’azione diplomatica francese ed inglese, dà il via a Palermo ed a Cefalù ad alcune rivolte dimostrative, affidandone l’organizzazione al massone barone Bentivegna. Le rivolte, che causano saccheggi delle casse pubbliche ed assalto alle carceri, si esauriscono praticamente da sole, pur avendo l’appoggio della goletta inglese Wanderer venuta appositamente da Malta.

L’8 dicembre il Mazzini organizza un attentato al Re Ferdinando II, facendone affidare l’incarico a un soldato di origine albanese, arruolato nel 3° battaglione cacciatori, Agesilao Milano. Costui, mentre il Re passa in rivista a cavallo i reggimenti schierati sul campo di Marte a Capodichino, esce dai ranghi e vibra a Ferdinando un colpo di baionetta, che viene deviato però dalla fondina della pistola. Ferdinando, benché ferito, assiste impassibile fino alla fine della sfilata. Il Milano, sottratto a stento dal linciaggio, dopo essere stato processato, è giustiziato il 13 dicembre. Il più accanito sostenitore della pena capitale è il generale massone Alessandro Nunziante, aiutante di campo di Ferdinando II. Il motivo di tanto accanimento sembra sia stato quello di far chiudere per sempre la bocca del regicida, per paura che questi potesse fare delle compromettenti rivelazioni.

Ma il Mazzini non dà tregua al Governo Duosiciliano, organizzando altri attentati. Il 17 dicembre fa esplodere un deposito di polveri situato nell’arsenale a Napoli, ove vi sono diciassette morti. Il 4 gennaio del 1857 fa saltare in aria nel porto di Napoli la fregata a vapore Carlo III, carica di armi e munizioni, causando la morte di trentotto persone.

Tutti questi episodi non hanno altro scopo che quello di provocare la reazione poliziesca da parte del Governo duosiciliano. In tal modo si ha non solo l’opportunità di screditarlo continuamente di fronte all’opinione pubblica mondiale, ma anche di far apparire il Re come un oppressore del popolo.

Il Mazzini, in seguito, spinge il massone Carlo Pisacane, approfittando della sua ingenua ed esaltata personalità, a tentare uno sbarco in Calabria, dove, gli assicura, con la sua sola presenza, si sarebbe scatenata la rivoluzione. Il 25 giugno il Pisacane s’imbarca con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, diretto a Tunisi. Impadronitosi della nave durante la notte, con la complicità dei due macchinisti inglesi, si dirige verso Ponza, dove libera 323 detenuti comuni, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28 sera i congiurati sbarcano a Sapri, ma sono assaliti proprio dalla stessa popolazione, che li costringe alla fuga. Il 1° luglio, a Padula sono circondati e 25 di essi sono massacrati dai contadini. Gli altri sono catturati e consegnati ai gendarmi. Il Pisacane ed il Falcone si suicidano con le loro pistole, mentre quelli scampati all’ira popolare sono poi processati nel gennaio del 1858. Costoro, condannati a morte, sono inopportunamente graziati dal Re, che tramuta la pena in ergastolo. I due inglesi, per intervento del loro governo, sono dichiarati fuori causa per … infermità mentale.

Gli inglesi, dall’insuccesso del Pisacane, si rendono conto che senza una destabilizzazione interna, soprattutto da attuare con la complicità dei vertici civili e militari, mai sarebbe stato possibile la conquista delle Due Sicilie da parte del Piemonte. Garibaldi è convocato in Inghilterra dalla massoneria inglese e, dopo alcuni giorni, parte da Liverpool con il vapore Waterloo, sbarcando a Staten Island il 30 luglio. A New York, città dove avevano trovato rifugio già numerosi mazziniani, si reca subito in casa di Giuseppe Pastacaldi, un livornese legato alle famiglie settarie di Livorno. Dopo due mesi è ospitato in casa di Antonio Meucci (prima che questi inventasse il telefono) e apre una fabbrica di salsicce e poi una di candele allo scopo di mascherare la sua presenza negli U.S.A., che aveva solo lo scopo di ottenere aiuti finanziari e militari dai «fratelli» nord americani.

Il 1° agosto a Torino è fondata la setta carbonara “Società Nazionale”, sotto la presidenza del massone Daniele Manin, che fa capo al siciliano Giuseppe La Farina ed al lombardo marchese Giorgio Pallavicino, ma a reggerne le fila è il Cavour che agisce secondo le direttive inglesi. Essa ha il fine di organizzare segretamente azioni terroristiche e di rivolta. Ad essa aderirono i più noti massoni, tra i quali in seguito anche Garibaldi. I principali comitati sovversivi sono a Torino, Genova, Milano, Venezia, Roma, Firenze, Napoli e Palermo, che dipendono direttamente da Londra e da Parigi. La prima attività, sovvenzionata dagli illimitati fondi massonici, è quella di plasmare l’opinione pubblica attraverso la pubblicazione di menzogne con il fine di screditare i governi d’Austria, del Papa, del Re delle Due Sicilie e degli altri piccoli Stati italiani. I principali giornali massoni europei in questo periodo sono: Siècle, Presse, Messager, Times, Morning-Post, Unione, Independance Belge. Tali menzogne sono ancora oggi riportate in Italia in tutti i libri di storia e fatte studiare come vere.

Nell’anno 1857 in India, dopo che si erano combattute ben otto guerre per impedire il dominio della Compagnia Britannica delle Indie, l’intero popolo indiano si ribella al ferreo dominio inglese. La rivolta è spietatamente soffocata nel sangue: milioni di persone sono barbaramente mutilate, assassinate, giustiziate, massacrate, migliaia di villaggi sono incendiati e rasi al suolo. In Inghilterra chi decideva queste atrocità era Lord Palmerston, diventato primo ministro, mentre ministro degli esteri era John Russell e ministro per le colonie Bulwer Lytton (autore del famoso romanzo “Gli ultimi giorni di Pompei” e che aveva rilanciato il culto di Iside “come supporto ideologico della diffusione della droga”). Il Palmerston in quel periodo aveva organizzato una serie di associazioni segrete e di banche che basavano la loro fortuna su operazioni finanziarie illegali, sul traffico dell’oro, di diamanti e di stupefacenti.

Mentre l’Inghilterra “pacifica” l’India, continuando a vendere l’oppio ai cinesi, la Francia occupa Saigon in Indocina. L’India, che prima dell’occupazione inglese era ricca di industrie e di derrate agricole, con un attivissimo commercio, cade in uno stato di profonda prostrazione economica. La Compagnia inglese delle Indie Orientali, infatti, apporta un devastante capovolgimento nelle condizioni economiche di quel paese con la monopolizzazione del commercio, con il divieto delle industrie e con il fissare d’autorità il prezzo di vendita delle derrate agricole, tanto che la miseria dilaga in quelle campagne un tempo felici.

Il Mazzini, intanto, dopo aver diabolicamente plagiati i suoi affiliati, non sempre riesce a controllarli. Esemplare è il caso dell’Orsini, anche lui carbonaro reduce dai moti di Roma del 1848. Costui, infatti, convinto nella sua esaltazione che l’artefice della perdita della Repubblica Romana è Napoleone III, la sera del 14 gennaio 1858 lancia, insieme ad altri tre complici, tre bombe sotto la carrozza dell’imperatore e dell’imperatrice Eugenia, che si recavano all’Opera. I sovrani rimangono incolumi. Gli scoppi provocano però 8 morti e 150 feriti tra la gente. Tra i complici di Orsini vi è anche un sovversivo siciliano, il massone Francesco Crispi, anche lui in possesso di bombe per l’attentato, ma che non è scoperto. Il Cavour, consultatosi rapidamente con Napoleone III, fa scrivere una lettera nobilissima che è attribuita fraudolentemente all’Orsini. Nella lettera, appositamente diffusa in migliaia di copie quale testamento del condannato a morte, costui chiede all’imperatore di aiutare l’Italia a liberarsi dagli stranieri. I due compari, il Cavour e Napoleone III, il 13 marzo, si liberano definitivamente dello scomodo Orsini, facendolo cinicamente ghigliottinare in maniera spettacolare.

Il 23 aprile 1859 l’Austria intima al Piemonte il disarmo immediato dell’esercito piemontese, schierato provocatoriamente lungo le frontiere. L’arrivo il 26 aprile (e quindi già predisposto) delle forze francesi in Piemonte costringe l’Austria a varcare il 29 aprile il Ticino con un suo esercito, comandato dal generale Gyulai, in modo da attaccare i piemontesi prima che i due eserciti si congiungano.

Ferdinando II dichiara neutrale il Regno.

Intanto i sovversivi si scatenano il 26 aprile in Toscana, ove scacciano da Firenze Leopoldo II. Il Piemonte ne approfitta subito per inviarvi un commissario, il massone Bettino Ricasoli, per “ristabilire” l’ordine e per rapinare le casse pubbliche di 56 milioni, che sono inviati in Piemonte “per sostenere la causa italiana”.

Il 20 maggio vi è un primo scontro a Montebello tra Austriaci ed i Franco-piemontesi. Dopo la sconfitta di Gyulay il 30 maggio a Palestro, il 4 giugno gli Austriaci sono sconfitti dai Francesi anche a Magenta e si ritirano nel Veneto. Le truppe e il comando piemontese durante la battaglia si trovano a 12 chilometri di distanza dagli avvenimenti e non hanno nemmeno un ferito. L’8 giugno i Franco-piemontesi occupano Milano. Il Garibaldi, intanto, rientrato dagli U.S.A, dove è riuscito a trovare gli aiuti richiesti, e fatto generale dal re Vittorio, cala verso Bergamo con le sue bande di tremila volontari chiamati “cacciatori delle Alpi”.

L’11 giugno, organizzate dal Piemonte, scoppiano alcune rivolte a Fano, Senigallia, Faenza e Ferrara ad opera dei settari locali massoni che aiutano carabinieri piemontesi in borghese. Il 12 a Bologna, Ravenna, Imola e Perugia. La pronta reazione delle guardie e del popolo, però, mette in fuga i sovversivi verso la Toscana.

Il 16 giugno a Napoli il Filangieri, insensatamente, concede una larga amnistia, facendo rientrare nel Regno circa 200 dei più accaniti cospiratori, che non perdono tempo a tessere le loro trame di destabilizzazione.

Intanto la guerra tra l’Austria ed i Franco-piemontesi continua fino all’episodio delle vittorie dei Francesi (non delle sconclusionate truppe piemontesi come falsamente sostiene l’agiografia savoiarda) il 24 giugno a S. Martino e Solferino. Inaspettatamente, però, senza badare al Cavour, Napoleone III firma un armistizio con l’Austria l’11 luglio a Villafranca, probabilmente perché teme un’invasione dalla Prussia, ma anche perché la Francia non ha alcun interesse alla creazione di un forte regno ai suoi confini. L’Austria, mantenendo tuttavia il possesso del Veneto, cede la Lombardia alla Francia che dovrà cederla al Piemonte. Alla Francia il Piemonte rimborsa una parte delle spese di guerra di circa 50 milioni di franchi.

Nello stesso luglio i piemontesi inviano due reggimenti di bersaglieri ed altri “volontari” al comando di d’Azeglio nelle Romagne, ove occupano Bologna, Ravenna, Forlì e Ferrara, non prese con le rivolte. Anche qui vi sono le solite rapine ed è dichiarato decaduto il potere del Papa. Il commissario piemontese Paoli si appropria personalmente di 13 milioni di lire.

Pio IX invia numerose proteste alle potenze europee, chiedendo la nullità degli atti dell’Assemblea Nazionale costituita a Bologna e presieduta da Minghetti, ma rimane inascoltato. In Francia, tuttavia, la reazione dei cattolici è abbastanza forte da indurre Napoleone III a proporre a Vittorio Emanuele la creazione di una confederazione italiana presieduta dal Pontefice.

Il 7 luglio, intanto, avviene in Napoli una rivolta di circa 300 soldati svizzeri appartenenti al 3° e 4° reggimento. La rivolta è rapidamente sedata dagli stessi svizzeri rimasti fedeli. Addosso ai morti ed ai prigionieri sono trovate moltissime monete d’oro. Dalle indagini risulta che sono stati sobillati da emissari piemontesi allo scopo di far mancare la fiducia del Re su questi reggimenti. Contemporaneamente il Cavour fa pressioni sul governo svizzero per il ritiro da Napoli di quelle truppe. Il Filangieri approfitta dell’incidente e fa sciogliere quel corpo militare che sicuramente è la maggior forza operativa dell’Armata Duosiciliana.

In agosto carabinieri piemontesi travestiti sollevano altre sommosse a Modena e a Parma, costringendo alla fuga Francesco IV e Maria Luisa Borbone. Nelle due città si ripetono le stesse atrocità e ladrocini commessi in Toscana. Anche qui prontamente “l’accorto” Cavour invia rapaci commissari. A Modena arriva il Farini, che non solo si appropria della cassa e degli oggetti preziosi, ma finanche dei vestiti del duca. A Parma sono compiuti anche feroci delitti. Nelle due città in pochi giorni sono dilapidati circa 10 milioni di lire. Tutto quanto è di metallo prezioso è fuso e trasformato in lingotti. La spia piemontese Antonio Curletti, che era stato incaricato dell’operazione, dice che non sapeva quale fine avevano fatto quei lingotti, ma i savoiardi accusano i sovrani scacciati di essere scappati via … con l’argenteria e i tesori di Stato.

In settembre è costituita una lega, con a capo Farini, Garibaldi e Fanti, per organizzare un plebiscito truccato in Toscana, Modena, Parma e nelle Romagne per l’annessione al Piemonte. Il Papa protesta, ma le truppe francesi, che sono nello Stato Pontificio per “proteggerlo”, non si muovono.

A Palermo, il 27 novembre, è accoltellato il responsabile della polizia per la Sicilia, Salvatore Maniscalco, uomo temutissimo e rispettato da tutti. L’attentatore, un tale mafioso Vito Farina, trovato con seicento ducati d’oro, aveva tentato di eliminare il principale ostacolo ai preparativi per l’invasione garibaldina. Gli inglesi avevano trovato, dunque, i loro alleati in terra siciliana.

Il 5 gennaio 1860 Garibaldi, con il consenso del governo piemontese, dà incarico ai massoni Giuseppe Finzi ed Enrico Besana di organizzare una raccolta di fondi per un milione di fucili. è raccolta la somma di oltre due milioni di lire soprattutto presso la borghesia piemontese, interessata al mercato e alle ricchezze delle terre duosiciliane. Il materiale bellico acquistato è sistemato nella caserma S. Teresa di Milano.

Il 24 gennaio Garibaldi, appena sposato con la contessina Giuseppina Raimondi, è informato subito dopo la cerimonia dal conte Giulio Porro Lambertenghi che la contessina è incinta per opera del garibaldino Luigi Càroli. L’ «eroe», che aveva deciso di sposarsi per “riparare” una “sua” presunta paternità, avuta conferma, dalla stessa sposina, di essere stato cornificato, se ne scappa immediatamente a Genova.

Il cornuto Garibaldi, di bassa statura e con le gambe arcuate, è pieno di reumatismi e per salire a cavallo ha bisogno dell’aiuto di due persone che lo sollevino.

Il giorno 11 marzo si hanno le farse dei plebisciti truccati in Emilia ed in Toscana, che sono ufficialmente annesse al Piemonte. Le Romagne erano state già annesse con l’occupazione militare, nonostante la protesta del Papa, al quale è proposto da Napoleone III di prendere in cambio … gli Abruzzi, che sono territorio duosiciliano.

Il Filangieri chiede le dimissioni proprio l’11 marzo e Francesco II lo sostituisce con il principe di Cassaro, che ha ottant’anni, il quale nomina ministro della Guerra il generale Winspeare che ne ha ottantadue.

Napoleone III, intanto, propone a Francesco II, che risponde negativamente, di sostituire le truppe francesi con truppe duosiciliane per la difesa del Papa, forse per sguarnire di soldati il territorio nazionale. Lo stesso Napoleone III mantiene 50.000 uomini in Lombardia per costringere il Piemonte a cedere Nizza e Savoia, che sono poi annesse alla Francia il successivo 24 marzo.

In questo giorno, infatti, a seguito degli accordi segreti tra i due governi, sono indetti plebisciti a Nizza e in Savoia per l’approvazione, da parte del popolo, dell’annessione alla Francia. Il giorno precedente le truppe francesi erano state fatte entrare nelle province per il “controllo” delle elezioni che, abilmente manipolate, risultano favorevoli all’annessione. Nei bandi per le elezioni, per ancor più suggestionare il popolo, la parola “annessione” era stata sostituita con la parola «riunione».

L’INVASIONE

Nel frattempo il Garibaldi si incontra a Genova con Gerolamo Bixio, detto Nino, iscritto con tessera numero 105 alla loggia massonica “Trionfo Ligure”, con l’avvocato massone Francesco Crispi, e con numerosi altri avventurieri, con i quali incominciano a progettare l’invasione della Sicilia con l’aiuto inglese. L’Inghilterra, infatti, ha vari motivi per eliminare il governo borbonico: un primo motivo, l’eccessiva fede cattolica di quel governo, così fedele al papa; poi, la continua persecuzione contro le sette massoniche ed, infine, forse, il più importante motivo, essa vedeva con apprensione l’avvicinamento della politica duosiciliana all’impero russo che premeva per avere uno sbocco nel Mediterraneo. La situazione politica, infatti, stava cambiando anche per la prossima apertura del canale di Suez e i porti duosiciliani avrebbero avuto una posizione strategica, tenuto conto anche del fatto che gli inglesi avevano dei forti interessi in Sicilia, non ultimi quelli riguardanti l’estrazione dello zolfo. Marsala sembrava quasi una colonia inglese, tanto che la popolazione inglese era più numerosa di quella locale.

Garibaldi, infatti, riceve dai massoni inglesi di Edimburgo denaro in piastre turche, pari a una somma equivalente a circa 3 milioni di franchi (che riferito ad oggi avrebbero un valore di molti milioni di euro). A quella somma avevano contribuito anche i massoni degli U.S.A e quelli del Canada. L’oro era custodito dal massone Ippolito Nievo e doveva servire per “convertire” i personaggi più influenti alla causa carbonara.

Il 10 aprile a Messina, complice l’intendente traditore Artale, sbarcano Rosolino Pilo, Giovanni Corrao e, poco dopo, il massone Francesco Crispi per “ammorbidire” le reazioni al prossimo sbarco di Garibaldi. I congiurati si recano presso i capi della delinquenza locale di Carini, Cinisi, Terrasini, Montelepre, S. Cippirello, S. Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, Corleone, Partinico, Alcamo, Castellammare del Golfo e Trapani. In questi paesi si accordarono con “i picciotti” perché accorressero spontaneamente a dare una mano alle camicie rosse dopo lo sbarco. Il 13 aprile vi sono altri moti insurrezionali nelle campagne palermitane per preparare favorevolmente la popolazione all’arrivo di Garibaldi.

Il 6 maggio Garibaldi parte con 1.089 avventurieri da Quarto sui vapori Piemonte e Lombardo, concessi dal procuratore della compagnia Rubattino, il massone G.B. Fauché, affiliato alla loggia “Trionfo Ligure” di Genova. Le due navi erano state acquistate con un regolare atto segreto stipulato a Torino la sera del 4 maggio alla presenza del notaio Gioachino Vincenzo Baldioli tra Rubattino, venditore, e Giacomo Medici in rappresentanza di Garibaldi, acquirente. Garanti del debito furono il re Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour per il successivo pagamento, come da accordi avvenuti il giorno prima a Modena con Rubattino, presenti anche l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi e che avevano avuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza Politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio. La spedizione è, dunque, organizzata consapevolmente e responsabilmente dal governo piemontese.

I “mille” provengono per la metà dal Lombardo-Veneto, poi, in ordine decrescente, vi sono toscani, parmensi, modenesi; tra costoro vi sono 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti. Quasi tutti stanno scappando da qualcuno o da qualcosa, spinti soltanto dal desiderio di avventura.

Il giorno 7 Garibaldi arriva nel porto di Talamone, vicino Orbetello, dove è rifornito dalle truppe piemontesi, comandate dal maggiore Giorgini, di 4 cannoni, fucili e centomila proiettili. Sbarcano anche 230 uomini, comandati da Zambianchi, con il compito di promuovere una sommossa negli Abruzzi, ma subito dopo Orvieto, a Grotte di Castro, sono messi in fuga dai decisi gendarmi papalini. L’8 maggio Garibaldi è costretto a ordinare che tutti rimangano a bordo, dopo gli episodi di saccheggi e violenze che i garibaldini avevano fatto in Talamone. Successivamente, dopo aver imbarcato circa 2.000 “disertori” piemontesi, carbone e altre armi a Orbetello, scortato dalle navi piemontesi, riparte il 9 maggio e sbarca a Marsala il giorno 11.

Le due navi garibaldine sono avvistate con “ritardo” dalle navi duosiciliane. Sono in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il brigantino Valoroso, la fregata a vela Partenope ed il vapore armato Capri. Avvistano i garibaldini la Stromboli e il Capri. Quest’ultima è comandata dal capitano Marino Caracciolo che, volutamente, senza impedire lo sbarco, aspetta le evoluzioni delle cannoniere inglesi Argus (comandata dal capitano Winnington-Inghram) e Intrepid (comandata dal capitano Marryat), che sono nel porto per proteggere i garibaldini.

Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, è affondato a cannonate, mentre il Piemonte, arenato per permettere più velocemente lo sbarco, è catturato e rimorchiato inutilmente a Napoli.

LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI

Il giorno 13 Garibaldi, entrato in Salemi, dove il barone Sant’Anna ha affiancato i suoi “picciotti” all’orda garibaldina, si proclama dittatore della Sicilia.

Nel frattempo il governatore Castelcicala spinge all’azione le forze duosiciliane, comandate dal generale Landi. Costui, con circa tremila uomini ai suoi ordini, invia da Alcamo il giorno 14 un solo battaglione verso Calatafimi, con l’ordine di non attaccare il nemico e, se attaccato, di … ritirarsi.

Il maggiore Sforza, comandante dell’8° Cacciatori, con sole quattro compagnie, incontra il giorno 15 i garibaldini e non può fare a meno di assalirli. I garibaldini, che hanno trenta morti, sono sgominati e tentano di rifugiarsi sulle colline, ove sono inseguiti dallo Sforza. In quel mentre il generale Landi, invece di inviare altre forze per il completamento del successo, ordina la ritirata senza neanche avvisare lo Sforza, il quale avendo terminate le munizioni è costretto a riportare i suoi verso il grosso che si stava incredibilmente allontanando. Ne segue un caos indescrivibile, un po’ perché la truppa non riesce a capire il motivo della ritirata, un po’ perché qualche sfrontato garibaldino, tornato indietro, si è messo a sparare sulla retroguardia duosiciliana.

Il giorno 17 il Landi, dopo aver fatto fare inutili giri alle sue truppe, si ritira incomprensibilmente in Palermo. Ad Alcara Li Fusi i sovversivi scatenano una violenta rivolta, durante la quale sono depredati ed assassinati molti civili. Garibaldi, per scopi demagogici e per calmare la situazione, decreta l’abolizione della tassa sul macinato e sui dazi.

Il comportamento del Landi diventa comprensibilissimo, quando si scopre che aveva ricevuto dagli emissari carbonari una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. La cosa più incredibile è che al Landi non è mosso alcun rilievo ed è solo sostituito nel comando dal generale Lanza.

L’INGRESSO A PALERMO

Il porto di Palermo, intanto, si affolla di navi straniere, tra cui il vascello inglese Annibal che arriva il giorno 20 con a bordo l’ammiraglio Rodney Mundy. Questi ha molti colloqui con il Lanza nei giorni successivi. Lo stesso giorno Garibaldi istituiva il “Comitato per il sequestro dei fondi per le esattorie” a cui avrebbero dovuto far capo tutte le confische di denaro necessario per alimentare le sue bande.

Nel frattempo i continui solleciti di Francesco II per assaltare gli invasori costringono il Lanza all’azione. Invia il giorno 21 due colonne militari, una formata dal 3° battaglione estero, comandata dal maggiore Von Meckel, e l’altra formata dal 9° Cacciatori, comandata dal maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco, per un totale di tremila uomini e quattro obici da montagna.

Un primo scontro avviene verso Partinico, ove circa mille filibustieri sono rapidamente messi in fuga dal Meckel. In questo scontro muore Rosolino Pilo. Il resto delle bande garibaldine, con lo stesso Garibaldi, si rifugia sul monte Calvario, due miglia sopra il Parco, ove si trincera. Il Meckel invece di attaccare subito, aspetta inopinatamente per due giorni l’arrivo d’altre truppe, chieste al Lanza, per circondare completamente i ribelli. Arrivano, invece, e solo il giorno 23, appena due battaglioni al comando del colonnello Filippo Colonna.

Il giorno successivo, al primo attacco dei duosiciliani, le orde del Türr si sbandano e Garibaldi, quasi circondato, fugge fortunosamente nella notte con il resto verso Corleone.

I garibaldini poi si dividono in due gruppi al quadrivio di Ficuzza, uno con il Garibaldi si dirige per Palermo, ove sarebbero sicuramente protetti dal Lanza e dalle predisposte sommosse carbonare, l’altro al comando di Orsini prende la strada per Corleone. I reparti di Von Meckel inseguono Garibaldi, mentre le truppe di Bosco inseguono l’Orsini.

L’Orsini si è attestato con i suoi a Corleone, ove è immediatamente investito dal Bosco che, con un rapido e violento assalto, disintegra le bande, eliminandole definitivamente dalle operazioni belliche. Il Meckel, intanto, ha inviato velocemente parte delle sue truppe con il Colonna a posizionarsi al ponte delle Teste, poco fuori Palermo, per tagliare la strada ai filibustieri.

A Palermo, il Lanza, che ha lasciate a bella posta praticamente sguarnite le porte S. Antonino e Termini, ordina al Colonna, che non ha ancora fatto in tempo a posizionarsi, di entrare in città e di acquartierarsi, cosicché quegli ingressi rimangono difesi solo da 260 reclute.

Garibaldi, rinforzate le sue bande con altri tremila e cinquecento uomini raccolti nella delinquenza siciliana, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio assale Palermo proprio attraverso la porta S. Antonino, prevalendo facilmente sulle poche truppe. Il quel momento il Lanza dispone di circa sedicimila uomini, i quali su suo ordine sono stati rinchiusi nei forti di Quattroventi, Palazzo, Castellammare e Finanze.

All’ingresso dei garibaldini nella città, le truppe duosiciliane, invece di essere impiegate a massa, sono adoperate in piccoli gruppi che sono facilmente sopraffatti, anche perché disturbati dal cecchinaggio dei prezzolati sovversivi palermitani.

L’ARMATA DI MARE DELLE DUE SICILIE

Nel porto di Palermo in questi giorni l’Armata di Mare Duosiciliana è formata da quattro fregate a vapore ed una a vela in prima fila; in seconda fila una corvetta a vapore, tre avvisi ed una pirofregata con tre vapori armati; in terza fila dodici bastimenti mercantili.

All’alba del 28 da Napoli giungono in rada il 1° ed il 2° battaglione esteri inviati da Re Francesco II, a seguito di richiesta dello stesso Lanza. Le truppe sono già pronte per entrare in azione, ma il Lanza le lascia incredibilmente sui bastimenti fino al giorno 29, quando dà ordine di farle sbarcare e di rinserrarle nel palazzo reale. Nel frattempo a tarda sera del 28 arriva il grosso delle truppe del Von Meckel a Villabate, tre miglia distante da Palermo.

Per tutta la giornata del 28, la pirofregata Ercole, comandata dal capitano di fregata Carlo Flores, bombarda la città con i suoi obici paixhans calibro 68, provocando inutili danni. Il giorno 29 vi è anche una ribellione da parte dei cittadini di Biancavilla contro i soprusi dei garibaldini che si sono acquartierati nella cittadina.

L’Armata di Mare collabora, in modo del tutto inefficace, con le forze di terra, limitandosi a scortare i convogli e a trasferire le truppe da un porto all’altro. Gli ufficiali sono ormai quasi tutti votati al tradimento, mentre i marinai nella stragrande maggioranza sono rimasti fedeli alla Patria. Nel porto vi sono anche navi piemontesi che impunemente riforniscono i garibaldini di armi e munizioni. Garibaldi, praticamente indisturbato, s’impossessa del palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. Poi libera circa mille delinquenti comuni dal carcere della Vicaria e dal Bagno dei condannati, aggregandoli alle sue bande che assommano ora a circa cinquemila persone.

VON MECKEL ATTACCA PALERMO

Le truppe del Von Meckel, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccano i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontrano. L’irruenza del comandante svizzero è tale che arriva rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accinge ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva più vie di scampo, arrivano i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché … era stato fatto un armistizio. La rabbia dei soldati è tale che vi sono episodi di disobbedienza con il proposito di combattere comunque nella notte, ma sono fermati dal colonnello Buonopane per il fatto che “non era finita la tregua” .

Il Garibaldi e il Türr, insieme agli emissari borbonici Letizia e Chretien, si recano il 31 maggio sul vascello inglese Annibal, ove, presenti anche ufficiali americani, concludono i patti dell’armistizio. Il Garibaldi, il giorno dopo, annuncia boriosamente che ha concesso la tregua per umanità. Tra gli accordi, però, poneva come condizione che fosse consegnato al Crispi il denaro del Banco delle Due Sicilie di Palermo e scambiati i prigionieri. I garibaldini si impossessano così di oltre cinque milioni di ducati in oro e argento. Tale somma, che successivamente sarà impiegata in parte per la “conversione” di altri ufficiali duosiciliani, è distribuita ai garibaldini, compresi i capi.

SCONTRI A CATANIA

Il 31 maggio a Catania, i garibaldini, dopo aver fatte molte barricate, assalgono anche alcuni soldati. Comandante di tutte le truppe duosiciliane concentrate a Messina è il maresciallo Clary, il quale, tuttavia, ha le mani legate perché ha avuto l’ordine dal ministro Pianell di stipulare una convenzione con Garibaldi per l’abbandono della Sicilia da parte di tutte le truppe.

All’inazione del Clary, reagisce di sua iniziativa il tenente colonnello Ruiz de Ballestreros che in sole sette ore sgomina i banditi, liberando Catania. Il giorno successivo, tuttavia, il Clary fa sgombrare senza motivo la città, portando tutte le truppe verso Messina, unitamente ai rinforzi comandati da Afan de Rivera. In Sicilia le truppe borboniche presidiano in pratica soltanto Siracusa, Augusta, Milazzo e Messina. A Catania i garibaldini, entrati nelle casse comunali, s’impossessano di 16.300 once d’oro, una vera fortuna.

NUOVI SBARCHI PIEMONTESI

Il 1° giugno la nave piemontese Governolo sbarca a Messina altri agitatori con il compito di organizzare una rivolta antiborbonica sulle due sponde dello stretto. Lo stesso giorno arriva a Marsala il vapore Utile partito da Genova con un carico di circa 5.000 fucili e relative munizioni. Questo stesso vapore, rientrato a Genova, riparte il giorno 9 avendo a rimorchio il clipper nordamericano Charles & Jane con a bordo 930 “volontari” del Medici. Alla sera del 10 le navi sono intercettate dalla pirofregata borbonica Fulminante che li rimorchia a Gaeta, dove arriva il giorno 11. Il rapido e deciso intervento del console U.S.A. a Napoli, Joseph Chandler, fa liberare le navi, che successivamente sono condotte a Genova. Questi “volontari” ripartono poi per la Sicilia il 14 luglio con la nave Amazon.

Tutti quelli che venivano chiamati “volontari”, erano in realtà soldati piemontesi ufficialmente fatti congedare o disertare, come si rileva dalla circolare nr. 40 del Giornale Militare del Piemonte del 12.8.1861 (per i “volontari”) e dalla Nota nr. 159 del G. M. del 5.9.1861 (per i “disertori”), le quali prescrivevano per essi l’iscrizione a matricola della “campagna dell’Italia meridionale 1860 in Sicilia e nel Napoletano”. I “disertori”, inoltre, vennero in seguito amnistiati “opportunamente” con decreto reale del 29.11.1860.

Ai primi di giugno Garibaldi invia a Marsiglia Paolo Orlando e Giuseppe Finzi per l’acquisto di tre vapori ribattezzandoli Washington, Oregon e Franklin, sotto bandiera americana. Il contratto d’acquisto è perfezionato l’8 giugno a Genova presso il console americano W.L. Patterson e vi figura acquirente un cittadino U.S.A., William de Rohan, che paga il prezzo in buoni del tesoro piemontesi, coperti da una parte dell’oro rapinato in Sicilia e inviato a Torino.

Il 2 giugno Garibaldi emana un decreto con il quale autorizza la divisione delle terre demaniali, assegnandone la maggior parte ai combattenti garibaldini, cioè ai Siciliani che si arruolano con lui.

Il 4 giugno sono assassinati i capi della rivolta antigaribaldina scoppiata a Biancavilla con la farsa di un processo popolare.

L’ARMATA ABBANDONA PALERMO

L’8 giugno le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciano Palermo per recarsi ai Quattroventi per imbarcarsi, tra lo stupore della popolazione che non riusciva a capire come un esercito così numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpreta un soldato dell’8° di linea che, al passaggio a cavallo di Lanza, esce dalle file e gli dice “Eccellé, o’ vvì quante simme. E ce n’avimma î accussì?” Ed il Lanza gli risponde “Va via, ubriaco!”.

Mentre l’Armata Napoletana procede alle operazioni d’imbarco, la Washington e l’Oregon partono il 10 giugno da Cornigliano, imbarcando circa 2.000 uomini comandati dal Medici, ed arrivano il 17 a Castellammare del Golfo. L’altra nave, la Franklin, imbarca a Livorno 838 “volontari” comandati da Malencini, sbarcandoli a Favarotta qualche giorno dopo.

Il 13 giugno il Garibaldi scioglie alcune squadre di volontari siciliani, i quali, resisi conto che è per l’annessione al Piemonte, e non per l’indipendenza della Sicilia, il motivo per cui combattevano, avevano incominciato a ribellarsi.

Intanto il nizzardo è accettato nella Loggia massonica di Palermo ed in seguito elevato al grado di Maestro e poi di Gran Maestro.

MASSACRI E SACCHEGGI A PALERMO

Il 16 giugno è il giorno più atroce per Palermo, dove Garibaldi dà carta bianca alle sue orde che commettono violenze, stupri e saccheggi d’ogni genere. Moltissimi poliziotti e le loro famiglie sono assassinati in modo veramente barbaro e sotto gli occhi dell’indifferente e del tutto consenziente Garibaldi. Il 19 giugno terminano le operazioni d’imbarco delle truppe borboniche che arrivano nel golfo di Napoli il 20. Il Lanza con il suo Stato Maggiore, per ordine del Re, è posto agli arresti e confinato ad Ischia per essere sottoposto a giudizio da una commissione militare.

Garibaldi, nel frattempo, formato un governo siciliano, ordina l’emissione di altri buoni del tesoro per quattrocentomila ducati, portando il debito pubblico siciliano a circa sedici milioni di ducati. Sono confiscati tutti i beni ed il danaro del clero, in particolare dei Gesuiti che sono espulsi.

Nel frattempo, l’accozzaglia di gente al seguito del Garibaldi continua a scatenarsi con delitti, saccheggi e stupri. Veramente atroci quelli commessi da un certo Mele e dal La Porta, che Garibaldi ha addirittura nominato ministro della sicurezza pubblica.

LA LEGIONE STRANIERA GARIBALDESCA

Sono arruolati numerosi avventurieri francesi, inglesi, tedeschi, ungheresi, polacchi, americani e perfino africani, insomma la feccia giunta da tutte le nazioni. Numerose, infatti, sono le presenze straniere al servizio della spedizione dei Mille, anche queste spesso volutamente dimenticate dalla storia ufficiale e dai testi scolastici.

Inglese è il colonnello Giovanni Dunn, così come inglesi sono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendolo sottacere, trasforma nell’italiano Specchi).

Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody, Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La legione ungherese divenne preziosa per l’occupazione della Sicilia e per tante battaglie.

La “forza” dei “volontari” polacchi ha due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i turchi vi è anche il famoso avventuriero Kadir Bey. Fra i bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza vi è Wolff, al qualeè affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone.

Vi è pure l’apporto di battaglioni di algerini (Zwavi) e di Indiani, messi a disposizione di Garibaldi dal Governo di Sua Maestà britannica.

FRANCESCO II RIPRISTINA LA COSTITUZIONE

A Napoli, il Re Francesco II, fraudolentemente consigliato, decreta a Portici il 25 giugno il ripristino della Costituzione del 1848, con ampia amnistia. Tra i consiglieri favorevoli alla concessione vi sono il Conte d’Aquila e il Conte di Siracusa, zii del Re, che hanno avuto tali suggerimenti da Napoleone III a seguito della missione diplomatica di Giacomo De Martino a Parigi. I contrari sono i ministri Troja, Scorza e Carrascosa. Quest’ultimo anzi afferma che: “la Costituzione sarà la tomba della Monarchia”.

In occasione del ripristino della Costituzione queste sono le parole di Francesco II: “Desiderando dare a’ Nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra Sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno, in armonia co’ principii italiani e nazionali in modo da garentire la sicurezza e la prosperità in avvenire, e da stringere sempre più i legami che Ci uniscono a’ popoli che la Provvidenza Ci ha chiamati a governare”. Ma la concessione della costituzione è veramente inopportuna in questo frangente, perché contribuisce a creare ancora più disordine, in quanto permette a molti pericolosissimi fuoriusciti di rientrare nel Regno e di occupare molti incarichi importanti nell’amministrazione del governo.

In questi momenti l’avvocato Liborio Romano s’incontra a Napoli nel Palazzo Salza, alla Riviera, con il conte Brenier console francese a Napoli.

Il 26 giugno, ancora su consiglio del suo governo, il giovane Re Francesco II stabilisce che la nuova bandiera nazionale sia quella tricolore, rossa, bianca e verde, conservando nel mezzo le armi della dinastia borbonica.

Nel frattempo, ad iniziare proprio dal 26 giugno, partono da Genova, La Spezia e Livorno per la Sicilia numerose navi, con una media di una ogni tre giorni, che fino al 21 agosto trasportano in Sicilia altri 21.000 “volontari” piemontesi.

NASCITA DELLA CAMORRA DI STATO

Francesco II il 27 giugno nomina Capo del Governo Antonio Spinelli, che dà l’incarico di prefetto di polizia al leccese Liborio Romano, già in combutta con la camorra per preparare l’ingresso di Garibaldi in Napoli, così come è avvenuto a Palermo con l’aiuto della delinquenza locale.

Proprio con l’invasione piemontese la delinquenza fa un salto di qualità, trovando terreno fertile nell’alleanza con la nuova classe politica che si afferma soprattutto attraverso le speculazioni. Il conte d’Aquila è nominato comandante supremo dell’Armata di Mare. Il Ministero della guerra, a cui era preposto l’onesto e anziano Ritucci, è affidato al generale Giuseppe Salvatore Pianell, che lascia il Comando Territoriale degli Abruzzi al generale De Benedictis.

Per effetto del ripristino della costituzione, il 1° luglio sono nominati in ogni provincia nuovi intendenti, quasi tutti massoni .

Il Cavour, intanto, allo scopo di intavolare defatiganti trattative con il governo borbonico, invia a Napoli il diplomatico Visconti Venosta. Subito dopo, il 3 luglio, si hanno le prime manifestazioni contro i “galantuomini” e la guardia nazionale a Salerno e ad Avellino, dove significativamente il popolo manifesta al grido di “Viva ‘o Rre Francesco” contro la costituzione.

Per lo stesso motivo anche a Vasto si hanno violente sommosse da parte di alcune centinaia di contadini armati di sole falci.

IL TRADIMENTO DELL’ARMATA DI MARE

Il giorno 5 luglio il capitano di fregata Amilcare Anguissola, al ritorno da una missione per il trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da Messina a Milazzo, invece di rientrare a Messina, prosegue per Palermo, dove consegna la pirofregata Veloce al contrammiraglio piemontese Carlo Pellion di Persano. Questi la cede a Garibaldi, che la fa ribattezzare Tuckery, ma su 144 uomini di equipaggio i traditori che aderiscono ai garibaldini sono solo 41.

Il Re Francesco, allora, ordina al capitano di vascello Rodriguez al comando della pirofregata Tancredi di catturare la nave, dandogli di rinforzo altre tre pirofregate, ma il conte d’Aquila fa fallire tale decisione con defatiganti disposizioni.

Nasce da questi episodi di tradimento l’esclamazione tipica dei napoletani: “mannaggia ‘a Marina” che ancora oggi è diffusissima.

In Messina, intanto, si concentrano oltre 24.000 soldati inviati dagli Abruzzi e da Gaeta. Nella parte continentale del Regno, invece, per effetto del ripristino della Costituzione, è organizzata la Guardia Nazionale in tutti i comuni, formandola con gli elementi liberali più facinorosi. A causa dell’atmosfera politicamente malsana e dei disordini verificatisi in Napoli, la Regina madre decide di rifugiarsi a Gaeta.

Fino a questo periodo, nel Regno delle Due Sicilie non vi erano stati che trascurabili episodi di delinquenza comune. La marea della delinquenza più pesante incomincia a montare con l’avvento dei garibaldini. La stessa Sila, che divenne in seguito il perenne ricettacolo del banditismo, fino al 1860 si poteva liberamente percorrere senza tema d’incontrarne.

LA BATTAGLIA DI MILAZZO

Nonostante i ripetuti ordini del Re di inviare truppe verso Barcellona (Messina), dove si sono concentrati 4.000 piemontesi e circa 600 ribelli, il Clary, costretto dal ministro traditore Pianell, inventa inutili pretesti per tenere fermi i reggimenti. A Barcellona e a Milazzo la maggior parte degli abitanti abbandona le proprie case. Alla continua inerzia del Clary si oppone Beneventano del Bosco, nel frattempo promosso colonnello, che riesce ad ottenere un minimo di tre battaglioni del 1°, 8° e 9° Cacciatori per un totale di circa 2.600 uomini per proteggere Milazzo, ma con l’ordine di non attaccare per primo. Il Bosco esce da Messina il 14 luglio con le sue truppe, dirigendosi verso Milazzo.

A Napoli nel frattempo giungono il 16 luglio molti agenti provocatori inviati da Cavour allo scopo di fomentare sommosse. La camorra inizia a scatenarsi, protetta e addirittura inquadrata nella polizia da Liborio Romano.

Il giorno 17, in Sicilia, vi è un primo scontro sulla strada costiera per Barcellona, dove sono catturati circa cento piemontesi, trovati con il foglio di congedo in tasca. Ad Archi vi è un altro scontro vittorioso contro i garibaldini del Medici, che sono dispersi. Radunati tutti i suoi uomini, il Bosco si accinge alla difesa di Milazzo. La decisa azione del Bosco, che respinge una richiesta d’abboccamento, spaventa il Medici che il giorno 18 chiede soccorso a Garibaldi. Costui arriva il giorno 19 con oltre 4.000 piemontesi, sbarcando a Patti, mentre il Clary, che tiene inutilizzate oltre 22.000 uomini in Messina, risponde negativamente alle pressanti richieste di truppe da parte del Bosco, sicuro di poter sgominare facilmente le bande garibaldine.

Il 20 luglio vi è una cruenta battaglia, dopo la quale i valorosi soldati duosiciliani, che hanno solo 120 caduti, mentre i piemontesi ne hanno 780, sono costretti per il mancato invio dei rinforzi, dato il numero preponderante degli assalitori, a ritirarsi nel forte di Milazzo. Eroici, e da ricordare, sono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che muore durante un assalto. Il forte, intanto, è mitragliato dalle navi garibaldine, che tuttavia sono tenute distanti per le efficaci cannonate dell’artiglieria organizzata rapidamente dal Bosco.

Un’altra incredibile occasione persa, per l’incapacità militare (o tradimento) del Clary, di sgominare definitivamente le orde garibaldine che si erano tutte concentrate a Milazzo e che, quindi, sarebbero potute essere circondate e certamente battute dalle numerosissime truppe lasciate inoperose a Messina. Questo episodio è la dimostrazione concreta che Garibaldi aveva assaltato Milazzo sicuro che nessuno lo avrebbe assalito alle spalle.

Il giorno 22 è intimato al Bosco di cedere il forte, ma alla sua sprezzante risposta, Garibaldi si rivolge direttamente al comando dell’Armata di Mare a Napoli. Così sono inviate da Napoli tre fregate col colonnello di Stato Maggiore Anzani, che, dopo aver concordato rapidamente una capitolazione del Forte, fa imbarcare le eroiche truppe del colonnello Bosco per trasferirle a Napoli.

Il 22 luglio, su richiesta dello stesso Garibaldi, sbarca in Sicilia il deputato piemontese Agostino Depretis, spedito da Cavour in sostituzione del La Farina, con il quale Garibaldi è entrato in forte contrasto. Il giorno dopo, incontratosi con Garibaldi, questi lo nomina Prodittatore con un decreto.

L’ARMATA ABBANDONA LA SICILIA

Il 24 luglio, senza nemmeno aver accennato a combattere, il Clary dichiara impossibile la “difesa” della città e concorda con il Garibaldi la resa delle truppe, che avrebbero evacuata la Sicilia, tranne per la cittadella militare di Messina. Appresa la strabiliante notizia, vi sono episodi di sommossa di alcuni soldati contro il Clary, che deve nascostamente fuggire a Napoli.

Il giorno 27, la flotta del siciliano Vincenzo Florio si pone al servizio di Garibaldi per il trasporto delle sue bande lungo la costa siciliana e d’altri “volontari” da Genova. Intanto nel Napoletano vi sono numerose manifestazioni contro le nuove istituzioni nate dalla concessa costituzione: guardie nazionali e i nuovi esponenti dell’amministrazione.

Sono sgombrate il 28 luglio anche le fortezze di Augusta e Siracusa, dove si reca per l’esecuzione il generale Briganti. La Cittadella di Messina è affidata al valorosissimo e fedele generale Gennaro Fergola. La guarnigione della Cittadella è formata da oltre 4.000 soldati e 200 ufficiali, che occupano anche i forti S. Salvatore, La Lanterna ed il Lazzaretto.

I TRADITORI SI RIVELANO APERTAMENTE

Nel frattempo, il 29 luglio, Cavour, dopo aver organizzato con Ricasoli una spedizione di armi e denaro nel Napoletano, riceve a Torino l’avvocato napoletano Nicola Nisco. Costui gli annunciava che poteva fare pieno affidamento su Liborio Romano, che mediante il controllo sulla polizia avrebbe facilmente fatto sollevare la popolazione al momento opportuno e instaurato un governo provvisorio. Al Cavour consegnava anche una lettera del generale Alessandro Nunziante, che, avendo grande influenza sull’esercito, si dichiarava disponibile «a mettere la sua spada ai piedi del sovrano sabaudo». Cavour, ormai sicuro di poter agire all’interno dello stesso governo duosiciliano, dà opportune disposizioni all’ammiraglio Persano. Costui dovrà partire da Palermo con la nave Maria Adelaide e recarsi a Napoli, con la scusa di proteggere la principessa sabauda moglie del conte di Siracusa, in realtà per mettersi in contatto con il marchese Villamarina, ambasciatore piemontese a Napoli, che aveva costituito una rete di agenti incaricati di sollevare disordini al momento opportuno.

Nell’interno della Sicilia, ormai abbandonata a se stessa, molti sovversivi, a cui si sono aggiunti numerosi delinquenti liberati dalle carceri, commettono atroci delitti. In Trecastagni, S. Filippo d’Argirò e Castiglione, nella provincia di Catania, vi sono numerosi omicidi e saccheggi. Così pure nella provincia di Messina, a Mirto, Alcara e Caronia, dove i garibaldesi e i piemontesi si scatenano in violenze, omicidi e saccheggi. Sono saccheggiati anche i monasteri, imposte taglie e rapinate le vettovaglie.

L’ECCIDIO DI BRONTE

In Bronte, il 1° agosto vi è il primo esempio di “libertà” piemontese. A Bronte esisteva la Ducea di Nelson, una specie di feudo di 25.000 ettari concesso da Ferdinando I all’ammiraglio Nelson, come ricompensa per gli aiuti forniti al Reame nel 1799. Alle notizie delle avanzate garibaldine, i contadini insorgono contro i padroni delle terre, aizzati dai settari che, dovendo sollevare comunque dei tumulti, promettono loro le terre secondo i proclami garibaldini.

Essi insorgono il 2 agosto, commettendo violenze nei confronti dei notabili, saccheggiando e bruciandone le case. Sono uccisi una decina di “galantuomini”. Cosicché il 4 agosto sono inviati a Bronte ottanta uomini della guardia nazionale, comandati dal questore Gaetano de Angelis, i quali però fraternizzano con gli insorti, addirittura consentendo che fossero uccisi nella località detta Scialandro altri quattro “galantuomini”.

Garibaldi è immediatamente sollecitato, con numerosi dispacci, dal console inglese che gli intima di far rispettare la proprietà britannica della Ducea, e anche perché sono iniziate delle rivolte simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, confinanti con le proprietà inglesi. Così, per non danneggiare gli inglesi, Garibaldi preoccupatissimo invia il 6 agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni cacciatori, l’Etna e l’Alpi, al comando di Nino Bixio.

Queste orde circondano il paese, ma poiché i rivoltosi sono già scappati, Bixio fa arrestare l’avvocato Nicolò Lombardo, ritenendolo arbitrariamente il capo dei rivoltosi e poi facendolo passare anche per reazionario borbonico, mentre invece è l’unico che aveva cercato di pacificare gli animi di tutti. Lo stesso giorno 6 agosto Bixio emette un decreto con il quale intima la consegna di tutte le armi, l’esautorazione delle autorità comunali, la condanna a morte dei responsabili delle rivolte e una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla “pacificazione” della cittadina.

Bixio si rivela in questa vicenda un feroce assassino. Per terrorizzare ulteriormente i cittadini, uccide personalmente a sangue freddo un notabile che protestava per i suoi metodi. Nei giorni successivi raccoglie più di 350 tipi di armi e incrimina altre quattro persone, tra le quali un insano di mente. Il giorno 9 vi è un processo farsa che condanna a morte i cinque imprigionati, che sono del tutto innocenti e che fa fucilare spietatamente il giorno successivo.

Per ammonizione, all’uso piemontese, i cadaveri sono lasciati esposti al pubblico insepolti. Bixio riparte il giorno dopo portando con sé un centinaio di prigionieri presi indiscriminatamente tra gli abitanti.

La Sicilia, nel frattempo, è posta praticamente in stato d’assedio dalla flotta piemontese, con l’aiuto delle navi francesi ed inglesi, che effettuano un blocco dei porti e delle coste, causando il crollo dei commerci marittimi e di ogni altra attività produttiva dell’isola.

Il 3 agosto, una squadra navale piemontese con a bordo circa tremila soldati, agli ordini dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, entra nella rada di Napoli – ove si trovano già navi francesi, inglesi e spagnole – con la scusa di proteggere la contessa di Siracusa, nata Savoia-Carignano, come ordinato da Cavour. A Napoli arriva anche il Nisco che fa appena in tempo a parlare con Nunziante, il quale, essendo stato scoperto il suo tradimento, la sera stessa abbandona Napoli, facendo perdere le sue tracce. Il Nisco, tuttavia, con l’appoggio di Liborio Romano, riesce a far sbarcare dal piroscafo Tanaro alcune casse contenenti tremila fucili e relative munizioni, necessarie per la rivolta.

Lo stesso 3 agosto in Sicilia il Depretis emana un decreto con il quale impone lo Statuto piemontese quale legge fondamentale per tutta l’isola. è imposto a tutti i pubblici funzionari di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele, pena il licenziamento. Nell’isola intanto la forza occupante è arrivata ad ammontare a circa 36.000 uomini. La maggior parte di essi sono stranieri (vi erano addirittura un battaglione indiano), circa 18.000 “volontari o disertori” piemontesi, qualche migliaio di traditori siciliani.

Il 5 agosto il conte di Siracusa, zio di Francesco II, si reca a bordo della Maria Adelaide, dove apertamente (con disgusto degli stessi ufficiali savoiardi) si pronunzia a favore dei Savoia.

PREPARATIVI PER LO SBARCO IN CALABRIA

Nei giorni precedenti lo sbarco di Garibaldi sul continente, nelle Calabrie sono stanziati circa ventimila soldati duosiciliani divisi in quattro brigate: il generale Ghio in Monteleone (Vibo Valentia), il generale Cardarelli in Cosenza, il generale Marra in Reggio ed il generale Melendez con vari reparti scaglionati nella provincia di Reggio. Comandante di tutte le forze è il generale Giambattista Vial, barone di Santa Rosalia, che senza alcuna ragione militare ha disseminate le truppe in ampie zone. Successivamente, a seguito di contrasti tra il generale Marra, comandante della 3ª Brigata, che accusa il Vial di incapacità, il Ministro della guerra, il massone Pianell, fa sostituire il Marra con il generale Fileno Briganti, anch’egli massone. Nel frattempo tutte le autorità civili delle Calabrie sono destituite da Liborio Romano, che al loro posto nomina esponenti carbonari.

Il 6 agosto Garibaldi lancia un proclama e incomincia a prepararsi per lo sbarco nelle Calabrie, facendo approntare circa 200 barcacce dietro il Capo di Milazzo per il trasbordo degli uomini. Il generale Melendez avvisa di questi preparativi il ministro Pianell, che non prende alcun provvedimento.

L’8 agosto circa 150 garibaldesi sbarcano a Cannitello, dove, scambiata qualche fucilata con alcuni soldati duosiciliani, riescono a rifugiarsi nei boschi, protetti da elementi della Guardia nazionale, rivelatisi così già ostili.

Il giorno 9 in Sicilia sono imposte le leggi sarde sulla marina mercantile.

Il 12 agosto Garibaldi s’imbarca sul Washington per recarsi in Sardegna allo scopo di farsi assegnare circa 9.000 uomini, che sono agli ordini del Pianciani, il quale li aveva destinati ad invadere i territori pontifici. Intanto, avvengono altri modesti sbarchi a Bianco e a Bovalino, mentre le fregate Fulminante e Ettore Fieramosca, che incrociano quel tratto di mare, ‘non vedono’ alcun movimento di battelli. Il comportamento del comandante del Fieramosca, capitano Guillamat, indigna profondamente l’equipaggio, che lo chiude nella stiva insieme ad altri ufficiali, dirigendo poi la nave verso Napoli. Ma qui gli ufficiali traditori sono liberati, mentre i fedeli marinai sono rinchiusi nel Castel S. Elmo come insubordinati.

Nelle Puglie si hanno dei moti popolari. Particolarmente gravi quelli a Ginosa e a Laterza contro esponenti liberali, verso cui i contadini reclamano la restituzione delle terre demaniali e l’abolizione della Costituzione.

ASSALTO FALLITO NEL PORTO DI NAPOLI

La notte del 13 agosto, su ordine di Persano, la nave Tüköry, piena di 150 garibaldini al comando di Piola Caselli, partita da Palermo il giorno prima, entra furtivamente nel golfo di Napoli. Il Caselli, in accordo col capitano massone Vacca, comandante del vascello Monarca, tenta di abbordare quest’ultimo con alcune barche per impossessarsene. Scoperto il movimento dalle sentinelle, che reagiscono con un fuoco infernale, una sola barca riesce a stento a rientrare sul Tüköry che si allontana approfittando del buio della notte, ma lasciando numerosi assalitori morti.

Il traditore Vacca trova rifugio sulla nave piemontese Maria Adelaide ferma nella rada. A Napoli, in quei giorni, venivano stampati e diffusi apertamente numerosi fogli antiborbonici con evidenti inviti alla rivolta, senza che dalla polizia fosse preso alcun provvedimento .

Il 15 agosto un battaglione di bersaglieri piemontesi arriva segretamente nel porto di Napoli ed è tenuto sotto coperta per essere impiegato al momento opportuno.

Il 16 agosto in Basilicata, a Corleto Perticara, alcuni settari manifestano a favore dell’unità d’Italia, contemporaneamente anche a Catanzaro sono organizzate manifestazioni a favore dei garibaldini.

In Potenza, al comandante dei gendarmi, capitano Salvatore Castagna, si offrono da un prete, don Rocco Brienza, duemila piastre e il grado di maggiore qualora riconosca un governo provvisorio rivoluzionario. Per il suo diniego, il Castagna è poi perseguitato e deve rifugiarsi sui monti unitamente ai suoi gendarmi.

Il 17 agosto in Sicilia sono emanati dei decreti, come quello del corso legale della moneta piemontese, che in pratica significano l’annessione dell’isola al Piemonte.

In quel giorno è ucciso a Pantelleria il collaborazionista Antonio Ribera, comandante della guardia nazionale, della cui morte i garibaldini accusano i giovanissimi nipoti perché filoborbonici. Questi riescono tuttavia a sfuggire ai traditori e formano da quel momento, unitamente ad altri legittimisti, la banda insorgente dei fratelli Ribera. A causa dei continui rastrellamenti, tuttavia, la banda Ribera dopo qualche tempo deve lasciare l’isola per rifugiarsi a Malta.

SBARCO IN CALABRIA

Rientrato a Palermo, la sera del 18 Garibaldi fa rotta per Giardini, vicino Messina, sul piccolo piroscafo Franklin, mentre Bixio è sul piroscafo più grande, il Torino.

Le due navi trasportano circa duemila uomini provenienti da Genova e che sono fatti sbarcare la mattina dopo sulla spiaggia di Rombolo, presso Melito di Porto Salvo. La località era stata scelta perché alcuni traditori del luogo, i massoni Tommaso Nardella, giudice, ed il sedicente colonnello Antonino Plutino, avevano provveduto a far occupare l’ufficio telegrafico e gli uffici comunali, dove nei giorni precedenti erano state depredate le casse comunali, con alcuni garibaldesi sbarcati il giorno 8 agosto. Il comando di quei predoni si sistema nel Casino Ramirez, già approntato dai traditori il giorno prima.

Dopo lo sbarco arrivano le navi duosiciliane Fulminante e l’Aquila, comandate dal Capitano Salazar. Questi, incontrato il Franklin (battente bandiera americana) che si recava al Faro per chiedere aiuto per il Torino, arenatosi accidentalmente sulla spiaggia, lo lascia passare, vedendolo vuota (ma a bordo c’è il Garibaldi).

In seguito, visto sulla spiaggia il vuoto Torino, si limita a incendiarlo ed a cannoneggiare i garibaldini che si erano accampati nella pianura di Rombolo. Garibaldi, avendo udito i colpi da lontano, si dirige nuovamente verso Melito, dove sbarca per ricongiungersi ai suoi.

La popolazione si mostrò subito ostile alla vista dei garibaldesi, i quali avevano fatto già alcune razzie di bestiame e saccheggi di vettovaglie, per cui vi furono alcuni scontri con gli invasori.

CONGIURE E TRADIMENTI IN CALABRIA

In Reggio le truppe borboniche del 14° di linea invece di essere inviate contro quei banditi, sono tenute ferme nelle caserme per ordine del generale Gallotti. In quei giorni avviene che al colonnello Antonio Dusmet, comandante del 14° di linea, è offerta da un vecchio settario la somma di trentamila ducati per passare nelle bande di Garibaldi, ma il colonnello respinge sdegnato la proposta. Il fatto è importante perché dimostra che la setta dispone di somme ingenti, dato che ha offerto una somma così elevata ad un semplice colonnello.

Il giorno dopo, al 14° di linea sono sottratte quattro compagnie dal generale Fileno Briganti, che dà l’ordine di impiegarle a Villa S. Giovanni e altre quattro compagnie dal generale Gallotti, con la scusa di voler rinforzare la guarnigione del Castello.

In Basilicata, a Rionero, a Melfi e a Corleto Perticara, vi sono alcune sollevazioni popolari contro le nuove autorità palesemente filopiemontesi.

Il 20 agosto il Dusmet, rimasto con soli 400 uomini, è inviato di proposito in un inutile e defatigante giro di perlustrazione. Alla sera, con gli uomini sfiniti per la stanchezza, si sistema nella Piazza del Duomo in Reggio in quanto le porte del Castello erano state chiuse inspiegabilmente. Durante la notte, svegliatosi per lo sparo di una sentinella, corre all’avamposto e vede avvicinarsi un gruppo di Guardie nazionali. Credendole, dunque, truppe amiche si avanza fiducioso verso di loro, senza accorgersi che alle loro spalle vi sono i garibaldini. è subito circondato e, alla sua reazione, assassinato a bruciapelo insieme al figlio che è accorso in suo aiuto.

Intanto circa tremila garibaldesi, penetrati in città da diverse strade con la complicità delle Guardie nazionali, che dovevano sorvegliare le strade di accesso, silenziosamente circondano le truppe duosiciliane del Dusmet. Queste, pur reagendo immediatamente all’imboscata, devono ripiegare verso il Castello. E qui avviene l’incredibile decisione del Gallotti che non solo rifiuta di aprire le porte del Castello per far rifugiare le truppe nazionali, ma si rifiuta perfino in seguito di attaccare i facinorosi che hanno innalzato barricate nella città.

Alcune navi piemontesi nel frattempo sbarcano segretamente nelle Calabrie armi e munizioni, mentre nel porto di Reggio sono alla rada le navi del Salazar, che non dà alcun aiuto alle truppe duosiciliane.

Intanto il generale Vial da Monteleone aveva ordinato, già il 18, al Briganti di accorrere con le sue truppe a Reggio. Il Briganti, dopo vari solleciti, lasciando a Villa S. Giovanni le artiglierie, si muove solo il 20 agosto per raggiungere il giorno 21 Reggio, distante appena sei miglia. Poi, invece di assalire, con tutte le sue forze i garibaldini, invia solo due compagnie del 14°, dividendole per due itinerari comandate dal maggiore Cuccione. Questi, nonostante la disparità di forze, assale le barricate ed una compagnia riesce ad arrivare sino al Castello. A questo punto il Briganti incredibilmente ordina di ritirarsi, portando tutte le sue forze ad accamparsi tra Catona e Gallico, abbandonando le due compagnie del maggiore Cuccione.

A Napoli, intanto, lo stesso giorno 20 alcuni bersaglieri piemontesi, scesi a terra dalle navi ancorate nel porto per fomentare disordini, come avevano fatto già altre volte, sono picchiati selvaggiamente dai soldati duosiciliani in una rissa provocata dai savoiardi. Questo fatto ha conseguenze solo per i duosiciliani che sono puniti. Lo stesso giorno Liborio Romano suggerisce sfrontatamente al Re di abbandonare Napoli e di lasciare la reggenza a un uomo fidato.

A Reggio, nel frattempo, il Gallotti tratta la resa del Castello con uno sconosciuto, già visto più volte parlare con lui. L’incredibile resa del Castello avviene a mezzogiorno del 21 agosto. Garibaldi poi accorda l’uscita dei mille soldati duosiciliani che orgogliosamente hanno rifiutato di cedere le armi come convenuto. La flotta duosiciliana in rada nel porto di Reggio, formata da ben sette navi, dopo aver sparato qualche cannonata a casaccio, se ne riparte per Messina.

Intanto in questo 21 agosto il governo Duosiciliano, con un’ingenua nota diplomatica, protesta duramente contro il governo piemontese per il suo appoggio alle azioni di Garibaldi. A Torino, intanto, sono invece date le prime disposizioni per approntare e radunare le truppe per l’invasione delle Marche e del Regno delle Due Sicilie.

All’accampamento del generale Briganti, intanto, vi è un via vai di personaggi in camicia rossa che vanno a confabulare con lui. Il giorno 22, mentre il Briganti incontra lo stesso Garibaldi, vi è uno sbarco di altri garibaldini guidati dal Cosenz e dal Medici sul lido di Favazzina. Un piccolo drappello di soli 25 uomini, comandati da un sergente e ben appostati, affronta eroicamente i banditi che sbarcavano, infliggendo loro numerose perdite, tanto che i garibaldesi devono rifugiarsi sul monte Solano per poterli contrastare. Qui vi è un altro cruento scontro con una compagnia di cacciatori, al comando del tenente Vizzari, che assale animosamente i filibustieri disperdendoli nei boschi, pur essendo questi ultimi superiori di numero. Nell’episodio è ucciso un capo garibaldesco, il De Flotte, il cui gruppo prende da lui il nome per volere di Garibaldi. Nello stesso giorno il Melendez si attestò sul monte Piale, in accordo con Briganti che avrebbe dovuto occupare il vicino colle Melia al fine di concentrare le truppe per fare fronte unico contro i banditi.

Nel giorno successivo, in un caotico accavallarsi di contrastanti ordini e contrordini, si hanno alcuni limitati conflitti, sempre e solo per l’iniziativa di piccoli reparti duosiciliani, ancora volutamente e inutilmente disseminati in un vasto territorio. Il Cosenz, che nel frattempo aveva concluso impunemente lo sbarco di tutti i suoi uomini, si reca a Villa S. Giovanni, dove s’incontra con il Briganti. Questi, il giorno 24 agosto, adducendo che la sua brigata era stata circondata, chiede una tregua e dà alla sua brigata l’ordine di sciogliersi. Lo sdegno dei soldati è veramente furibondo e, urlando “tradimento, tradimento”, si recano prima verso Reggio, guidati dai tenenti colonnelli Morisani e Armenio, poi dirottano verso Rosarno, dove si trova il grosso dell’esercito al comando del Maresciallo Vial.

Il Melendez, intanto, isolato sul monte Piale, data anche la defezione del colonnello Ruiz appartenente alla brigata del Briganti, è assalito da tutti i garibaldini, i quali però, pur avendo preso possesso del Melia, subiscono vistose perdite per i precisi tiri dell’artiglieria duosiciliana. Dopo alcune ore di combattimento i garibaldesi chiedono una tregua per discutere una resa, siccome i duosiciliani assediati da tutte le parti non hanno ormai possibilità di scampo. Avviene così che il Melendez, ignorato anche dal Caldarelli, fermo con le sue truppe in Cosenza, e abbandonato in pratica dal Vial, si convince alla resa, più demoralizzato dai tradimenti che dalle armi garibaldine. Anche in quest’episodio l’ira dei soldati è al colmo, sentendosi vinti non dalle armi dei filibustieri, ma da generali traditori.

A Napoli, intanto, Leopoldo conte di Siracusa, continuava ad avere discutibili contatti amichevoli con gli ufficiali della marina piemontese. Addirittura il giorno 24 agosto invia una lettera al Re suggerendogli di abbandonare il Regno per evitare sanguinosi massacri alla popolazione. La lettera è pubblicata sui giornali ancora prima che Francesco II la legga. Il comportamento dello zio Leopoldo è per il Re una vera pugnalata alla schiena.

FUCILAZIONE DI UN TRADITORE

La dissoluzione della brigata di Briganti e lo sbandamento di Melendez hanno come conseguenza il cedimento di tutti i forti del litorale, compreso quello importante di Scilla. Il Vial, con tutte le truppe che gli si sono raggruppate intorno, retrocede a Monteleone (l’odierna Vibo Valentia), in sostanza senza aver mai combattuto. Intanto a Salerno sono state costituite due brigate al comando del von Meckel e di Bosco, promossi generali di brigata.

Il giorno 25 giungevano a Mileto alcuni sbandati del Piale, guidati dal capitano del 15° di linea Ferdinando Rodogno. Nella piazza cittadina si accorsero che vi sostava il generale Briganti a cavallo senza le insegne del grado. Gli ufficiali per non incontrarlo entrano in un caffè, ma alcuni soldati, gridando “Viva il Re! Fuori il traditore!”, gli tirano alcune fucilate che lo uccidono insieme al cavallo. Nelle carte trovategli addosso vi sono copie di messaggi cifrati inviati il giorno precedente al ministro della guerra Pianell.

ALTRI TRADIMENTI

A Monteleone, intanto, si stavano raccogliendo numerose truppe e, inoltre, vi erano due brigate intatte, certamente sufficienti per attaccare i filibustieri con sicure probabilità di successo. Il Vial, invece, per niente scosso dall’episodio del Briganti, invia il giorno 26 agosto il colonnello Bertolini a parlamentare con Garibaldi allo scopo di non essere molestato in una sua ritirata verso Napoli. Lo stesso giorno arriva da Napoli, inviato dal Pianell per informazioni, il maggiore Ludovico de Sauget con il piroscafo Eugenia che si àncora a Pizzo. Il Vial allora si allontana per recarsi a bordo dell’Eugenia, ma un drappello del 12° di linea, immaginando un altro tradimento, lo insegue tirandogli anche alcune fucilate che non lo colpiscono. Tuttavia le truppe, vedendosi davvero abbandonate a se stesse, incominciano a tumultuare e assaltano i magazzini dei viveri e delle munizioni per non lasciarli ai garibaldini.

Il generale Caldarelli, invece, senza neanche aver mai visto il nemico, se ne parte di sua iniziativa con tutta la sua brigata intatta verso Salerno, dove poi le truppe si sbandano, chi tornando a casa, chi andando successivamente verso Capua inquadrati in nuovi reparti. Il Caldarelli, arrivato a S. Lorenzo la Padula, si rifugia appena in tempo presso i garibaldini di La Masa, evitando così di essere giustiziato dai suoi stessi soldati.

Lo stesso giorno gli esponenti massoni aizzano le popolazioni alla rivolta a Sala Consilina, a Catanzaro e a Cosenza, che sono occupate dai garibaldini. Le truppe duosiciliane comandate dal generale Afan de Rivera si ritirano verso Nocera.

La sera del 27 ritorna il Bertolini confermando che aveva avuto un accordo di non intervento con Garibaldi. Il Vial allora ordina alle sue truppe di rientrare in Napoli, mentre egli con la cassa militare s’imbarca sulla nave Protis e parte per Napoli, ove giunge il 30. Il Ghio così, forte di una brigata di dodicimila fanti, quattrocento lancieri e dodici cannoni, inizia il trasferimento verso la capitale, ma giunto la sera del 29 a due miglia da Soveria-Mannelli vi fa accampare le truppe. Qui, viste le alture occupate da alcuni facinorosi, chiama a rapporto i suoi ufficiali per decidere cosa fare, affermando che erano stati “circondati”. Mentre alcuni asserivano che la resistenza era impossibile, il colonnello de Lozza e i maggiori Capasso, de Liguori, Armenio e il comandante dell’artiglieria, indignati da tanta viltà, assicurano la prontezza e la fedeltà dei propri uomini. Nel frattempo si presenta all’accampamento un garibaldese dall’accento inglese che chiede di parlare con il Ghio. Durante il colloquio avvengono delle sparatorie in collina e i soldati sentendosi nuovamente traditi, per l’ormai solito rituale dei colloqui con i rappresentanti dei filibustieri, corrono alle armi, distruggono quanto non possono portare via e si allontanano in drappelli, dirigendosi verso Napoli. Il Ghio scompare, mentre i banditi si impossessano delle casse dell’11° di linea contenenti 1.500 ducati. Quella sera stessa Garibaldi entra in Cosenza ove lancia proclami di vittoria, senza aver mai combattuto.

CONGIURE E TRADIMENTI A NAPOLI

A Napoli, mentre il giorno prima vi era stato un altro incontro a Chambéry tra Cavour e Napoleone III, il 29 agosto è scoperta una nuova congiura reazionaria manifestatasi con l’affissione di manifesti incitanti alla “salute pubblica”. L’autore materiale è il prete legittimista francese De Sauclières, che è arrestato. Probabile che dietro di lui vi siano personaggi autorevoli quali il conte di Trani e di Trapani. A Liborio Romano e a Pianell, che gli avevano annunciato la scoperta della congiura, Francesco II dice: “Siete più bravi a scoprire cospirazioni realiste che settarie” .

L’ammiraglio piemontese Persano, proprio in quei giorni, scrive al Cavour facendo un resoconto del denaro versato per corrompere alcuni personaggi, comitati vari e militari napoletani, in accordo col marchese Villamarina, ambasciatore piemontese a Napoli che gli organizzava gli incontri.

LA DOPPIEZZA DI NAPOLEONE III

Il 29 agosto Cialdini e Farini si incontrano con Napoleone III a Chambéry, dove trattano dell’invasione dell’Umbria, delle Marche e del Regno delle Due Sicilie, come prova un dispaccio del sig. Thouvenel, Ministro degli esteri francese, dato a Parigi il 18 ottobre 1860, nel quale apertamente si dichiara che l’Imperatore “non disapprovò la invasione”. Il Thouvenel aggiunge che Napoleone III “supponeva che la caduta della Monarchia napoletana sarebbe completa, che una rivoluzione si susciterebbe negli Stati Romani, che la sovranità del S. Padre sarebbe riservata”.

Il 31 agosto Garibaldi parte per Castrovillari, nominando il massone Donato Morelli, il maggior proprietario terriero della zona, governatore di quella provincia. Questo Morelli dopo pochi giorni abolisce i decreti di Ferdinando II e restituisce i terreni toltigli dai Borbone al barone Francesco Guzzolini, presidente del comitato rivoluzionario cosentino. Il Morelli, poi, con un’ordinanza rende non applicabili anche le concessioni di Garibaldi sulla Sila, emanate soltanto pochi giorni prima demagogicamente a favore dei contadini.

In Basilicata molti rivoltosi insorgono. Sentendosi ormai protetti dagli avvenimenti in Calabria, essi s’impadroniscono dei municipi e delle caserme. Nel salernitano già al 30 agosto si erano scatenati tutti i settari. A Sala il sottintendente Luigi Guerritore dichiara decaduto il governo borbonico e si appropria delle casse pubbliche.

A Napoli il Pianell presenta al Re numerosi e fantasiosi piani di guerra, che servono solo a confondergli le idee. Solo il Bosco fermamente e lucidamente propone una forte linea di dodicimila uomini nella pianura del Sele tra Avellino e Salerno, avente come base operativa Napoli. Il Re approva questo piano, ma ne dà la responsabilità esecutiva al Pianell, che lascia trascorrere inutilmente tre giorni, inviando poi al suo posto il maresciallo Afan de Rivera, una vera nullità militare.

NASCE LA PRIMA RESISTENZA ORGANIZZATA

Il 1° settembre, ad Ariano Irpino si ha una violenta manifestazione contro gli elementi liberali che avevano istituito un governo provvisorio nella cittadina. Tutti i popolani della zona si riversano nella cittadina e massacrano 140 traditori che avevano aderito al nuovo regime. Si sollevano spontaneamente anche gli abitanti di Montemiletto, Dentecane, Bonito, Pietradefusi, Torre Le Nocelle, S. Angelo dei Lombardi e Monteverde. Anche in questi centri sono giustiziati i traditori e saccheggiate le loro case

Il 2 l’ungherese Türr sbarca a Sapri con un centinaio di uomini.

A Napoli il 3 il Re decide di ritirarsi a Gaeta e riunisce il Consiglio di guerra presieduto dal generale Carrascosa che tenta di convincere il Sovrano a restare a Napoli.

Il 4 sbarca a Sapri anche il Rüstow con le sue bande apprestandosi a marciare sulla capitale.

Intanto nel napoletano e nel beneventano numerosi popolani legittimisti, appresa la notizia dell’avvicinamento dei garibaldini, incominciano ad armarsi per contrastarne l’avanzata. In numerosi villaggi sono suonate le campane per radunare la popolazione e per impedire colpi di mano dei cosiddetti “galantuomini”. A Pietradefusi, a Montefusco e a Torre Le Nocelle vi sono assalti alla casermetta della guardia nazionale dove sono prelevati fucili e munizioni.

PROSEGUE L’AVANZATA DEL GARIBALDI

Il 5 Garibaldi entra a Sala.

Nella Reggia, intanto, si cerca di far mutare quei piani operativi, che certamente avrebbero posto fine all’avventura di Garibaldi. Soprattutto è detto al Re, sensibile su questo punto, che nella città di Napoli sarebbe corso molto sangue e che si sarebbero avuti numerosi danni. Sicché il giovane sovrano il 4 si convince di mutare l’ordine di battaglia, disponendo che l’esercito debba schierarsi tra il Volturno ed il Garigliano. Questa disposizione crea il vuoto davanti a Garibaldi.

Le truppe incominciano a ritirarsi da Salerno tra gli sguardi increduli e sgomenti delle popolazioni, che vedono quei soldati perfettamente equipaggiati ritirarsi senza aver nemmeno combattuto. I soldati, frementi di non avere più la possibilità di vendicarsi delle vergogne patite in Sicilia ed in Calabria, sono ancora più indignati di dover ancora indietreggiare senza aver incontrato un solo nemico.

Nei giorni 4 e 5 si hanno ancora violente manifestazioni contro i liberali in tutto il Circondario di Ariano. A Monteverde, come anche a Rocchetta Sant’Antonio, centinaia di popolani preceduti da notabili e sacerdoti occupano una vasta tenuta boschiva rivendicandola come terra demaniale. Di questa, approfittando del cambiamento di regime, se n’era appropriato il liberale filogaribaldino Francesco Tozzoli. Costui chiede l’intervento del governo dittatoriale filogaribaldese che incrimina 57 popolani. La reazione era favorita anche dal fatto che i reparti duosiciliani della zona comandati dal maresciallo Flores e dal generale Bonanno stavano ritirandosi verso Napoli.

FRANCESCO II SI TRASFERISCE A GAETA

Il Re Francesco il 5 emana un proclama che annuncia il suo trasferimento a Gaeta per evitare disordini e danni alla capitale, affidandola al Liborio Romano. Egli dice: “In mezzo a continue cospirazioni, non ho fatto versare una goccia di sangue, e si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore più tenero per i miei sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nell’onestà degli altri, se l’orrore istintivo del sangue, meritano tale nome: si, certo, io sono stato debole. Ho preferito abbandonare Napoli, la mia cara Capitale, senza essere cacciato da Voi, per non esporla agli orrori di un bombardamento. Questi son i miei torti: preferisco i miei infortuni ai trionfi degli avversari”.

Numerosi napoletani che fino al giorno prima avevano applaudito con entusiasmo il passaggio dei Reali, si affrettano a togliere stemmi e bandiere. La farmacia Ignone, fornitrice della Real Casa, situata all’angolo dell’attuale palazzo della prefettura, toglie i gigli borbonici prima ancora della partenza del sovrano.

Alle ore 6 del pomeriggio del giorno successivo il Re e la Regina lasciano Napoli, imbarcandosi sul vapore Messaggiero comandato dal “luciano” Ten. Col. Vincenzo Criscuolo. S’imbarcano pure Emanuele Caracciolo duca di S. Vito, il principe Nicola Brancaccio di Ruffano, il maresciallo Francesco Ferrari, il maresciallo Giuseppe Statella, il conte Francesco de la Tour, il Retro-Ammiraglio Leopoldo del Re, il maresciallo Riccardo de Sangro principe di Sansevero, il marchese Imperiali, la duchessa di S. Cesareo ed un’altra ventina di persone.

Comandato dal pilota Giacomo Persico, parte anche la nave-avviso Delfino, carico dei bagagli della famiglia reale e della corte e con l’archivio personale del Re. I comandanti delle navi Ettore Fieramosca, Ruggiero e Guiscardo, vendutisi al Piemonte, si rifiutano di seguire il Sovrano. Due navi piemontesi si posizionano all’imboccatura del porto, quasi a voler impedire il passaggio delle navi reali. Superato il canale di Procida, la nave spagnola Colòn, con a bordo il diplomatico spagnolo Salvador Bermudez de Castro, si pone sulla scia del Messaggiero in segno di rispetto e protezione.

A Napoli il Re aveva lasciato insensatamente nel Banco di Napoli il suo patrimonio personale di undici milioni di ducati d’argento, due milioni sterline e cinquanta milioni di franchi d’oro. Nella Reggia lascia anche la ricchissima collezione di vasellame e oggetti d’oro e d’argento, opere d’arte e arredi d’inestimabile valore. Maria Sofia, tutto il suo guardaroba ed i gioielli personali. I depositi privati assommano a 77.205.172 franchi.

Nella città rimangono oltre seimila uomini, tutti al comando del generale Cataldo che ha ricevuto l’ordine di difendere e mantenere il possesso dei castelli. Le forze sono così suddivise: il 9° di linea a Castel Nuovo, comandato dal colonnello Girolamo de Liguoro; il 6° di linea nei castelli del Carmine, dell’Ovo, comandato dal colonnello Perrone, e di S. Elmo, comandato dal colonnello Di Marco; il 13° battaglione cacciatori a Pizzofalcone, comandato dal maggiore Golisani; un reggimento di marina nell’Arsenale, comandato dal colonnello Francesco Nunziante. Il piccolo forte di Baia è affidato ad un piccolo drappello di riservisti (88 invalidi e 57 artiglieri) comandato dal maggiore Giacomo Livrea.

Durante la traversata Francesco II si confida col Criscuolo: “Mi hanno tradito tutti, Vincenzino” ed il Criscuolo, per confortarlo, gli risponde che numerosi Duosiciliani gli erano ancora fedeli, ma il Re, profeticamente, dice ancora: “I Napolitani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, ma però ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere”.

Marinai ed ufficiali imbarcati sulle navi militari, ribellatisi ai loro comandanti, si gettano in mare per non subire la vergogna del tradimento. Sono circa seicento e in parte si recano via terra verso Gaeta, altri s’imbarcano il giorno dopo sulla nave a vela Partenope comandata dal Capitano di Vascello barone Roberto Pasca, che la dirige a Gaeta.

Uno dei marinai del Reggimento di Marina, il luciano Gennaro Fusco, gettatosi a mare dalla sua nave passata ai piemontesi, proprio in quel giorno diventa padre di una bambina, Teresa. Per sopravvivere si metterà a fare il pescatore. La piccola Teresa, appena diventata più grande, tutti i giorni preparava da mangiare per il padre quando egli tornava dalla pesca. Nel 1876 Gennaro Fusco perì in un naufragio e la piccola Teresa, che aveva ormai sedici anni, non si perse d’animo, continuò a preparare da mangiare per altri pescatori. Comincerà così la strepitosa fortuna di quel ristorante che più tardi sarà conosciuto in tutto il mondo come “Zi’ Teresa”.

Anche il personale diplomatico di Russia, Prussia, Brasile, ed il Nunzio Apostolico si recano a Gaeta.

Lo stesso giorno Cavour fa partire, nel più assoluto segreto, una flotta da Genova diretta ad Ancona per bombardarne i forti. Sono avvertiti i settari delle Marche di preparare un’insurrezione per il giorno 8, facendo una richiesta di aiuto al Piemonte contro la “brutalità della dominazione papale”.

GARIBALDI ENTRA A NAPOLI

Partito il Re, Liborio Romano telegrafa “all’invittissimo generale” Garibaldi con l’invito a venire al più presto a Napoli “che l’aspettava con ansietà”. Il de Sauget, comandante della guardia nazionale, con due ufficiali Achille di Lorenzo e Luigi Rendina, ed il sindaco di Napoli, principe d’Alessandria, si recano a Salerno, dove con grande sorpresa vedono che Garibaldi ha solo un ristretto seguito.

Il 7 Garibaldi, partito con improvvisa decisione da Vietri in ferrovia, arriva a mezzogiorno a Napoli insieme a dieci compagni, tra i quali Cosenz, Missori, Nullo ed il frate Pantaleo. Con lui vi sono anche de Sauget ed il sindaco di Napoli. Ad accoglierlo vi è Liborio Romano. Sono distribuiti ventiquattromila ducati ai camorristi per organizzare l’accoglienza. La maggior parte del popolo, impaurita dallo scatenarsi dei peggiori delinquenti per le strade, si rinserra nelle case.

Garibaldi si reca al Duomo. L’arcivescovo Riario Sforza, però, gli fa trovare il tempio vuoto e anche S. Gennaro partecipa allo sdegno rifiutandosi di sciogliere il sangue. L’avventuriere è alloggiato al Palazzo d’Angri, al largo Spirito Santo, dove è sistemato anche il suo seguito. Qui riceve il generale Lanza e l’ammiraglio piemontese Persano, al quale consegna il suo primo decreto che sancisce il passaggio dell’intera flotta duosiciliana al Piemonte. Poi conferma nel grado il capitano di vascello Vacca e il capitano di fregata Vitagliano, aggregandoli alla marina savoiarda.

PRIME DISPOSIZIONI DI FRANCESCO II

Francesco II e Maria Sofia giungono a Gaeta alle ore 6 del mattino del 7 settembre e alle ore 9 si sistemano nel palazzo reale. A Gaeta si sistemano anche il ministro di Russia, principe Volkonskij, il ministro dell’Austria e quelli di altri Paesi. Non appena sistemato, il Re nomina capo del nuovo governo il generale Casella; Ministro della marina il retroammiraglio Leopoldo del Re; Ministro delle Finanze il barone Salvatore Carbonelli; Ministro della Giustizia il duca di Lauria don Pietro Calà Ulloa. Comandante dell’Armata è nominato il generale Ritucci. è inviato un telegramma alle varie autorità del Regno con la comunicazione che la sede del Governo è in Gaeta.

AVVENIMENTI IN NAPOLI

A Montecalvo, i cittadini respingono un gruppo di garibaldini, provenienti da Greci e comandati da un certo De Conciliis.

Il giorno successivo a Napoli è creato un governo con a capo Liborio Romano e con ministri: alla guerra il Cosenz, alla giustizia il Pisanelli, alla polizia l’Arditi, agli esteri il Crispi, ai lavori pubblici il marchese d’Afflitto, all’istruzione pubblica il Ciccone, alle finanze lo Scialoia (il quale ne approfitta subito per impossessarsi di 200.000 franchi). Al Banco di Napoli è nominato il Libertini che può disporre liberamente dei fondi depositati. Comandante militare della Piazza di Napoli è nominato il generale Ghio. Sindaco di Napoli diventa Andrea Colonna, principe di Stigliano. Segretario di Garibaldi diventò Agostino Bertani che, in pratica, dava ordini a Liborio Romano, il “servo di più padroni”, sovrapponendosi ad ogni disposizione dei ministri. Anche Bertani approfitta della sua posizione per sottrarre per suo uso personale somme ingentissime dal Banco di Napoli, dalla Cassa di sconto e dalla Zecca.

Nelle altre principali città e nei vari paesi dove è forte la componente liberalmassonica sono istituiti governi provvisori e disarmate le gendarmerie duosiciliane. Numerosi alti prelati abbandonano le diocesi, alcuni perché contrari al nuovo regime, altri perché costretti da manifestazioni ostili nei loro confronti. In quasi tutte le città e i villaggi si hanno manifestazioni popolari contrarie ai filogaribaldini. Chiamate dai “galantuomini, intervengono truppe garibaldine per reprimere le rivolte a Montemiletto, Montefusco e Pietradefusi, dove saccheggiano anche le casse comunali. Numerosi popolani sono legati mani e piedi e imprigionati dai garibaldini nelle carceri di Montefusco e di Avellino.

Il generale Cataldo cede agli invasori i castelli della città. Il colonnello Girolamo de Liguoro, sbigottito da quella vergognosa resa, esce orgogliosamente dal Castel Nuovo a bandiere spiegate e tamburo battente con tutto il suo 9° di linea a passo cadenzato ed in perfetto ordine. Attraversa Piazza Carlo III e marcia in direzione di Capua, dove giunge indisturbato il 10. Seguono il suo esempio il 6° di linea uscendo dal Castel dell’Ovo e dal Carmine per raggiungere il Volturno. Il colonnello Perrone, invece, si eclissa, ma non le sue cinque compagnie, che, insieme alle truppe al comando del colonnello Di Marco, con armi e bagagli scendono marciando nella città e si avviano verso Capua, senza che nessuno osi far loro oltraggi. Di Marco, invitato a cedere il Castel S. Elmo, con la promessa di promozioni e altri benefici, rifiuta dicendo : “L’onore di un soldato non si compra”.

Il 13° battaglione cacciatori con uno stratagemma del generale Cataldo, complice il collaborazionista Golisani, è portato al quartiere Ferrantina per essere aggregato alle forze garibaldine, ma i soldati, resisi conto del tradimento, abbandonano la città per recarsi sul Volturno al comando del primo tenente Francesco de Fortis che s’incolonna con il 9° di linea. Il Reggimento di Marina, abbandonato dai suoi ufficiali, si sbanda, ma gli uomini si recano alla spicciolata verso Capua. Il maggiore Livrea rimane fedele al Re e si trincera nel forte di Baia. Dalla Nunziatella numerosissimi allievi accorrono verso Gaeta, dove dal Re sono nominati alfieri.

L’ammiraglio Persano fa sbarcare a Napoli truppe piemontesi che occupano l’Arsenale. Intanto è in arrivo anche un reggimento di fanteria da Genova. Dal Ministero del Dipartimento della Guerra, istituito a Napoli dai collaborazionisti, è inviato un telegramma a tutte le Autorità del Regno: “… è volere del Gen. Dittatore, fra lo spazio di dieci giorni facciano atto di adesione al Governo di Vittorio Emanuele II, 1° re d’Italia, intendendosi in opposto dismessi e destituiti”, ma una grande maggioranza di ufficiali e funzionari si rifiutano e abbandonano il servizio nei giorni successivi.

RIORGANIZZAZIONE DELL’ARMATA DUOSICILIANA

Nel frattempo altri reparti duosiciliani si spostano dall’interno per raggiungere il Re. La brigata Real Puglia al comando del maresciallo Flores e del generale Bonanno, pressata da reparti garibaldini comandati dall’ungherese Türr, è abbandonata da una parte degli ufficiali e si sbanda, ma orgogliosamente la maggior parte degli uomini si ritira verso Capua.

Francesco II richiama le truppe alle bandiere e, nonostante lo stato di disgregazione dell’esercito duosiciliano, l’appello è raccolto dai militari di tutti gli ordini e gradi tanto che è possibile costituire in breve tempo tre divisioni di fanteria e una di cavalleria per un totale di circa 30.000 uomini.

Il giorno 10, Francesco II si reca a Capua ed è acclamato dall’esercito che, con altri arrivi di volontari, è ora formato da circa 40.000 soldati ben armati ed equipaggiati. Il vero problema per il sovrano è di trovare un valido capo militare in grado di fronteggiare la situazione.

Dopo il rifiuto dal Papa alla sua proposta di fondere i due eserciti contro i garibaldini, il Re ripiega sul vecchio generale Ritucci, lento, insicuro e privo di ogni spirito di iniziativa. Poco, però, è fatto di concreto sul piano diplomatico ed è questo un grave errore, perché, senza un’azione delle grandi potenze europee, anche una vittoria militare non avrebbe fermato l’espansionismo dei Savoia. L’Austria, reduce dalla recente sconfitta, non si muove in aiuto delle Due Sicilie temendo un intervento francese nella penisola. Anche la Russia, dopo i fatti di Crimea, aveva cambiato atteggiamento nei confronti delle Due Sicilie.

ARRIVO DEI GARIBALDESI A NAPOLI

Il 9 arrivano a Napoli i filibustieri garibaldesi. Prima il Rustow sbarca nel porto con circa mille uomini. Il resto arriva alla spicciolata con tutti i mezzi. Occupato Pizzofalcone, nei giorni seguenti si spargono per la città compiendo violenze e saccheggi.

Sempre il 9 è promulgato un bando con il quale sono chiamati alle armi i giovani in età di leva e richiamati in servizio i soldati del disciolto esercito duosiciliano. La presentazione deve avvenire entro il 31 gennaio 1861. Il bando suscita immediatamente ostili manifestazioni delle popolazioni, tanto che molte autorità provinciali, per evitare disordini, tardano la diffusione del bando.

In Abruzzo il generale De Benedictis attua il suo piano per far dissolvere le truppe duosiciliane, comunicando ai reparti che il Re nell’uscire da Napoli ha ordinato a tutti i militari di non fare altra resistenza e di conservare la disciplina, obbedendo alle autorità costituite. Invia anche un telegramma alla guarnigione di Pescara, comandata dal suo complice colonnello Piccolo: “Il Re è uscito dal Regno, tutto è finito; consiglio la guarnigione a regolarsi secondo la prescrizione del ministro della guerra di Garibaldi”.

La Fortezza di Pescara ha un ruolo strategico fondamentale ed è presidiata da 2.000 uomini del 12° Cacciatori, una batteria d’artiglieria da campagna e quattro compagnie di Zappatori, oltre all’artiglieria della Piazza. I soldati, tuttavia, tumultuarono e proruppero nel grido di “Viva ‘o Rre!”, mentre la fanfara dei Cacciatori suonava l’inno duosiciliano.

L’11 Garibaldi con un decreto abolisce in Napoli l’ordine dei Gesuiti e ne fa confiscare tutti i beni; emana un’ordinanza per l’abolizione del gioco del lotto, che però è prontamente abrogata; fa attribuire una pensione alla madre e una dote alle sorelle di Agesilao Milano, l’attentatore di Ferdinando II. Sono requisiti i beni e i depositi bancari dei Borbone al fine di “risarcire le vittime della persecuzione politica sotto il vecchio regime”. Sono incarcerati nobili, sacerdoti, civili e tutti i militari che non aderiscono al nuovo regime. Sono scarcerati invece i delinquenti comuni.

Il Palazzo Reale è spogliato di tutto quanto contiene. Gli arredi e gli oggetti più preziosi sono inviati a Torino. Garibaldi con un decreto sancisce la confisca del capitale personale e di tutti beni privati dei Borbone. Dal Banco di Napoli è requisito tutto l’oro appartenente allo Stato delle Due Sicilie, dichiarandolo “bene nazionale”. Garibaldi distribuisce generosamente denaro ai suoi. Circa 90 milioni di ducati, pari a mezzo miliardo di lire piemontesi, finiscono in mano garibaldina e si aggiungono ai 30 milioni di ducati di Palermo. I depositi privati scendono alla fine del mese a soli 50.563.244. Alla società Rubattino, sono versati 4.800.000 franchi come risarcimento del piroscafo Cagliari (ma già restituito all’armatore) e per i vapori Lombardo e Piemonte usati nella spedizione, ma che erano già stati pagati dai Savoia.

I metalli preziosi conservati nello stabilimento della Zecca sono tutti inviati a Torino. Muore così una tra le prime e più famose zecche del mondo. Ancora oggi i pezzi coniati nel periodo duosiciliano hanno le più alte quotazioni sul mercato numismatico.

Napoli in tutta la sua storia non dovette mai subire un così grande oltraggio. Gli scambi commerciali con l’estero hanno un tracollo verticale ed il movimento nel porto di Napoli diventa del tutto insignificante. Iniziano fallimenti, a catena, delle imprese e dei commercianti anche per mancanza di materie prime. L’arsenale di Castellammare è chiuso e gli operai sono licenziati. I prezzi dei generi di prima necessità, quasi introvabili, incominciano a crescere continuamente.

IL PIEMONTE INVADE LO STATO PONTIFICIO

Poche settimane prima nelle regioni pontificie delle Marche e dell’Umbria, emissari muniti di larghi mezzi, hanno suscitato focolai di ribellione, ingigantendo ad arte sporadici episodi subito repressi. Questi però servono da pretesto per giustificare l’invasione piemontese col beneplacito di Napoleone III (che pronunzia la significativa frase: “Fate, ma fate presto”).

L’11, il generale Fanti, ministro della guerra, al comando di circa 40.000 soldati, inizia l’invasione dello Stato Pontificio “per ristabilire l’ordine”, come indica uno squallido memorandum, pieno d’insulti e menzogne sulle forze pontificie, rivolto dai piemontesi alle potenze europee per spiegare le ragioni dell’intervento. L’esercito piemontese è formato dal IV corpo d’armata (composto di tre divisioni) comandato dal generale modenese Cialdini, e dal V corpo d’armata (formato da due divisioni), comandati dal generale Enrico Morozzo Della Rocca, già capo di stato maggiore.

L’esercito pontificio, di appena ottomila uomini, è stanziato in diverse zone, per questo il suo comandante, il generale Cristoforo de La Moriciére, non fa in tempo a concentrare le sue forze, anche perché era orientato a difendersi da un’eventuale invasione dei garibaldini, mai sospettando l’attacco dei piemontesi.

Le truppe francesi posizionate nei pressi di Roma, nonostante la dichiarazione di Napoleone III che avrebbe difeso il Papa, non intervengono. I piemontesi, divise le forze in tre colonne, occupano rapidamente l’11 Urbino e Pesaro. Durante l’avanzata piemontese vi sono saccheggi e assassini di contadini colpevoli solo di difendere le loro terre. Numerosi preti sono fucilati per ammonimento. Il cardinale di Pesaro è arrestato e lasciato tutta la notte seminudo sotto la pioggia, poi, il giorno dopo è inviato prigioniero a Genova.

Le sollevazioni popolari si diffondono in tutti i paesi dell’entroterra napoletano. I garibaldini, allertati dai liberali, invadono vari centri e catturano i popolani più reattivi.

Il 13, mentre i piemontesi occupano Senigallia, a S. Antimo, nei pressi di Napoli, scoppia una violenta reazione contro i garibaldini. Nel Molise, con centro ad Isernia, si compiono numerosi assalti popolari contro le abitazioni dei liberali.

Il 14, i piemontesi occupano Perugia e Foligno, mentre l’ammiraglio Persano fa bombardare dal mare la fortezza e la città di Ancona, senza alcuna utilità militare.

L’ARMATA DUOSICILIANA SI SCHIERA A CAPUA

L’Armata duosiciliana si schiera nei pressi di Capua, fra Triflisco e Caiazzo. Dispone di 42 cannoni, oltre che dell’appoggio diretto della fortezza di Capua, e di tre divisioni di fanteria ed una di cavalleria. La 1ª è comandata dal maresciallo Gaetano Afan de Rivera, composta dalle Brigate del Col. Polizzy e del Gen. Barbalonga. La 2ª, comandata dal generale Luigi Tabacchi, composta dalle Brigate del Col. D’Orgemont e del Col. Marulli. La 3ª, non del tutto integra e formata da elementi raccogliticci, comandata dal generale Filippo Colonna di Stigliano. La Divisione di cavalleria è comandata dal generale Giuseppe Ruggiero. Vi è, inoltre, la colonna von Meckel, rinforzata dai distaccamenti di Perrone e Ruiz.

Nello stesso momento inizia il concentramento delle forze garibaldine nella zona di Caserta. Ammontano a circa 28.000 uomini con 30 pezzi d’artiglieria. Non sono ben definite come unità, perché sono impiegate come bande. Sono così identificate: la 15ª Divisione, comandata dall’ungherese Tobornock Türr, schierata in riserva generale a Caserta e composta dalle Brigate Sacchi, Eber, De Giorgis e Assanti; la 16ª, comandata da Isenschmid De Milbitz (in sostituzione di Cosenz, nominato da Garibaldi ministro per la guerra), composta dalle Brigate Malencini e La Masa; la 17ª, comandata da Medici, composta dalle brigate Simonetta, Spangaro, Dunn e Corte (queste ultime due schierate nei settori di S. Angelo e S. Maria) e la 18ª, comandata da Bixio, schierata tra Maddaloni e Ponti della Valle, con le Brigate Spinazzi, Dezza, Eberhardt e Fabrizi. Inquadrati a parte vi sono una legione inglese (660 uomini), disertori svizzeri dell’esercito duosiciliano (107 uomini), una legione ungherese (340 uomini), una compagnia francese, vari gruppi formati da marinai inglesi e di altre provenienze. Vi sono pure quattro compagnie del Iº Battaglione bersaglieri e due compagnie di fanteria del Iº reggimento di linea Savoia della brigata “Re” dell’esercito regolare piemontese, stanziate a nord di Caserta nell’area di Castelmorrone.

Le prime scaramucce si hanno durante le manovre di schieramento nei pressi del forte di Capua, ma appena i garibaldini si avvicinano sono messi in fuga da precisi tiri di artiglieria.

A Gaeta, intanto, diretta dal maggiore Quandel, inizia la pubblicazione della “Gazzetta di Gaeta” con i provvedimenti del governo, gli arrivi e le partenze da Gaeta ed altre notizie anche estere. Il barone Teodoro Klitsche de La Grange (ex militare tedesco e del Papa) è dal Re nominato colonnello con il compito di formare una brigata di volontari per operazioni di guerriglia in Abruzzo.

INIZIANO GLI SCONTRI CON I PONTIFICI

Il 15 nello Stato Pontificio il La Moricière, non avendo altra scelta che inviare tutte le sue truppe in Ancona, per evitare un’impari lotta, concentra 2.500 uomini a Macerata e prosegue per Ancona, riunendosi a Loreto con la brigata pontificia comandata dal generale Pimodan. I piemontesi sbarrano la strada ai pontifici, attestandosi sulle alture di Osimo e di Castelfidardo.

La sera dello stesso giorno il colonnello Piccolo consegna la piazzaforte di Pescara ai filosabaudi. Anche nelle piazzeforti di Teramo (comandata dal vecchio settario Gen. Veltri) e di Chieti (comandata dal pavido Gen. Scavo) vi sono gli stessi tradimenti, ma quasi tutta la truppa, invece di sbandarsi, si dirige spontaneamente verso Capua e Gaeta con una marcia faticosissima, per balze e precipizi, attraverso fiumi e torrenti, soffrendo fame e freddo che in questo periodo è già pungente.

L’Abruzzo resta così indifeso e De Virgili, de Cesaris e Delfico, mostrando il loro vero volto di traditori, inviano una deputazione di 40 liberali a Vittorio Emanuele ad Ancona con l’invito ad entrare nel regno.

CATTANEO A NAPOLI

Garibaldi è raggiunto a Napoli da Carlo Cattaneo, che già nel marzo del 1848 aveva diretto il consiglio di guerra durante le cinque giornate di Milano. Cattaneo, convinto che uno stato moderno può solo essere democratico e repubblicano, sostiene la formazione di un’Italia indipendente basata su un federalismo nel rispetto delle autonomie locali, delle diverse tradizioni e della storia della penisola. Cattaneo, quindi, sollecita la formazione di parlamenti autonomi per il Napoletano e la Sicilia al fine di negoziare con il Piemonte una federazione di Stati italiani, ma si scontra con l’intransigenza dei Savoia, che hanno ben altri interessi. Il progetto tramonta definitivamente quando il 15 piomba a Napoli anche il Mazzini, che propugna, invece, la formazione unitaria e repubblicana di uno Stato italiano. Dopo solo un mese Cattaneo si allontana disgustato. Scrive: “Napoli spogliata di ogni lustro paventa il re vecchio, bestemmia il re nuovo, non crede alla repubblica e dispera della monarchia”.

SCONTRI A CAIAZZO

Il 16 vi è un altro attacco verso Caiazzo da parte dei garibaldini, che però sono respinti e dispersi dalle truppe del tenente colonnello La Rosa. A Gradillo i garibaldini comandati da Winckler assalgono il 14° cacciatori, posizionati in quell’area unitamente ad una compagnia del 6°, ma sono respinti e subiscono molte perdite, tanto che Garibaldi chiede al generale Ritucci una tregua per soccorrere i feriti e seppellire i morti. Nello stesso tempo ordina all’ungherese Csudafy di recarsi con un migliaio di uomini verso Roccaromana, al confine meridionale dello Stato Pontificio, con lo scopo di tagliare le retrovie duosiciliane, ma la spedizione è intercettata e respinta.

Il 17 Garibaldi si reca a Palermo, dove in un improvvisato discorso annunzia che avrebbe marciato su Roma per liberarla. Lo stesso giorno, a Napoli, il sottintendente del distretto, insieme con un ufficiale garibaldino, chiede al maggiore Livrea di cedere il forte di Baia, ormai senza viveri. Al netto rifiuto opposto dal valoroso Livrea, il fortino è assediato per mare e per terra, impedendo qualsiasi collegamento con l’esterno. Nel frattempo il governo dittatoriale di Garibaldi emette un decreto con il quale i nuovi governatori liberali sono autorizzati a costituire la guardia nazionale.

Il 18, dopo continue insistenze di Francesco II, il generale Ritucci presenta un piano di attacco per riconquistare Napoli, ma con previsioni piuttosto fosche sulla tenuta dell’esercito e mostrandosi anche eccessivamente prudente.

Sempre il 18 iniziano gli scontri tra i piemontesi ed i pontifici. La preponderanza dei primi è tale che il piccolo esercito pontificio subito si sbanda. A stento il La Moricière riesce a salvarsi, fuggendo con pochi uomini verso Ancona. Il generale Pimodan, invece, dopo aver combattuto valorosamente, muore a causa delle ferite riportate.

In Sicilia, il mazziniano Antonio Mordini sostituisce come prodittatore Agostino Depretis per volere di Garibaldi.

Il 19, mentre si compie il miracolo dello scioglimento del sangue di S. Gennaro, i filibustieri del Rüstow tentano altri assalti a Capua, a Triflisco, a Piedimonte d’Alife, a Gradillo ed ancora a Caiazzo. A Capua non solo sono respinti con molte perdite, ma sono anche incalzati da quattro compagnie del 9° cacciatori e da due squadroni di cavalleria condotti dal tenente colonnello Negri fino a S. Maria. Lo stesso avviene a Triflisco, a Piedimonte e a Gradillo, mentre Caiazzo, a causa dell’esiguità delle forze poste a presidio, è occupata (e saccheggiata) dai garibaldesi, spinti avanti dal maggiore bolognese Cattabeni. Nel borgo si rinserrano e si barricano circa 1.500 garibaldini, che compiono le solite razzie. Vi è anche un tentativo di superare il fiume nei pressi di Triflisco da parte della brigata garibaldina comandata da Sacchi, che però è respinta dalle precise cannonate del capitano Tabacchi e dagli alfieri Ainis e Dusmet. Nello scontro si distingue il 14° battaglione cacciatori che fa anche prigionieri una ventina di garibaldesi con il loro ufficiale. Durante l’azione numerosi soldati duosiciliani si prodigano anche nel salvare i feriti garibaldini sull’altra sponda del fiume, ma due perdono la vita per la corrente troppo rapida durante il tentativo di soccorso.

Il giorno successivo Caiazzo è però ripresa per un rapidissimo e violento attacco del 4° cacciatori e dell’8° cacciatori, rispettivamente comandati dal colonnello La Rocca e dal maggiore Giovanni Delli Franci. Sono uccisi nel conflitto oltre 600 mercenari dell’ungherese Türr, mentre circa 300 sono presi prigionieri. L’alfiere Dioguardi cattura anche due bandiere al nemico, portandole al re Francesco II. All’assalto ha partecipato anche il vecchio maresciallo Rossaroll, che pur essendo in congedo, era salito a cavallo e si era gettato nella mischia, dalla quale era uscito ferito.

In questo episodio la popolazione civile ha affiancato le truppe duosiciliane, contribuendo a scacciare i garibaldini con ogni mezzo. Il successo riportato è però vanificato dalla lentezza del generale Ritucci che non sfrutta il momento favorevole inseguendo i garibaldini che sono letteralmente allo sbando.

SCONTRI IN ABRUZZO

Nello stesso giorno truppe volontarie, dell’entità di una brigata su quattro battaglioni, formate da gendarmi fuggiti dalla Sicilia, soldati sbandati e contadini di Terra di Lavoro, affidate dal ministro Pietro Ulloa al comando del colonnello Teodoro Klitsche de La Grange, riprendono Vallefredda, Roccaguglielmina e S. Andrea.

In pochi giorni numerose cittadine, tra le quali Cantalupo, Macchiagodena, S. Pietro Avellana, Fòrli del Sannio, Rionero del Sannio, Roccasicura, Cittanova e Castel di Sangro insorgono contro i “galantuomini” liberali e innalzano le insegne duosiciliane. Isernia è liberata e poi nuovamente occupata dai garibaldini della formazione Cacciatori del Vesuvio che, guidati da Teodoro Pateras, impongono un governo liberale presidiato da guardie nazionali.

I piemontesi iniziano l’assedio di Ancona che è continuamente bombardata da terra e dal mare.

Il 21 la brigata comandata dal Colonnello de La Grange riconquista Pontecorvo, Venafro e Piedimonte d’Alife mettendo in fuga le bande filibustiere chiamatesi “Cacciatori del Vesuvio” che subiscono molte perdite.

Il 23 a Teano vi è un’insurrezione degli operai della ferrovia contro i garibaldesi. Gli abitanti di Ariano Irpino, appoggiati dal 13° reggimento di linea duosiciliano in ripiegamento verso il Volturno, eliminano circa 140 persone tra esponenti liberali e guardie nazionali e innalzano i vessilli duosiciliani. Nelle vicine cittadine, dove la rivolta si è propagata, i collaborazionisti liberali sono tutti in fuga.

L’opificio di Sora e quello di S. Leucio sono saccheggiati ed incendiati dai garibaldini.

Il cardinale di Napoli Riario Sforza, minacciato da Garibaldi, è costretto ad abbandonare la città, imbarcandosi sul vapore Elettrico diretto a Marsiglia.

Sempre il 23 si tiene nel villaggio di Sparanise, tra Teano e Capua, un consiglio di guerra a cui partecipa anche Francesco II, che propone al Ritucci un piano d’attacco, probabilmente elaborato dal generale de La Moricière, ma ritenuto dallo stesso sovrano troppo complesso e articolato.

Il generale Ritucci il 24 emana un ordine del giorno in cui elogia il comportamento valoroso della truppa nei combattimenti ed anche la generosità nei confronti del nemico. Un caporale del 6° cacciatori, Agostino Gianfrancesco, è promosso sergente dal re proprio per aver soccorso i feriti nemici; è anche elogiato il sottufficiale Salvatore D’Angelo del 14° per gli stessi motivi.

Il 26 Garibaldi, viste le posizioni sguarnite da soldati duosiciliani, invia il gruppo dell’ungherese Türr formato da 1.500 armati ad assalire Ariano Irpino. Gli ungheresi, dopo aver massacrato un centinaio di abitanti, saccheggiano la cittadina e ne incendiano le case. Rimangono, tuttavia, ancora in mano agli insorgenti le zone a levante di Benevento e di Avellino. A Napoli, Romano, Pisanelli e altri si dimettono dai loro ministeri per contrasti con il prodittatore Bertani

Il 28 de La Grange libera Pico, S. Giovanni Incarico e Sora. Contemporaneamente i collaborazionisti organizzano in Abruzzo reparti formati da “galantuomini”. Sono così occupate dai liberali, dopo diversi scontri a fuoco, Campo di Giove, Palena, Taranta, Pettorano sul Gizio, Valleoscura, Rivisondoli, Roccaraso e Castel di Sangro.

LA PRESA DI ANCONA

Dopo otto giorni di bombardamento, la città di Ancona, cannoneggiata da terra e da mare, si arrende alle truppe piemontesi. Le salve delle fregate piemontesi Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e la Governolo, mentre la Maria Adelaide è tenuta di riserva, colpiscono e fanno scoppiare la polveriera situata sotto la Lanterna del porto, causando la morte di oltre 300 soldati pontifici.

Pur essendo stata chiesta la resa, i piemontesi continuano a cannoneggiare la fortezza fin quando non è firmato l’accordo finale. Dalle casse della fortezza sparisce un milione di franchi.

Il Papa Pio IX protesta con un’allocuzione di rara violenza contro i suoi “protettori” francesi che applicano a loro uso e consumo il principio di non intervento.

Nello stesso giorno arrivano a Torino i primi prigionieri pontifici di nazionalità francese che sono consegnati all’Ambasciata di Francia. Essi ricevono un trattamento di riguardo a differenza di quelli di origine irlandese e nazionali papalini, “ammucchiati in una lurida prigione” a Genova.

LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO

Il generale Ritucci, che già ha fatto passare inutilmente due settimane, consentendo ai garibaldini di riorganizzarsi, matura il suo piano di attacco con l’obbiettivo di sfondare le linee avversarie sulla sinistra del Volturno per poi proseguire verso la capitale. Tuttavia, in contrasto con il più semplice piano di guerra proposto dal Re, ha illogicamente diviso l’armata duosiciliana in due colonne per una manovra a tenaglia che avrebbe interessato un fronte di circa trenta chilometri, senza definire i collegamenti tattici tra esse. La 1ª colonna, comandata dal generale svizzero Luca Von Meckel, con obiettivo Maddaloni è a sua volta suddivisa in una Brigata al comando del colonnello Giovanni Ruiz de Ballestreros con il compito di assaltare Caserta Vecchia e poi ricongiungersi con Von Meckel a Maddaloni per prendere alle spalle la massa garibaldina, da tenere bloccata a S. Maria. La 2ª colonna a sua volta suddivisa in due brigate, una comandata dal colonnello Vincenzo Polizzy con obiettivo la direzione S. Angelo, S. Leucio e Caserta, l’altra ancor più frazionata, al comando del colonnello Giovanni D’Orgemont, con obiettivo S. Maria e Caserta. Le rimanenti unità della 3ª Divisione avrebbero dovuto tenersi pronte a concorrere all’azione attraverso Triflisco e S. Angelo. Il resto delle forze costituisce la riserva generale.

Il piano del Ritucci è concepito secondo le teorie scolastiche della strategia militare del momento, senza tener conto non solo dello schieramento, ma anche della consistenza dell’avversario, su cui non sono nemmeno state assunte informazioni preliminari. Sarebbe bastato attaccare, come lo stesso Francesco II aveva proposto, senza frazionare le forze e con il rincalzo di un’opportuna riserva, in qualsiasi punto dello schieramento nemico ed in due soli giorni si sarebbe arrivati a Napoli.

Il 30 si ribellano Isernia, Tagliacozzo ed Avezzano contro gli elementi garibaldini. I rivoltosi sono guidati dal contadino Vincenzo Di Ciurcio e dall’artigiano Senape, che anche se impreparati e senza armi, liberano le città. Durante i disordini, i popolani assaltano e saccheggiano anche il palazzo di Stefano Jadopi, liberale già dal ’48 e usurpatore delle terre demaniali.

Anche gli operai dell’Arsenale di Castellammare di Stabia si ribellano. Garibaldi, che ha certamente saputo del piano di battaglia di Ritucci, si reca a Maddaloni per ultimare le contromosse con Bixio impegnato a fermare assolutamente le truppe duosiciliane in quel settore.

Il governo provvisorio dell’Aquila emana un bando che minaccia: “qualunque prenderà l’arme per avversare in qualsiasi modo il movimento italiano sarà dichiarato nemico della Patria e fucilato”.

Si hanno numerosissime manifestazioni contro il nuovo regime da parte dei contadini del potentino e del materano che chiedono le terre demaniali di cui i notabili locali si sono già impossessati.

All’alba del 1° ottobre von Meckel, dopo una lunga e faticosa marcia d’aggiramento di circa 30 chilometri iniziata alle 12 del giorno prima, sbaragliate rapidamente le avanguardie nemiche a Valle e a Molino (dove vi muore il figlio Emil durante i combattimenti), scaccia Bixio da Monte Caro e s’insinua nello schieramento dei nemici, che sono costretti a ritirarsi a Maddaloni. Alla sua destra il Ruiz, sconfitti i garibaldini a La Nunziata ed a Castelmorrone, si attesta nel pomeriggio con tremila soldati, provati dalla lunga marcia e dai combattimenti, sulle alture di Caserta Vecchia, ma non comunica a Von Meckel la sua posizione.

Contemporaneamente i garibaldesi sono attaccati da Capua dal D’Orgemont che, pur avendo iniziato i combattimenti frontalmente anziché da Nord come stabilito, conquista S. Tammaro ed assalta S. Maria, mentre il Polizzy investe S. Angelo. In questi due punti Garibaldi, essendo sicuramente a conoscenza del piano d’attacco duosiciliano, lascia sguarnite le retrovie di Caserta, e fa convergere la sua riserva, che così, pur indietreggiando, può tenere a freno le truppe duosiciliane fino a sera. Lo stesso Garibaldi è sorpreso da un irruento attacco dei cacciatori duosiciliani, ma riesce a fuggire mentre è ucciso il suo cocchiere e ferito un ufficiale del suo Stato maggiore.

A S. Maria e a S. Angelo, durante i combattimenti, i popolani danno anch’essi il loro contributo attaccando i garibaldini come possono. In questo momento tutta la pianura davanti a Capua è in mano alle truppe duosiciliane. Diversi tumulti contro i garibaldini scoppiano nell’immediata periferia di Napoli quando giunge la notizia che l’esercito ha iniziato vittoriosamente la battaglia sul Volturno.

von Meckel, intanto, preoccupato perché non riusciva ad avere notizie né del Ruiz, né dagli altri fronti, con gli uomini stanchissimi per la lunga marcia e per le azioni compiute, si attesta sulle sue posizioni con circa 5.000 uomini. Non si attiene agli ordini del Ritucci che aveva previsto una sua rapida avanzata sulla destra, dove avrebbe dovuto accerchiare ed attaccare tutta la massa garibaldina alle spalle. Davanti a lui le posizioni avversarie sono praticamente vuote, ma effettivamente il compito affidato al von Meckel era troppo pesante. Nel pomeriggio, inoltre, numerosissimi garibaldesi, ritenendosi sconfitti, si sbandano, scappando verso Napoli.

Incredibilmente però alla sera lo stesso Ritucci, nonostante il parere contrario di Francesco II, che è stato sempre presente in battaglia, alle cinque del pomeriggio dà l’ordine alle provate truppe di ritirarsi da S. Angelo e da S. Maria per farle riposare in Capua, senza nemmeno considerare che l’intera divisione di riserva non è stata ancora utilizzata. Quattro compagnie duosiciliane e un battaglione al comando del colonnello De Corison, mentre stavano inseguendo i garibaldesi, ricevono dal colonnello D’Orgemont l’ordine di ritirarsi. Il Ritucci, infatti, non ricevendo notizie del Von Meckel, ritiene poco prudente proseguire l’azione, pensando di riprendere i combattimenti il giorno successivo, avendo ancora intatte le truppe. è un errore fatale.

A Tagliacozzo, in quelle ore, il popolo si solleva contro i liberali che si erano impossessati della cittadina.

Nella notte arrivano per ferrovia a Caserta, sbarcati il giorno prima a Napoli, due battaglioni piemontesi con un reparto di artiglieria, che Garibaldi invia immediatamente a fronteggiare von Meckel. Poi, vista la ritirata delle truppe duosiciliane a Capua, fa inviare per ferrovia gran parte delle forze che si trovano a S. Maria e a Caserta, dove stava affluendo da Aversa anche un reggimento piemontese comandato dal colonnello Corte.

Al mattino del 2 von Meckel inizia la sua avanzata su Caserta, dove si attesta nelle prime case, aspettando di unirsi con le forze del Ruiz cui aveva inviato un corriere. Il Ruiz, invece, inspiegabilmente abbandona le sue posizioni ritornando verso Caiazzo. Analogamente si era comportato in Calabria ad agosto, quando aveva abbandonato a se stesso il generale Melendez, costretto ad un armistizio con i garibaldesi.

Avendo i fianchi scoperti, dove si sta concentrando l’attacco dalle orde garibaldesche, il von Meckel, privo di notizie e della copertura delle truppe del Ruiz, decide di ritirarsi verso Capua, ma, nella critica manovra di ripiegamento, subisce vari assalti che gli procurano numerose perdite.

Il generale Ritucci, non avendo ancora avuto notizie del von Meckel, non riprende i combattimenti, consentendo così ai garibaldesi di concentrarsi nuovamente a S. Maria, facilitati dai movimenti effettuati con la ferrovia che permette un trasporto rapido e non affaticante.

Le perdite duosiciliane fino a quel momento sono di 308 morti, 820 feriti e 760 tra prigionieri e dispersi. I garibaldini hanno 306 morti, 1.328 feriti e 880 tra prigionieri e dispersi.

Resosi conto che la sua situazione è critica, anche per le forti perdite subite, Garibaldi chiede a Torino almeno 14.000 uomini.

Solo il 3 il resto delle truppe duosiciliane con von Meckel arriva a Capua, ma il Ritucci, informato del prossimo arrivo delle truppe piemontesi alle spalle, rimane indeciso sul da farsi, quantunque Francesco II lo sproni nuovamente all’attacco. è questo il momento di osare il tutto per tutto perché le forze garibaldine, senza l’appoggio piemontese, non hanno sufficienti capacità operative per le forti perdite subite.

I PIEMONTESI MARCIANO VERSO LE DUE SICILIE

Lo stesso giorno Vittorio Emanuele, giunto ad Ancona sulla Maria Adelaide, assume il comando supremo delle forze piemontesi e inizia a marciare verso Napoli attraverso le terre pontificie, motivando la sua aggressione con la necessità di ristabilire l’ordine anche nel Regno delle Due Sicilie.

A Napoli, in sostituzione di Bertani, giunge come prodittatore il sessantaquattrenne marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, massone come il Garibaldi e suo amico personale. Il Trivulzio, definito dallo stesso Cavour un imbecille, è colui che, collaborando attivamente con gli Austriaci nel 1821, aveva fatto condannare Silvio Pellico, Piero Maroncelli e Federico Confalonieri relegati nel carcere dello Spielberg.

Il 4, il valoroso maggiore Livrea, rimasto privo d’ogni sostentamento da quasi venti giorni, è costretto a cedere ai piemontesi, che hanno sbarcato altre truppe a Napoli, il forte di Baia, in cui erano custodite numerose armi e munizioni. L’arsenale di Castellammare di Stabia è devastato e saccheggiato dai piemontesi.

Ad Isernia, anch’essa occupata dai liberali, nel frattempo la popolazione si solleva, riuscendo a scacciarli ed a innalzare nuovamente le insegne nazionali duosiciliane. Il garibaldesco governatore di Campobasso costituisce un battaglione di volontari liberali del Sannio e rioccupa la città dopo un feroce combattimento, ma è costretto alla fuga dall’arrivo di una forte colonna di soldati duosiciliani fiancheggiata da migliaia di contadini armati.

Nella zona, in esecuzione dei “biglietti regi” (ordine di mobilitazione per i civili) di Francesco II, si sta formando anche un corpo di circa mille volontari comandato da Teodoro Salzillo con guardie urbane e soldati congedati. Questo battaglione occupa Venafro e Fornelli. Gli ordini di mobilitazione per i civili duosiciliani, tradizionalmente fedeli al re ed al suo governo, sono diffusi soprattutto nel Sannio, nel Molise e in Abruzzo, e legittimano ogni azione diretta a liberare il territorio dagli invasori e dai traditori.

Il 5 scoppiano tumulti a Capua tra le truppe duosiciliane che orgogliosamente vogliono riprendere i combattimenti.

A Torino, il 6, Cavour per giustificare l’intervento armato nelle Due Sicilie dice a Winspeare, rappresentante duosiciliano presso il Piemonte: “La guerra civile che infierisce nel Reame, dopo che il Re ha abbandonato la città capitale ed ha così abdicato quasi di fatto al trono, e l’assenza di un governo regolare, mettonvi in pericolo l’ordine sociale”.

L’avanzata piemontese provoca una crisi europea. La Spagna, l’Austria, e la Russia rompono le relazioni diplomatiche con Torino. Solo la Prussia si mostra indifferente. Interviene con immediatezza l’Inghilterra che con una pesante nota a tutte le cancellerie europee avalla l’azione piemontese. Cavour trasmette un dispaccio a Farini, dittatore di Napoli, ordinando di “ristabilire l’ordine a Napoli prima, domare il Re Francesco II dopo. Guai se si invertisse il modo di procedere” e spiega che “era da tenersi a calcolo il Convegno di Varsavia”. Questi ordini sono motivati dalla paura di una soluzione repubblicana.

Il 7, Silvio Spaventa ordina a Napoli un rastrellamento di persone sospette. Tra i nominativi vi è anche quello di Antonio Cozzolino, detto Pilone, che, nonostante un agguato tesogli a Boscotrecase dalle guardie nazionali, riesce a sfuggire alla cattura.

L’8, Garibaldi ordina un altro assalto al forte di Capua, ma i suoi uomini sono facilmente respinti e subiscono forti perdite.

A Villanova del Battista (Avellino) numerosi popolani disarmano la Guardia Nazionale e ripristinano la Guardia Urbana, costringendo il sindaco a festeggiare l’onomastico della regina Maria Sofia.

I PIEMONTESI INVADONO LE DUE SICILIE

Il 9, Vittorio Emanuele invia un proclama ai popoli dell’Italia meridionale in cui dichiara che si sarebbe attenuto alla loro volontà espressa in un plebiscito. Vi è una forte protesta dell’ambasciatore spagnolo a Torino contro la imminente invasione delle Due Sicilie da parte delle truppe piemontesi.

Nel frattempo i prigionieri pontifici di nazionalità svizzera e austriaca sono radunati a Bologna e, scortati dal 25° battaglione bersaglieri, inviati in patria, mentre circa 1.500 soldati duosiciliani, fatti prigionieri sul Volturno, sono inviati a Genova.

Il 10, il siciliano Vincenzo Florio rafforza la sua società di navigazione, alla quale è concessa, con l’anticipazione di un milione di lire per l’acquisto di sei vapori, l’appalto dei servizi postali lungo le coste dell’isola e con il continente. Dopo qualche mese Florio si accorda con il genovese Raffaele Rubattino, con il quale forma un’unica flotta forte di circa 81 navi.

L’11, lo scrittore prezzolato e ladrone Alessandro Dumas, a cui ilGaribaldi assegna la somma di 900.000 franchi, si appropria del Casino del Chiatamone, residenza estiva della Corte, e fa stampare il giornale “L’Indipendente” con lo scopo di diffondere false notizie a favore dei piemontesi. Lo aiuta per la traduzione dei suoi articoli in italiano un giovane napoletano che si chiama Eugenio Torelli Violler, lo stesso che fonderà a Milano il giornale “Il Corriere della Sera”.

Lo stesso giorno Garibaldi intima ai banchieri napoletani di “somministrarne sotto minaccia di fucilazione se ricusassero; a questo modo venne uno de’ primi banchieri di Napoli e sborsò uno o due milioni”. Intanto sbarca a Napoli la brigata piemontese Re composta di 2.500 uomini.

Il 12, l’esercito piemontese, forte di quarantamila uomini, varca i confini duosiciliani sul fiume Tronto, puntando verso Napoli. Ne fanno parte il IV corpo d’armata, comandato dal generale Cialdini, e il V corpo, comandato dal generale Della Rocca. I Granatieri di Sardegna sono inviati via mare a Manfredonia sotto il comando del De Sonnaz.

Sul ponte del Tronto l’esercito sabaudo è accolto dal De Virgilii, intendente di Teramo, e dal generale De Benedictis. Il piano piemontese prevede un’avanzata lungo la costa fino a Pescara, da dove, aggirata la Majella per due diverse direzioni, i due corpi si sarebbero dovuti riunire a Castel di Sangro per piombare alle spalle dell’esercito duosiciliano, obbligandolo ad una battaglia sul Garigliano e tagliandolo, quindi, fuori del confine pontificio. La colonna comandata dal De Sonnaz ha l’ordine di puntare su Napoli.

IMPOSIZIONE DI UN PLEBISCITO IN SICILIA

In Sicilia si svolge il plebiscito per l’annessione al Piemonte con la partecipazione al voto anche dei garibaldini e dei soldati piemontesi. I voti hanno come risultato 432.053 sì e 667 no. A Palermo, che ha circa 220.000 abitanti, si hanno 36.252 voti favorevoli all’annessione, contro appena 20 contrari. Numerosi tumulti di protesta sono soffocati. Lo stesso ministro Elliot, ambasciatore inglese a Napoli, scrive testualmente nel rapporto al suo Governo che “moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa”. E il ministro degli esteri inglese, Lord John Russel, scrive una nota cosí concepita: “I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore”.

Il Duca di Gramont da Roma così scrive al Ministro francese Thouvenel: “Tutte le notizie che giungono da Napoli concordano nel rappresentare il paese come decisamente ribelle all’annessione piemontese, e assai poco curante dell’unità italiana. Cacciano le autorità nuove, rialzano le armi di Francesco II. I Piemontesi, avvertiti dalle autorità cacciate via, mandano colonne abbastanza forti, che, dopo un po’ di fucilate, disperdono gli abitanti, e portano prigionieri, per giudicarli e fucilarli, i così detti capi del movimento che vengono loro denunziati. Appena partiti i Piemontesi gli abitanti rivengono; prendono quelli che hanno chiamato gl’invasori e li mettono a morte. Ma quel che è più curioso si è, che tuttociò accade in località che si suppone aver votato unanimemente per Vittorio Emmanuele!”.

La fortezza di Pescara si arrende ai piemontesi senza alcuna resistenza, mentre quella di Civitella del Tronto è aggirata e lasciata alle spalle. All’altezza di Chieti il V Corpo d’Armata segue la valle del fiume Pescara per Sulmona e Roccaraso. Il IV Corpo d’Armata prende la strada per Chieti, Bucchiànico, Guardiagrele, Càsoli, Lama de’ Peligni, Roccaraso. Questi percorsi attraversano gole abbastanza insidiose dove basterebbero poche forze per fermare gli invasori.

A Rocca Valle Oscura (chiamata poi Rocca Pia in onore della figlia del Vittorio Emanuele, Maria Pia) sono fucilati alcuni poveri montanari denunciati da un liberale del luogo, tale Costantini, per i moti di reazione avvenuti qualche giorno prima in località Scontrone.

Sul Volturno la sera del 14, trasportate per ferrovia, giungono al quadrivio di S. Angelo la Brigata piemontese Re ed una compagnia di bersaglieri per una forza di oltre tremila uomini.

Francesco II convoca a Calvi Ritucci intimandogli formalmente di riprendere i combattimenti, ma il generale oppone ancora una volta l’inadeguatezza delle sue forze.

A Latronico alcuni soldati duosiciliani ricostituiscono la Guardia Urbana e incitano la popolazione alla rivolta contro i liberali.

Il 15 sbarca a Napoli dalla nave Emperor una legione di 650 inglesi, pagati con denaro prelevato nelle banche napoletane.

Il governo dittatoriale garibaldesco emette un decreto di revoca della concessione firmata a suo tempo da Francesco II in favore del banchiere francese Talabot per la costruzione delle strade ferrate del Regno duosiciliano. La concessione è, invece, assegnata da Garibaldi ad una società costituita da Pietro Augusto Adami e Adriano Lemmi, che vi speculeranno in seguito la somma di 650 milioni di lire. Lemmi è il finanziatore della spedizione di Pisacane e Adami il maggiore finanziatore della spedizione di Garibaldi. Una parte di quella tangente serve a fondare a Napoli il giornale “Il popolo d’Italia”.

Il 16 è emanato un decreto che abolisce le frontiere con il resto d’Italia perché “le Due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia”. L’ambasciatore inglese Elliot rimane allibito da questa decisione presa prima ancora del plebiscito e lo comunica a lord Russell.

Anguissola con decreto di Garibaldi è nominato viceammiraglio, ma senza alcun comando nella Marina sabauda.

Il 17, una colonna di 500 filibustieri, con a capo il luogotenente di Garibaldi, Francesco Nullo, diretta a riconquistare Isernia, è sconfitta a Carpinone e Pettoranello d’Isernia dai contadini armati guidati da Teodoro Salzillo. Anche le donne, con scuri e di spiedi, partecipano allo scontro. I mille volontari di Salzillo consolidano il possesso di Isernia sconfiggendo un altra banda armata comandata dal governatore di Campobasso De Luca. Poi liberano Fòrli del Sannio dai garibaldesi, di cui sequestrano la cassa con 7.000 ducati. Dopo aver ripristinato in tutti i paesi della zona l’amministrazione duosiciliana, il Salzillo si reca a Gaeta con tutti i suoi uomini e i beni sequestrati per metterli a disposizione del Re. Negli scontri si sono avuti 1.265 morti

Il 18, i volontari inglesi, quasi tutti ubriachi, sono inviati contro le mura di Capua, dove sono falcidiati dai cannoni duosiciliani. Negli scontri muore anche il loro capobanda Dixon.

Nel frattempo giunge a Gaeta la flotta francese comandata dal viceammiraglio Le Barbier de Tinan, con il compito di proteggere lo schieramento duosiciliano dal Garigliano a Gaeta.

Il 19, a Palermo il prodittatore Mordini costituisce un Consiglio straordinario di Stato con il compito di emanare disposizioni per l’annessione della Sicilia al Piemonte. Del Consiglio fanno parte Michele Amari, Stanislao Cannizzaro e Francesco Ferrara

Le truppe piemontesi si riuniscono a Roccaraso e la sera del 19 l’avanguardia del IV Corpo d’Armata piemontese, circa 5.000 uomini, comandati dal generale Griffini, occupa la cima del monte Macerone.

Il primo scontro delle forze di Cialdini con quelle duosiciliane avviene al passo della Vandra, nei pressi del Macerone. Nella zona vi sono circa 2.000 soldati duosiciliani, al comando del generale Scotti, stanziati in quei luoghi per proteggere la zona dai facinorosi.

Il 20, i duosiciliani, durante un trasferimento, dopo aver messo in fuga alcuni reparti nemici di avanguardia, cadono in un’imboscata e, dopo un breve combattimento, sono circondati dai Lancieri di Novara e dal 9° reggimento fanteria, che catturano lo stesso Scotti, due colonnelli, 35 ufficiali con circa ottocento soldati. Anche questi prigionieri sono inviati a Genova nei campi di concentramento.

Isernia, triste e silenziosa per la fuga degli abitanti, è occupata facilmente dalle truppe piemontesi. Il resto dell’esercito duosiciliano riesce a ritirarsi verso Teano, dove si ricongiunge con il grosso delle truppe. Negli scontri i piemontesi fucilano alcuni civili che, per difendere le loro terre, avevano aiutato i soldati contro di loro. Il generale Fanti, vista la mala accoglienza tributatagli dalla eroica città di Isernia, fa fucilare dieci uomini per dare l’esempio, lasciando i cadaveri insepolti nella piazza per monito.

Sempre il 19, insorgono le popolazioni di San Severino, Castelluccio, Castronuovo, Calvera, Favale e Tursi.

A Carbone e a Castelsaraceno scoppiano il 20 altre insurrezioni. Cialdini, allora, da Isernia, emana un bando con il quale minaccia la fucilazione a chiunque sia trovato in possesso di armi. Sono arrestati numerosi sacerdoti.

LA FARSA DEL PLEBISCITO NEL NAPOLETANO

Il 21 viene imposto a Napoli e in tutte le province continentali del Regno un plebiscito. La votazione dà 1.032.064 sí e 10.313 no. In sostanza è interessato al voto poco più del 12% di circa sette milioni di abitanti. La formula sulla quale gli elettori sono chiamati ad esprimersi è: “Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele come re costituzionale per sé e i suoi legittimi successori?”.

Napoli è occupata da 50.000 tra filibustieri e piemontesi, coadiuvati dalla camorra, che presidiano i punti strategici della città. Davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale (Largo di Palazzo), sono poste, su di un palco alla vista di tutti, tre urne: una, dove sono le schede per il sì, ed una con quelle per il no. La terza urna è posta al centro dove sono depositate le schede prelevate dalle prime due. Si vota davanti ad una schiera minacciosa di garibaldesi, guardie nazionali e soldati. Il giorno prima erano stati affissi sui muri cartelli sui quali era dichiarato “Nemico della Patria” chi si astenesse o votasse per il no. Votano per primi i camorristi, poi i garibaldesi, che sono in maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno che tenta di votare per il no è bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, è assassinato. Poiché non sono registrati quelli che votano per il sì, la maggior parte dei camorristi e piemontesi va a votare in tutti e dodici seggi elettorali costituiti a Napoli. Alla fine della giornata, piemontesi e camorristi impazienti riempiono l’urna del sì a piene mani. Il costo del plebiscito che grava sull’erario della città è enorme: circa 300 milioni di franchi.

Allo stesso modo si procede in tutto il Regno, dove si vota solo nei centri presidiati dai militari e non mancano le solite violenze.

RESISTENZA POPOLARE CONTRO GLI INVASORI

Nell’Aquilano, per la fortissima reazione dei popolani, al plebiscito non partecipa quasi nessuno. Il governatore di Teramo de Virgili emana un proclama con il quale minaccia: “I villani presi con le armi alle mani saranno considerati reazionari e puniti con rito sommario. Colpite i reazionari senza pietà”.

A Camerino, un paese del Chietino di seimila abitanti, un popolano chiede che sia sistemata anche una urna per Francesco II, ma è schiaffeggiato da un liberale, tale de Dominicis. A questo gesto la popolazione corre immediatamente ad armarsi con scuri e pietre e assale il drappello di piemontesi che protegge le urne. Accorrono anche gli abitanti del vicino paese di S. Eufemio e nello scontro è ammazzato il de Dominicis, sono messi in fuga i piemontesi e le urne sono distrutte.

Il giorno dopo piombano sui paesi truppe piemontesi, garibaldesi e guardie nazionali che uccidono chiunque viene loro incontro. Le case degli abitanti di Camerino e S. Eufemio sono saccheggiate ed il bottino portato a Chieti.

Insorgono anche gli abitanti di Caramanico, Salle e Musellaro, dove sono di nuovo innalzate le insegne duosiciliane. La repressione da parte delle guardie nazionali e dei piemontesi vince però l’accanita resistenza degli insorgenti, i quali, guidati da un muratore, Angelo Camillo Colafella, sono costretti a rifugiarsi sui monti vicini.

Ad Isernia un forte gruppo di cittadini, contadini e popolani tenta di assalire i garibaldesi ed i loro fiancheggiatori, ma non avendo armi è costretto a desistere. A Cansano e ad Elice l’insorgenza è soffocata nel sangue dalle collaborazioniste Guardie nazionali che arrestano e fucilano i capi.

Vi sono altre insurrezioni a Controguerra, Bellante, Corropoli, Torano e Cermigliano. In Arzano un popolano che ha gridato “viva ‘o rre” è catturato dai garibaldesi e, per ammonimento, gli vien tagliato con le forbici il labbro inferiore.

Alle prime luci dell’alba del 21 anche a Carbonara, nell’alta Irpinia, si verifica una rivolta. Già la sera precedente i messi comunali, che distribuivano le tessere per il plebiscito, sono presi a sassate e le tessere strappate. Fino a notte fonda, bande di giovani corrono per le strade del paese gridando il nome del re Francesco. I contadini innalzano la bandiera delle Due Sicilie e strappano gli stemmi sabaudi, portando in processione per le vie del paese i ritratti del sovrano e della regina Sofia. La massa dei popolani si reca in chiesa, dove si svolge una funzione solenne col canto del Te Deum. I galantuomini sono assaliti e nove restano uccisi. Tra i morti vi sono il capitano della locale Guardia Nazionale Gaetano Maglione, la guardia Angelo D’Annunzio, i ricchi liberali Nicola Tartaglia, Gabriele Stentalis, suo nipote Isidoro Stentalis col figlioletto Michelino, un bambino di appena nove anni, Michele Cappa, il cancelliere comunale Francesco Areneo Rossi, il decurione Donato Tartaglia. Un altro, Giovambattista Coscia, è ferito gravemente. Alcuni, tra cui il sindaco Giacomo Giurazzi, si salvano con una rocambolesca fuga per le campagne circostanti. I cadaveri di alcuni uccisi sono mutilati, oltraggiati e precipitati per la ripa sottostante al paese. Altri rimangono insepolti per le strade deserte tutto il giorno e la notte successiva. Per tutta la giornata poi la folla dei rivoltosi saccheggia le case di alcuni uccisi, distrugge i documenti della cancelleria comunale e gli atti notarili.

Nel Gargano, sempre il 21, l’insurrezione inizia a S. Giovanni Rotondo e si estende a S. Marco in Lamis, a Cagnano, dove sono impedite le votazioni. A Lesina e a Poggio Imperiale, le votazioni sono invece fatte ugualmente, ma con una totale maggioranza contraria all’annessione. A S. Giovanni Rotondo ventidue tra guardie nazionali e “galantuomini” sono massacrati nelle carceri da parte degli insorti duosiciliani. Il governatore di Foggia, Del Giudice, accorre con numerosi banditi, ma respinto all’inizio da una furiosa reazione popolare, riesce a sedare le insorgenze nei giorni successivi con migliaia di uomini. Decine di popolani, anche se solo sospetti, sono fucilati dopo la cattura. Sono circondati e devastati i paesi di Roseto Valfortore, Accadia, Ascoli e Bovino.

In provincia di Catanzaro, a Cinquefronde, Coridà, Giffone, Dosà, Acquaro, Dinami e Maropati, le popolazioni insorgono contemporaneamente e nella zona si concentrano circa 700 armati, tra i quali numerosi soldati sbandati e la stessa guardia nazionale che fa causa comune con gli insorti. Violente sommosse si hanno anche a Cosenza.

Vi è anche un tentativo di sbarco presso Reggio Calabria da parte di truppe duosiciliane provenienti da Messina. Le sommosse sono soffocate con particolare violenza dall’intervento del reparto garibaldino “Cacciatori d’Aspromonte”, che solo a Cinquefronde uccide 16 persone.

In Basilicata le sommosse contadine impediscono del tutto le votazioni e sono proclamati governi duosiciliani ad Acerenza, Carbone, Castelsaraceno, Calvera, Cancellara, Episcopia, Latronico, Laurenzana, Favale, Tursi, Castronuovo, Sanseverino e Castelluccio. La repressione, però, ha ancora il sopravvento e centinaia di contadini disarmati sono arrestati dalle guardie nazionali, accorse dai paesi limitrofi, e trascinati incatenati a Potenza, mentre i loro miseri averi sono confiscati e le case distrutte.

Altre violente insurrezioni si hanno ad Avigliano, Muro Lucano, Picerno e Pietrapertosa. A Cancellara i seggi elettorali sono assaliti dalla popolazione che costringe le autorità e le guardie nazionali a rinchiudersi nel castello e nel convento dei Padri Riformati. A Marano, Casaprobe, Campotosto ed in altri vicini paesi i cittadini, con sul cappello una scritta con un No molto evidente, si levano contro gli annessionisti e li mettono in fuga.

In tutto il Regno sono numerosi i spontanei episodi di resistenza contro i garibaldini e i piemontesi considerati stranieri invasori.

Il 22, a Varsavia, i rappresentanti di Prussia, Russia e Austria si incontrano per decidere se intervenire in Italia in soccorso dello Stato Duosiciliano invaso. Il convegno, che dura fino alla fine del mese, termina senza alcun accordo.

Il 23, il generale Fanti emette il primo atto ufficiale contro la resistenza duosiciliana i cui partecipanti sono definiti «briganti», instaurando leggi di guerra, con corti marziali e pena di morte per chi resiste con le armi.

L’ARMATA SI POSIZIONA SUL GARIGLIANO

Alle notizie dell’avanzata piemontese su Isernia e Venafro, il generale Ritucci, per non farsi cogliere alle spalle e trovarsi tra due fronti, dà ordine il 22 di raccogliere tutti i reparti e di concentrarli a Teano.

Francesco II consiglia Ritucci di assalire i piemontesi con tutto l’esercito o in ogni caso di contrastarne l’avanzata sulla linea davanti a Isernia e Venafro. Ritucci, invece, sempre temendo di trovarsi accerchiato tra i garibaldini ed i piemontesi, preferisce arretrare su Sessa, lasciando libera il 25 la linea del Volturno. Nella fortezza di Capua rimane una guarnigione forte di quasi 10.000 uomini per la difesa della piazza militare. Le forze piemontesi, avvertite dai loro informatori, si dirigono così subito su Venafro, che occupano. Il Re, allora, sostituisce Ritucci con il generale Salzano, che ordina il 26 di posizionare l’esercito sul Garigliano.

Il 25, Cavour, con l’approvazione di Vittorio Emanuele, chiede al generale Della Rocca di incontrarsi con il comandante dell’Armata duosiciliana per invitarlo a cessare ogni resistenza e ad aderire al nuovo ordine di cose.

A Carbonara, il 26, il maggiore piemontese Moccia, con la truppa divisa in due colonne, entra nel paese quasi deserto. La notte precedente numerosi popolani si erano rifugiati nei pagliai e nelle masserie sparse per le campagne circostanti. L’ufficiale, dopo aver occupato il paese, in quattro giorni interroga quelli che sono rimasti ed arresta 122 uomini e 19 donne, compresi il giudice mandamentale del luogo, Domenico Paradisi, sospettato di aver incitato il popolo alla rivolta, e qualche prete.

L’INCONTRO DI TEANO

Lo stesso giorno avviene l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Vairano, presso il ponte di S. Cataldo, tra Caianello e Teano. Garibaldi chiede di conservare la luogotenenza almeno per un anno e di riconoscere le sue bande come facenti parte dell’esercito piemontese, ma ne ha un netto rifiuto. Il re scrive (in francese) al Cavour : “come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.

Sempre al 26 si incontrano, su richiesta piemontese, presso il quadrivio della Taverna della Catena, presso Caianello, il generale Cialdini ed il generale Salzano, al quale è prospettata una fusione dell’esercito duosiciliano e di quello piemontese, ma il Salzano respinge decisamente la proposta. I cavalleggeri che accompagnavano il Salzano sono catturati mentre erano in attesa della fine del colloquio.

EPURAZIONI E INIZIO DI UNA RESISTENZA TOTALE

A Napoli, Francesco De Sanctis avvia l’epurazione del personale docente dell’Università. Sono anche destituiti gli impiegati degli uffici pubblici ed esonerati i rappresentanti del governo di tutte le province. Gran parte della magistratura è epurata e, accanto ai nuovi magistrati designati, è istituita una commissione censoria con il compito di valutarne la condotta, soprattutto politica.

Pure il 26 scioperano le maestranze dell’arsenale di Napoli per motivi economici e nel corso dei tumulti il direttore e un assistente sono pugnalati. Entrano in agitazione anche gli operai di Pietrarsa.

Luigi Alonzi (detto “Mimmo o’ Chiavone”), appartenente ad una ricca famiglia di Sora, si pone alla testa di numerosi cittadini insorti nella Valle del Liri. Ha 38 anni, è un ex sergente del II Battaglione Cacciatori della Guardia Reale e, finito il servizio, aveva avuto un impiego come guardaboschi. I piemontesi gli hanno bruciato la casa.

L’offensiva di Klitsche, nel frattempo, ha un buon successo e, dopo aver occupato la Marsica e l’altopiano di Rocca di Mezzo, minaccia l’Aquila, incoraggiando le sollevazioni popolari nella regione montuosa tra Avezzano e Rieti.

Nello stesso tempo che l’esercito duosiciliano si posizionava, la retroguardia composta dalla Brigata Polizzy è incalzata il giorno 27 al villaggio Giusti dalle truppe di Cialdini, il quale tuttavia è costretto ad indietreggiare per il preciso tiro delle nostre artiglierie.

La Brigata del generale Mortillet, intuita la fase critica dei piemontesi, aggira la posizione nemica con una rapida marcia sulle alture di Cascano, da dove batte con l’artiglieria sui fianchi di Cialdini, caricato anche alla baionetta dal 9° Cacciatori. A S. Maria La Piana ed a S. Giuliano la ritirata dei piemontesi si trasforma in una fuga. La retroguardia rimane fino a sera padrona del campo, ma il Salzano prosegue testardamente nella sua scelta di posizionarsi sul Garigliano. Nella ritirata, alcuni uomini della legione inglese, evidentemente ubriachi, scambiano nei pressi di Calvi, il re Vittorio Emanuele ed il suo seguito per truppe duosiciliane prendendoli a fucilate.

Il 27 insorgono Marano, Cesaprobbe, Campotosto e Montereale. A Napoli gli operai di Pietrarsa sospendono i lavori imposti dai piemontesi, ma i collaborazionisti reprimono con ferocia l’agitazione.

Mentre i piemontesi riorganizzano gli sbandati nei loro reparti, il generale nemico Della Rocca pone l’assedio a Capua e il 28 intima la resa al governatore De Corné, che risponde compiendo delle sortite contro le truppe assedianti. Sortite che ripete anche nei giorni 29 e 31, soprattutto in direzione di S. Angelo.

Nello stesso giorno si sollevano i cittadini di Campli, Nereto, Controguerra, Torano e Corropoli, dove è instaurato nuovamente il governo legittimo duosiciliano. Reparti del 9° bersaglieri riescono a battere gli insorti di S. Vittorino, presso l’Aquila, disperdendoli nelle campagne.

Altre rivolte avvengono a Palmi in Calabria, dove la guardia nazionale ha 11 morti e numerosi feriti, e a Lanciano (Chieti), dove i popolani riescono a mettere in fuga la guardia nazionale.

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO

All’alba del 29 ottobre i piemontesi tentano di superare il Garigliano nei pressi della foce, dove è il ponte sospeso di Minturno. Tre volte tentano, ma sono respinti dagli assalti del 2° e del 14° Cacciatori, dal 3° di linea e dall’artiglieria del generale Matteo Negri che, ferito nei combattimenti, muore dopo qualche giorno. Quasi tutti quelli che avevano passato il fiume sono fatti prigionieri, quasi ottanta sono i bersaglieri caduti, i duosiciliani solo undici. Il maggiore Ferrara ed il maggiore Pagano fanno saltare sotto il fuoco nemico, i ponti sul Liri a Spigno ed a Pontecorvo.

Nello stesso giorno, il generale piemontese Pinelli, invade con le sue truppe Pizzoli, in Abruzzo, e, per dare un esempio agli insorgenti, ordina il saccheggio e fa incendiare le case, assassinando quanti tentavano di sottrarsi alle fiamme. Impone taglie, fa prigionieri e dà ordine di fucilare i più riottosi. Durante l’azione, il generale, colpito da una sassata alle spalle, è ospitato e curato dal farmacista Alessandro Cicchielli. Alla sera, stanco, requisisce fuori del paese la villetta dello stesso farmacista per passarvi la notte. Nel rovistare i cassetti dei mobili in cerca di preziosi, avendo trovato i ritratti di Francesco II e di Maria Sofia, la mattina dopo, davanti alla moglie implorante, fa fucilare il farmacista nel giardino.

Nei giorni successivi, vi è un’intensa attività diplomatica di Cavour presso Napoleone III allo scopo di convincerlo a spostare la sua flotta dal golfo di Gaeta.

Al largo di Gaeta le navi francesi, che avrebbero dovuto coprire dal mare l’esercito napoletano schierato sul Garigliano, secondo le promesse fatte da Napoleone III a Francesco II, si ritirano nella notte senza dare alcun avviso al Salzano.

Il 2, arriva la flotta piemontese a bombardare dal mare, ormai sgombro, le posizioni duosiciliane, che sono costrette ad assumere rapidamente una diversa linea di difesa sulla zona costiera e lungo la Via Appia, facendo perno su Mola di Gaeta (l’attuale Formia). Tra le navi che bombardano, vi sono anche quelle appartenute all’Armata di Mare duosiciliana comandate da ufficiali traditori.

La prima a passare il Garigliano sopra due ponti di barche costruiti più a valle di quello di ferro, credendolo minato, è la divisione piemontese del De Sonnaz, che assale le due compagnie del 6° battaglione Cacciatori formata da circa duecento uomini comandati dal capitano Bozzelli. Posti in buona posizione, attestate tra i canneti lungo la riva del fiume, ma bombardati anche dal mare, gli eroici duosiciliani non arretrano ed infliggono numerose perdite al nemico, fino a quando non sono decimati. Il loro glorioso sacrificio permette al grosso di retrocedere ordinatamente su Mola di Gaeta. I piemontesi subiscono nel combattimento numerose perdite, soprattutto tra i granatieri.

Il 4 novembre, il generale Pinelli dichiara lo stato d’assedio in tutto l’Abruzzo con un proclama criminale, una vera e propria aberrazione giuridica: “1. Chiunque sarà colto con arme di qualunque specie, sarà fucilato immediatamente. 2. Uguale pena a chiunque spingesse anche con parole i villani a sollevarsi. 3. Uguale pena a chi insultasse il ritratto del re o lo stemma di Savoia o la bandiera nazionale”.

Il generale Pinelli ordina numerose rappresaglie verso l’indifesa Valle Castellana, ove saccheggia e incendia Cesano, Cerqueto, Settecerri, Serra, Collegrato, Olmeto, Basto, Macchia di Sole, Santa Rufina e San Vito. Gli insorti, inferociti, dovunque trovano soldati piemontesi, piombano loro addosso e li massacrano. Il generale Della Rocca, spaventato dalle ferocissime incursioni degli insorti, dà l’ordine che “non si perdesse tempo a fare prigionieri, dato che i governatori avevano già fatto imprigionare molta gente”.

Nella piazza principale di Palma di Campania, nei pressi di Napoli, le truppe d’occupazione piemontesi fucilano un uomo, Biagio Simonetti, un ex soldato duosiciliano, soprannominato “Capputtiello”: la sua unica colpa è quella di portare, per ripararsi dal freddo, l’unico cappotto che aveva, quello della vecchia divisa militare e questo basta ai bersaglieri per considerarlo ancora un soldato in guerra contro di loro. Ancora oggi, nella cittadina campana, ricordano il truce episodio e lo raccontano.

Il Duca di Gramont scrive al Ministro francese Thouvenel: “Noi assistiamo agli ultimi sforzi dell’infelice Re di Napoli, che è per cadere tra qualche ora vittima dell’atto il più ributtante che sia possibile di concepire! Voi non potete immaginare quanto mai sia penoso il vedersi di buona o cattiva voglia mescolato ai patimenti di codesta agonia: ricusando un brano di corda all’annegato che si sommerge nell’acqua, o piuttosto agitandolo al disopra della sua testa, troppo corto perché possa afferrarlo. Scusate se vi parlo a cuore aperto: non parlo al Ministro, ma sì all’amico, all’antico collega, che, lo so istintivamente, pensa come me su molte cose. Vi assicuro che la mia missione diviene a poco a poco orribilmente disgustosa, e io metto in opera tutte le forze del mio spirito per temperare le mie impressioni”.

Il 6 novembre, circa diciottomila uomini dell’esercito duosiciliano con 3.500 cavalli, comandati dai generali Ruggero, Palmieri e Grenet, attraversano i confini dello Stato Pontificio e si acquartierano a Terracina. Il gruppo è costituito da 2 reggimenti ussari, 1 di dragoni, 2 di lancieri, 4 di cacciatori, 4 battaglioni di fanteria, 4 batterie, 100 gendarmi e una compagnia del genio. La maggior parte dei soldati è reduce dalla Sicilia e dalla Calabria. Solo pochi hanno avuto l’opportunità di dimostrare il loro valore in veri combattimenti ed hanno dovuto ritirarsi più per i tradimenti e per l’incapacità dei comandanti che per le sconfitte sul campo. I generali De Sonnaz e Isasca tentano di indurre questi militari a passare armi e bagagli nelle forze piemontesi, ma nessuno accetta. Le autorità pontificie, per evitare attriti con la Francia e con il Piemonte, negano il libero passaggio verso l’Abruzzo e la Terra di Lavoro. Passano, così, solo piccoli gruppi, mentre il grosso, concentrato a Velletri, è disarmato dalle truppe francesi

Il resto dell’armata duosiciliana si attesta nell’area della penisola di Gaeta. Durante l’apprestamento delle difese, avvengono varie scaramucce con le forze piemontesi che si accingono all’assedio. Napoleone III fa ancorare la flotta francese nel golfo apparentemente per difendere Francesco II, ma in realtà per impedire che altre flotte possano intervenire.

QUESTIONE MERIDIONALE E TANGENTOPOLI

Intanto l’economia delle Due Sicilie sta subendo un tracollo vertiginoso. I movimenti commerciali nei porti e gli scambi commerciali con l’estero sono letteralmente azzerati. Si ha una fuga di capitali dal commercio verso le rendite, che tuttavia incominciano a perdere il loro valore. Tutte le attività produttive si arrestano e cresce la disoccupazione in ogni settore. I generi di prima necessità incominciano a scarseggiare e aumenta il carovita.

Nei territori occupati sono applicate le tariffe doganali piemontesi nel quadro di una politica liberistica che mette in ginocchio le industrie duosiciliane ancora in attività. è imposta la bandiera piemontese, le leggi piemontesi, i codici piemontesi, le uniformi piemontesi, le abitudini piemontesi, l’orario piemontese.

è abolito il Concordato stipulato con lo Stato Pontificio, sono sequestrati e venduti tutti i beni ecclesiastici, per i quali il Piemonte incassa 600 milioni di lire. Tali beni sono acquistati a prezzi irrisori dai collaborazionisti liberali, che, tra l’altro, si servono proprio della scomunica, comminata dal Papa per gli acquirenti, per allontanare i contadini dalle aste di vendita delle terre. Questi, che fino allora avevano lavorato quelle terre, sono scacciati dai nuovi proprietari.

A Torino il deputato Giuseppe Ricciardi presenta un’interpellanza sulla situazione meridionale, denunciando la chiusura delle fabbriche e la conseguente disoccupazione di migliaia d’operai, l’inasprimento delle tasse e il livellamento delle tariffe doganali, l’abbandono dei contadini rimasti privi di terra da coltivare e senza prospettive. L’Università di Napoli è in pratica deserta, anche perché sono state assegnate cattedre a collaborazionisti solo per dare loro uno stipendio. Quantunque tutte le scuole siano chiuse, il loro bilancio è più che raddoppiato, mentre tutta l’amministrazione dei territori meridionali ora si trova in uno spaventoso deficit a differenza di quando c’era l’amministrazione borbonica durante la quale si pagavano pochissime tasse ed il bilancio era in attivo. Numerose terre demaniali sono state cedute a prezzi irrisori a personaggi equivoci. Egli chiede che sia svolta un’inchiesta parlamentare. Ma il governo insabbia la proposta.

A Torino il nuovo ministro dei lavori pubblici, Ubaldino Peruzzi, approva la concessione, a P.A. Adami, dell’appalto per la costruzione di ferrovie nell’ex reame delle Due Sicilie. A Crispi ed a Bertani è pagata una tangente di 65.000 franchi per il loro interessamento.

Iniziano la «questione meridionale» e le infinite «tangentopoli» della neonata Italia. Fino ad oggi non se ne vede ancora la fine.

(Tratto dal libro “DUE SICILIE, 1830 – 1880” di Antonio Pagano)

Antonio Pagano

fonte http://www.adsic.it/2002/04/10/breve-storia-delle-due-sicilie/#more-28

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